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L'espressionismo

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Ernest Ludwig Kirchner, ritratto di Gerda, 1914
L'arte che va sotto il nome di "espressionista"è forse tra le più facili da spiegare a parole: privilegia l'aspetto emotivo della realtà a scapito di quello visibile con un occhio oggettivo. Il termine non è troppo felice, perché sappiamo di esprimerci tutti in ogni cosa che facciamo o non facciamo, ma fu scelto come etichetta utile perché contrapposto a "impressionismo".
L'espressionismo si sviluppò attorno al 1905 nell’atmosfera di disagio e turbamento che precedette la guerra del 1914, in particolar modo in alcuni paesi d'Europa:  in Francia con i Fauves, (le Belve), in Germania con il gruppo Die Brücke Der Blaue Reiter e in Austria. Il movimento non riguardò solo solo le arti figurative, ma anche la letteratura, la musica, il teatro, la scenografia e l'architettura.

Dal punto di vista pittorico l'espressionismo si presentò come una netta reazione all’impressionismo, di cui rifiutò l’obiettività e l’ottimismo scientistico. Terra d’elezione dell’espressionismo fu in maniera specifica la Germania, con gli studiosi e storici dell'arte Conrad Fiedler, Theodor Lipps e Worringer. Di quest'ultimo uscì nel 1908 Abstraktion und Einfühlung; testo che concentra l'attenzione sull’irriducibile determinazione del creatore, nonché sul processo di deterioramento dei rapporti tra uomo e mondo esterno, tradito dal grado più o meno estremo di stilizzazione astratta.

L’espressionismo maturò in anni in cui si trasformarono i riferimenti culturali: l’intera Europa riscoprì i suoi "primitivi" e le arti di popoli lontani (Africa, Oceania, America settentrionale ed Estremo Oriente) soppiantarono il classicismo greco-romano. I tedeschi recuperarono il gotico e Grünewald, i belgi Bruegel, i francesi gli affreschi romanici e i dipinti del XV secolo. Si riscoprì El Greco. La varietà delle fonti d'ispirazione spiega la diversità delle opere, tanto più che i precursori immediati dell’espressionismo arrivarono da orizzonti molto disparati.

Matisse, ritratto con riga verde, 1905
Il norvegese Edvard Munch, l’olandese Vincent van Gogh, il belga James Ensor, cui può aggiungersi il francese Toulouse-Lautrec, contribuirono al formarsi del clima degli anni a cavallo del secolo. Ensor fu il più precoce, ma di risonanza limitata. L’opera di Van Gogh conobbe maggiore diffusione e fornì una più vasta base teorica, dando al colore una potenza simbolica ed espressiva ancora inedita. Munch evidenziò perfettamente gli stretti rapporti che intercorsero agli inizi tra simbolismo ed espressionismo. L'idea di considerare Lautrec un precursore dell’espressionismo potrà forse sorprendere, ma una parte della sua tematica, il suo gusto dell’ellissi, lo stridore della tavolozza ne fanno, sotto molti aspetti, un fratello spirituale dei tedeschi. Quel che avvicina questi artisti è, da un lato, l’importanza dell’esperienza vissuta, il doloroso inserimento nella società, e dall'altro, dal punto di vista tecnico, il primato conferito al colore.

Le opere di questo movimento suscitarono pareri negativi da parte del pubblico. Erano come caricature serie e rappresentavano la nuda verità senza filtri o addolcimenti. Ma ciò che disorientò il pubblico nell'arte espressionista non fu tanto la deformazione della natura, quanto la violenza fatta alla bellezza. Non era previsto fino a quel momento che un artista imbruttisse invece di idealizzare. L'espressionismo, rifiutò il concetto di una pittura tesa al piacere della vista, spostando la visione dall’occhio, all’interiorità più profonda dell’animo umano.

Franz Marc, Tirolo, 1914
Gli artisti espressionisti sentirono profondamente la sofferenza umana, la miseria, la violenza, la passione, così tanto da ritenere poco onesto insistere sull'armonia e la bellezza nell'arte. Volevano affrontare i crudi fatti dell'esistenza esprimendo la loro compassione per i diseredati e i brutti, evitando tutto ciò che sapesse di grazia e di rifinitura, scandalizzando i borghesi e scuotendone la compiaciuta soddisfazione, reale o immaginaria che fosse.

Purtroppo questo movimento riuscì a provocare la collera e la sete di vendetta di uomini meschini. Quando salirono al potere i nazionalsocialisti nel 1933, tutta l'arte moderna fu bandita dalla Germania e i maggiori esponenti del movimento furono esiliati o fu loro vietato di lavorare. Il periodo tra le due guerre vide da un lato la fine dell’espressionismo propriamente detto in Germania, e dall’altro il costituirsi, partendo da altre fonti e su temi diversi, di tendenze espressionistiche periferiche.

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Tra gli artisti espressionisti che scandalizzarono pubblico e potenti con la loro arte ritroviamo: Matisse, Vlaminck,Derain, Marquet,Ernest Ludwig Kirchner, Emil Nolde, Wassilj Kandinskij, Franz Marc, Oscar Kokoshka, Kathe Kollwitz, Ernst Barlach, Alexej Jawlensky, Egon Schiele, ecc... Certo molti di loro svilupparono percorsi diversi, ma tutti si trovarono a toccare l'espressionismo. La dottrina dell'espressionismo in sé stessa incoraggiò indubbiamente l'esperimento e il concetto di mettersi alla prova. E il passaggio successivo nella storia dell'arte porterà a chiedersi se l'arte non si sarebbe elevata abbandonando ogni riferimento al mondo oggettivo e basandosi solo su effetti di colori e forme.
Ma questa è un'altra storia...

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Questo post si avvale di contributi bibliografici vari che potete consultare qui

10 momenti di ...

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Con la fine dell'inverno arriva una nuovissima serie di video prodotta da Artesplorandochannel in collaborazione con il blog La sottile linea d'ombra: 10 momenti di ...
Si tratterà di brevissimi video in cui cercheremo di raccontarvi con 10 opere delle sensazioni, dei temi o dei percorsi trasversali alla storia dell'arte. Una nuova sfida per noi e un modo per raccontare l'arte alla portata di tutti.
Le puntate di questa web-serie non avranno una cadenza precisa, per rimanere aggiornati basterà
iscrivervi al canale e seguire le uscite dei video all'interno di una playlist apposita con il nome 10 momenti di ...
Non vi anticipo altro!

Buona visione.

C.C.

Der Blaue Reiter, il Cavaliere Azzurro

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Wasilij Kandinskij, composizione VII
Il movimento Der Blaue Reiter, in italiano Il Cavaliere Azzurro, nacque dall’incontro a Monaco nel 1911 di Wasilij Kandinskij e Franz Marc, ma anche questo, come del resto i fauve, ebbe breve durata. In ordine di tempo fu il secondo gruppo fondamentale dell'espressionismo tedesco, dopo il Die Brücke fondato a Dresda nel 1905.
Tra Marc e Kandinskij si creò un'intesa immediata riguardo ai fini dell'arte: infatti entrambi ritennero che lo scopo della ricerca artistica fosse il rinnovamento dello spirito, anche come importante obiettivo sociale.

Il nome del gruppo dipese dalle opere di Kandinskij, che proprio in quel periodo si trovò a dipingere diversi cavalieri (un quadro del 1903 ha come titolo Cavaliere azzurro) e dal colore blu che Marc riteneva il più puro in assoluto,  il colore della spiritualità. 
Attento agli impulsi delle avanguardie, Il cavaliere azzurro si diresse verso cromie vivaci e un atrattismo "musicale".

L'almanacco del 1912
Presto si unirono ai due fondatori anche August Macke, Paul Klee e Alexej von Jawlensky. A differenza del Die Brücke, il gruppo di Monaco non scrisse mai un programma preciso, ma ebbe solamente tra principali caratteristiche:

  1. Fu un gruppo cosmopolita, quindi non si fossilizzò solo sulla cultura di una nazione, ma rimase sempre aperto a idee nuove.
  2. Fu trasversale nelle tecniche artistiche, non concentrandosi solo sulla pittura.
  3. Attribuì al colore un valore simbolico, lottando contro il naturalismo in favore di una liberazione delle forme e verso l’affermazione di valori spirituali.
Il folklore russo, caro a Kandinskij e a Jawlenskij, fu alla base di questo movimento, insieme alle stilizzazioni decorative dello Jugendstijl e alle contaminazioni con i fauves francesi. Il Die Brücke nel suo percorso percorso artistico, generò un "espressionismo realista", molto crudo e pervaso di temi politici e sociali. Il cavaliere azzurro invece portò in sé un marcato lirismo, un’apertura alla poesia e la riscoperta della forza spirituale delle decorazioni armoniche.

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Gli artisti del gruppo crearono un almanacco, chiamato anch'esso Der Blaue Reiter, che inizialmente doveva essere un periodico, ma poi uscì come versione unica nel 1912, ristampato nel 1914. Nello stesso periodo Kandinskij si diede alla scrittura, realizzando Über das Geistige in der Kunst (Sullo spirituale nell’arte) col quale cercò di far capire al pubblico le nuove funzioni dell’arte. L'artista descrisse il rinnovamento spirituale che, secondo lui, stava coinvolgendo tutte le arti, non solo la pittura. Grazie al passaggio verso l'astratto e l'elementare, vide affine agli intenti del movimento sopratutto la musica, citando compositori a lui contemporanei come Arnold Schönberg, ma facendo riferimento anche a Richard Wagner e Claude Debussy.

Kandinskij, tra i pittori del suo tempo, ammirò molto Henri Matisse per il colore e Pablo Picasso per la forma.
Nel suo libro, l'artista affrontò anche il tema dell’effetto psicologico del colore e delle forme sulle persone: da esso doveva prendere vita una composizione pittorica. Per usare le sue parole: "una combinazione di forme colorate e disegnate che, come tali, esistono in modo indipendente, provengono dall’intima necessità e, nella vita in comune che si è creata, costituiscono una totalità che si chiama quadro". Idea che si concretizzò nell'opera Composizione V.

Franz Marc, mucca gialla, 1911
L'altro fondatore del movimento, Marc, elaborò uno stile molto personale, diverso da quello dell’amico Kandinskij. La sua pittura fu caratterizzata da un forte antinaturalismo in conseguenza delle sue considerazioni sul colore. Antinaturalismo che diventò veicolo simbolico dei colori e accentuata semplificazione delle forme: tutti concetti che troviamo nella Mucca gialla e nei Grandi cavalli blu, simbolo nello stesso tempo di purezza e libertà. 
Il gruppo si sciolse nel 1914 con lo scoppio della Grande Guerra, ma la basi da esso gettate furono le fondamenta che poi lo stesso Kandinskij utilizzò nella prima affermazione dell’astrattismo.

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Die Brücke, un ponte tra l'artista e il mondo esterno

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Emil Nolde, natura morta con maschere
Il movimento Die Brücke, in italiano Il ponte, nacque nel 1905 dal lavoro di quattro studenti di architettura, arrivati alla pittura come autodidatti, nella Technische Hochschule di Dresda.
Alla pittura si dedicarono poi solo tre di essi: Ernest Ludwig Kirchner (1880-1938), Erich Heckel (1883-1970) e Karl Schmidt-Rottluff (1884-1976). Al nucleo originario si unirono presto Emil Nolde (1867-1956), Max Pechstein (1881-1955), Otto Mueller (1874-1930) e altri personaggi minori. Vennero poi invitati amici e collezionisti a svolgere perlopiù il ruolo di membri "passivi" del gruppo, non svolgendo attività di creazione artistica.

Nella Germania guglielmina, a cavallo tra Otto e Novecento,  l’idealismo postromantico di artisti come Marées e Böcklin toccò questa giovane generazione. Ma anche le lezioni straniere diedero il loro contributo alle basi del Die Brücke: Munch espose a Berlino nel 1892 con grande clamore; all’inizio del secolo, Gauguin, Cézanne, Lautrec, Van Gogh vennero esposti a Berlino (1903), a Monaco (1904) e a Dresda (1905). Gauguin acuì il tema della nostalgia del paradiso perduto, dell’unione tra uomo e natura in un universo liberato da ogni ipocrisia e dalla nozione di peccato.

Prima dei pittori di Die Brücke, Paula Modersohn-Becker, che fece parte del gruppo simbolista di Worpswede, si ispirò a Gauguin per tradurre un’espressività ancora contenuta e meditativa. Ma furono proprio Kirchner, Heckel, Schmidt-Rottluff e Pechstein che trassero da tutti questi suggerimenti sollecitazioni forti che si tradussero in una pittura di grande sintesi espressiva.

Die Brücke si qualificò quindi per il lavoro strettamente comunitario, l'importanza e la qualità delle realizzazioni grafiche (soprattutto incisione su legno), il colore ripartito in zone piatte, e un erotismo deliberato. Per alcuni anni Die Brücke riuscì a conciliare le due tendenze conflittuali che avevano già contrapposto Gauguin e Van Gogh: la solitudine nella natura e gli intimi scambi a livello di gruppo.

Ernst Ludwig Kirchner,
Pannelllo pubblicitario per una mostra della Brücke
alla Galleria Arnold di Dresda nel 1910
Die Brücke fu un movimento isolato a Dresda e per questo motivo sulla scia di Pechstein, gli artisti si stabilirono a Berlino, in cui speravano di trovare un ambiente più aperto. Esposero presso Herwarth Walden, nella galleria Der Sturm, che doveva ben presto imporre universalmente il termine "espressionismo". Esso venne riferito nel 1911 a una scelta di tele di fauves francesi presentate alla Secessione berlinese. La rapidità degli scambi e delle trasformazioni, oltre al ruolo svolto da Walden, contribuirono non poco a rendere la nozione di espressionismo assai complessa.

Die Brücke rappresentò il cuore originario dell’espressionismo tedesco. Il nome, pensato da Kirchner e Schmidt-Rottluff, voleva mettere in evidenza gli obiettivi del gruppo: cioè la volontà di staccarsi da una tradizione figurativa statica e opprimente, creando un "ponte" fra l'emotività dell’artista e la realtà che lo circondava. Un ponte quindi tra l’artista e il mondo esterno che in quegli anni stava cambiando ed evolvendo in tutti i campi.

Il programma del gruppo espressionista "Die Brücke"
xilografia realizzata da Ernst Ludwig Kirchner
Gli artisti del Die Brücke si discostavano dai Fauves francesi, perché credevano ancora nell'importanza del soggetto rappresentato nel dipinto. I temi principali affrontati da questi pittori furono: la vita nella metropoli, l’erotismo, la violenza militare (Kirchner), l'emozione e la fede religiosa (Nolde), l’angoscia psicologica causata dal disagio sociale. 
La xilografia diventò una delle tecniche predilette perché particolarmente adatta nella resa dei forti contrasti cromatici e dei tratti deformati tipici di questo gruppo. Una scelta che prese spunto dal passato, dall’estetica cruda e audace delle incisioni su legno realizzate verso la fine del Quattrocento. Le xilografie create da Kirchner furono le più efficaci, forse perché l'artista aveva da subito compreso le qualità e le possibilità di questa tecnica: la medesima grafica poteva essere prodotta in molti esemplari, raggiungendo un pubblico molto più ampio a differenza di un quadro a olio.

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Per divulgare le idee del gruppo ed entrare in stretto contatto con il grande pubblico, vennero creati dei giornali e delle riviste. Tra i più famosi ricordo: Der Sturm (1909), Die Action (1911) e Relovution (1913) che avranno il compito di far conoscere gli artisti a livello nazionale. Der Sturm venne fondata nel 1909 da Herwarth Walden e presto divenne la più famosa: vi lavorarono, tra gli altri, l’architetto Adolf Loos e il pittore e drammaturgo Oskar Kokoschka.
Nel 1913 l'avventura del gruppo terminò a causa delle divergenze artistiche nate tra i componenti soprattutto dopo il trasferimento di Kirchner a Berlino nel 1911.
I singoli artisti erano ormai indipendenti e i vincoli dell'attività del gruppo non erano più sopportabili perché visti come ostacoli alle espressività maturate individualmente.

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Les Fauves, le belve dei colori

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Andre Derain, donna in camicia
Abbiamo già visto come Van Gogh e Gauguin fecero sentire la loro influenza su una vasta schiera di artisti che animarono l'espressionismo.
Entrambi incoraggiavano ad abbandonare le sofisticherie di un arte estremamente raffinata per forme e schemi cromatici schietti e immediati. Spinsero ad amare intensamente i colori semplici e le audaci armonie "barbariche" e a rifiutare le sottigliezze.

Nel 1905 un gruppo di giovani pittori conosciuti come Les fauves (che significa "bestie feroci" o "selvaggi") allestì una mostra a Parigi che avrebbe cambiato le sorti della storia dell'arte (Salon d'Automne). Il fauvismo fu il primo movimento espressionista europeo ma, a differenza dei successivi, non nutrì interesse per le questioni politico-sociali. Il rifiuto palese delle forme naturalistiche e il gusto per i colori forti, diede loro questo nome. In verità i loro vi fu ben poco di selvaggio.

Esposizione dei Fauves
al Salon d'Automne di Parigi nel 1905,
da L'Illustration
I tedeschi giudicarono i fauves espressionisti quando conobbero i loro quadri. Confronti più recenti hanno consentito di meglio definire i termini di una simile identificazione. In primo luogo i fauves furono soprattutto pittori; e gli espressionisti tedeschi incisori. In Francia il modo di stendere il colore
era assai diverso, e così pure lo spirito stesso della pittura era di una leggerezza ancora naturalista.

Henri Matisse (1869-1954) fu il più famoso del gruppo. L'artista partì dallo studio degli schemi cromatici dei tappeti orientali e delle suggestioni nordafricane, sviluppando uno stile che ha influenzato molto il disegno moderno.
Il fauvismo fu una meteora di breve durata, già verso il 1907 era ormai passata, ma la sua influenza  sull'evolversi dell'arte contemporanea fu importantissima e durevole.

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La meteora artistica del fauvismo ebbe tutto il merito di dare un taglio netto all'idea che legava l'arte all'imitazione naturalistica della realtà. Per fare questo gli artisti del movimento fauve usarono i colori primari in maniera sfacciatamente antinaturalistica: non c'è quindi da stupirsi nel trovare alberi viola e figure umane rosse, scelti ed accostati in modo libero e arbitrario. Questi pittori si facevano guidare dall’armonia della composizione, affidando l'idea della profondità alla visione di scorcio su un unico piano e al contrasto cromatico, invece che alla prospettiva.

I maggiori esponenti del fauvismo furono, oltre a Matisse: Marquet, Derain, de Vlaminck, Braque, molti dei quali erano stati allievi di Gustave Moreau, il cui insegnamento aveva dato un contributo fondamentale alla nascita e allo sviluppo del movimento.

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ArteFiera compie 40 anni: esplorazioni sempre nuove alle frontiere del contemporaneo

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Un evento composito che anno dopo anno sa rinnovarsi e sorprendere in positivo: ArteFiera rappresenta l’essenza dell’arte contemporanea e dimostra di non invecchiare, mai. Questo grazie alla collaborazione tra Bologna Fiere, Comune di Bologna e diverse istituzioni culturali cittadine: questo, negli anni, ha garantito il progressivo coinvolgimento di tutto il tessuto urbano alla manifestazione artistica. È così che quella che in origine doveva essere solo una fiera, ovvero un mercato dell’arte, si è trasformata in occasione celebrativa, espositiva e didattica. ArteFiera da qualche anno non è più solo punto di ritrovo per i collezionisti, ma anche evento imperdibile per tutti gli appassionati che vogliono mantenersi aggiornati, letteralmente, sullo “stato dell’arte”. Nei giorni della manifestazione, Bologna diventa una galleria en plein air: prima con Art First poi, dal 2013, con Art City, l’arte contemporanea si dissemina nei Palazzi e nei luoghi storici del centro, creando un esclusivo percorso espositivo che attrae con le sue sorprese inaspettate.

Probabilmente, uno dei segreti che ha portato ArteFiera al successo di quest’anno con 58mila visitatori è anche la diffusione online dell’evento, attraverso i social network su cui sono proliferati decine contenuti (video, foto, commenti) professionali o amatoriali. Con l’hashtag #artefiera, #artefiera2016 e #artefieraselfie i visitatori hanno potuto costruire il proprio racconto dell’evento e interagire con esso. L’interattività ha dunque fatto il paio con la multimedialità (attraverso giornali, riviste, social network, televisioni, radio, …) per garantire promozione, seguito e affluenza.
La kermesse si è aperta magnificamente giovedì 28 gennaio con l’incontro con Lindsay Kemp, storico performer inglese. Kemp ha parlato della propria arte e del rapporto con David Bowie, rievocato attraverso le musiche al pianoforte di Maurizio Baglini. Il ricordo è stato struggente e l’omaggio dovuto. Kemp ha anche auspicato che ArteFiera possa mantenersi e continuare per altri quaranta e più anni, specialmente come vetrina per dare la possibilità ai giovani artisti di farsi notare.
Venerdì 29 gennaio, invece, uno dei main event è stata la proiezione al Teatro Comunale di “Rivers of Fundament”, il kolossal mitologico post-contemporaneo creato dal genio esuberante di Matthew Barney, artista californiano laureato a Yale. Lo spettacolo è partito poco dopo le 17.30 ed è stato introdotto dall’intervento di Duccio Campagnoli. Il presidente di Bologna Fiere ha in particolare sottolineato l’esclusività di una proiezione filmica di grandi dimensioni nel Teatro Comunale di Bologna. Il film, uscito nel 2014 e presentato dal Manchester International Festival, è ormai considerato un capolavoro e nel 2015 è stato proiettato anche al MoCA (Museum of Contemporary Art) di Los Angeles.



Certo, la visione di un film così lungo e complesso è un’esperienza artistica del tutto unica, estremamente coinvolgente ma anche estenuante. E, per il regista, avendo quasi sei ore di girato da proiettare, sicuramente il problema è mantenere alta l’attenzione del pubblico. Come c’è riuscito? Il trucco è il repentino cambio di genere che si ha periodicamente durante il film. È così che assistiamo ad un'opera lirica che è una performance che è un concerto jazz che è un videoclip pop che è uno spot pubblicitario che è un musical che è un documentario. Davvero, all’interno di questo film sono compresi praticamente tutti i generi di spettacolo che conosciamo. Ma la vera protagonista è la musica: la sensibilità del compositore Jonathan Bepler, che ha curato la colonna sonora, è infatti raffinatissima. Anche la trama è affascinante e profonda, anche se la sovrabbondanza di materiale e la sovrapposizione di simbolismi lo rende piuttosto ermetico. Geniale ed eccentrica l’idea di ambientare un’epopea mitologica in fogne cittadine e concessionarie Chrysler. Memorabile la lunga scena del funerale di una Chrysler Imperial, in cui l’anima del protagonista si è reincarnata: una satira spiazzante del consumismo. La vera novità per l’estrosa pellicola di Barney, tuttavia, è stata l’associazione tra questo esempio perfettissimo di arte contemporanea e l’ambientazione tradizionale del teatro, che ha ospitato per questa occasione cinquecento persone di tutte le età.


Veniamo ora alla vera e propria parte fieristica. Partiamo dalla hall 32, quella più piccola ma anche piena di sorprese. Questa hall comprendeva le parti di fotografia, nuove proposte e solo show. Per la fotografia, da sottolineare la presenza di alcuni scatti provenienti dal lavoro “Eros” (2008) di Bruno Cattani, che illustrano con conturbanti chiaroscuri le sculture del Pergamon Museum e del Louvre. Segnaliamo anche il “Teatrino di cose” di Sergio Scabar (2015), sagome di misteriosi oggetti su sfondo nero ottenute con stampe alchemiche ai sali d’argento. Infine, lo stupendo omaggio a Giorgio Morandi di Joel Meyerowitz, che ha catturato oggetti del tutto simili a quelli studiati e dipinti dal pittore bolognese, raffigurandoli con le stesse ombre e le stesse inquadrature. Come per magia, grazie alla fotografia, gli oggetti presenti nello studio del maestro si materializzano davanti a noi.
Per la sezione solo show, porto all’attenzione due artisti lontanissimi e tuttavia accomunati dal loro lavoro sul bianco e nero: Alberto Zilocchi con le sue tavole (Spazio Testoni, Bologna) e Alex Pinna con le sue sculture (Galleria Punto sull’Arte, Varese).

Alberto Zilocchi, artista bergamasco scomparso nel 1991, apparteneva all’ambiente del Bar Giamaica ed espose con Fontana, Castellani e Manzoni. Iscrivibile alla corrente dell’arte oggettuale, con i suoi monocromi bianchi ha portato avanti una rigorosa sperimentazione basata su giochi di forme, rilievi e ombre. Il risultato percepito è particolarmente armonico e delicato.
Alex Pinna, artista classe 1967 formatosi a Milano, è divenuto celebre grazie ai suoi personaggi fragili e introversi, rappresentati con varie tecniche plastiche (bronzo, corda, resina) ispirandosi alle sculture filiformi di Giacometti. Spesso raffigura i personaggi dei cartoni animati; tuttavia, il suo mondo fiabesco è del tutto disincantato e racconta di incantesimi svaniti e sogni infranti. Ad ArteFiera la galleria Punto sull’Arte ha esposto in particolare la sua nuova collezione “Foglie”.
Notevole anche il solo show dedicato a Mario Schifano della Galleria Maloni (San Benedetto del Tronto).


Nelle hall principali, 25 e 26, avevamo invece il dispiegamento di quasi 200 espositori, con la possibilità di trovare anche opere uniche di artisti storici che hanno illustrato il Novecento internazionale come (in ordine sparso) Giorgio De Chirico, Giorgio Morandi, Giacomo Balla, Fausto Melotti, Andy Warhol, Emilio Vedova, Arnaldo Pomodoro, Lucio Fontana, Michelangelo Pistoletto, Alberto Savinio, Filippo De Pisis, Gilberto Zorio, Lichtenstein, Fernando Botero, Joan Mirò, Gustav Klimt, Mimmo Rotella, Vettor Pisani, Luigi Ontani, Enrico Baj, Alighiero Boetti (la cui “Mappa del mondo. L'insensata corsa” è ormai un’icona della fiera).
Tra le proposte più recenti, meritano menzione “La Laocoonte” di Lea Monetti (Galleria del Laocoonte), una rielaborazione espressiva e drammatica dell’antico gruppo scultoreo “Laocoonte e i suoi figli”; i “Bla bla bla” sarcastici e colorati di Fabrizio Dusi, ormai da qualche anno protagonisti di ArteFiera; le composizioni di Nicola Bolla, che ritaglia e dispone in simmetria radiale le carte da gioco, con risultati vivaci e stranianti. Notevoli e intriganti anche le proposte ottico-cinetiche di Marina Apollonio, che non mancano di ipnotizzare letteralmente lo spettatore, e la “Wunderkammer” che gioca col buio e la luce di Massimo Catalani. Molto scalpore ha fatto quest’anno il duo italiano Blue and Joy con installazioni in alluminio che imitano aeroplanini o post-it di carta. Il loro concettuale ironico fa parlare i post-it, che rivelano di essere non di carta, ma d’alluminio, e dispone decine di aeroplanini di carta a raggera su una parete verticale, come se fossero appena “atterrati” lì.
Infine, per gli amanti delle installazioni luminose, oltre all’intramontabile Kosuth presente con “Texts for nothing #12” (La sua fioca inutile luce sarà l’ultima ad abbandonarli supponendo che li attenda il nero, 2010, Galleria Lia Rumma), citiamo anche Benjamin Bergmann, con la vivace “ME WE” (Galleria Michela Rizzo). Accosto a queste opere anche l’ingegnosa Genesi immaginata da Enrico Tommaso de Paris con una struttura schermi a led, luci e turbi argentei (“Genesis”, 2011).
Concludiamo il percorso con un’opera di Lorenzo Mariani (L’orMa, Galleria Spazio Testoni), vincitore del Premio Euromobil Under 30, che incanta con la bellezza poetica dei tarassachi. Giunti alla fine del percorso, non possiamo fare altro che complimentarci per la riuscita dell’evento, ed augurarci che questa festa dell’arte contemporanea, che ad ogni gennaio ravviva l’antica Bologna, diventi un appuntamento fisso e sempre più partecipato dagli amanti dell’arte di tutto il mondo.

Arianna Capirossi (hashtag #aryartefiera)

Mi chiamo Arianna Capirossi, ho studiato Lettere all'Università di Bologna e sono attualmente iscritta al Dottorato di Letteratura italiana del Rinascimento all'Università di Firenze. Da sempre appassionata di arte e letteratura, mi interesso di divulgazione culturale e per questo mi adopero per garantire la promozione del nostro patrimonio artistico soprattutto (ma non solo) online.

Pierre Puvis de Chavannes

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Pierre Puvis de Chavannes, Fanciulla in riva al mare
Avanti miei prodi, attraverso i meandri del Simbolismo.
Pierre Puvis de Chavannes nacque a Lione il 14 dicembre 1824 in una famiglia borghese, figlio di un ingegnere minerario, discendente da un'antica famiglia di Borgogna.
Puvis de Chavannes ebbe una solida educazione classica: studiò in un collegio di Lione e poi al Lycee Henri IV a Parigi. Attratto dalla pittura, trascorse un anno nello studio di Henri Scheffer ma scoprì la propria vocazione viaggiando in Italia in compagnia di Bauderon de Vermeron: questi lo presentò a Delacroix che lo accolse a Parigi tra i suoi allievi.

Il maestro sciolse però il proprio studio qualche settimana dopo e Puvis de Chavannes studiò vari mesi presso Thomas Couture stabilendosi poi, nel 1852, in un proprio studio in place Pigalle a Parigi. Tale formazione eclettica si vede nelle prime opere: i ritratti hanno i colori scuri di Couture, le tele romantiche esibiscono gli azzurri e i rossi intensi di Delacroix, mentre alcune scene di genere toccano il patetico espressionismo di Daumier. La sua grande ammirazione per Chassériau, i cui affreschi alla Corte dei conti lo orientarono verso l’arte decorativa murale, fece sì che nel 1854 Puvis de Chavannes realizzi il suo primo complesso decorativo: il Ritorno del figliol prodigo e le Quattro Stagioni per la sala da pranzo del fratello a Brouchy.

Durante questo periodo le sue opere vennero rifiutate otto volte al salon e la partecipazione alla mostra delle Galeries Bonne Nouvelle lo rese oggetto di sarcasmo di critica e colleghi.
Senza scoraggiarsi, Puvis de Chavannes presentò al Salon del 1861 i grandi pannelli Concordia e Bellum, che vennero accettati. La Pace era già stata acquistata dallo Stato per il Museo di Amiens e il pittore realizzò immediatamente il pendant seguito, due anni dopo, da il Lavoro e il Riposo. Per completare il ciclo, eseguì poi Ave Picardia nutrix (1865), inno ai tesori campestri della vecchia provincia, e Ludus pro patria (1880-82), canto della virilità e del coraggio sereno, nel quale fugacemente rievoca l’amore fiero, l’infanzia felice e la raccolta vecchiaia.


Nel 1874, per il municipio di Poitiers, Puvis de Chavannes  eseguì nuove decorazioni che per la prima volta affrontarono temi religiosi: Carlo Martello salva la cristianità con la vittoria sui Saraceni e Santa Redegonda ascolta una lettura del poeta Fortunat che esprimono la comprensione laica per le virtù medievali.
Davanti a queste opere così innovative la critica reagì vigorosamente: alcuni, come Charles Blanc, About e Castagnary gridarono all’imbrattatele, altri, come Delécluze, Théophile Gautier, Paul de Saint-Victor e Théodore de Banville le sostennero con entusiasmo.

Puvis de Chavannes andò avanti per la sua strada, mirando al raggiungimento del perfetto accordo tra la superficie piana e le sue composizioni decorative, giocando sull’equilibrio delle masse, sull’arabesco della linea e sull’armonia chiaroscurata dei colori raddolciti.
Nel 1885 l'artista  incontrò la sua musa, un'acrobata professionsta che si chiamava Marie Clementine Valadon. Clementine diventò prima la modella di Puvis poi la sua amante, forse persino la madre di un figlio che lui non riconobbe. La Valadon non rimase però solo una modella, ma si mescolò a sua volta tra i pittori di Montmartre con tele e pennelli, diventando anch'essa una grande pittrice.

Pierre Puvis de Chavannes, il povero pescatore
Puvis de Chavannes seppe raggiungere una calma solennità, una semplice grazia che ne fecero il massimo decoratore della fine del XIX secolo, talvolta mescolando un poco di quell’emozione purificatrice che la natura ispirava a Rousseau.
Di fatto l'artista si rivelò anche sensibile paesaggista: circondando le allegorie e gli idilli pastorali di paesaggi di praterie, valli e foreste che ricordano le campagne dell’Île-de-France, le molli colline della Piccardia e le brume lionesi sugli stagni. L'artista colloca in questi dipinti, con grande esattezza d’osservazione, il contadino all'aratura, il boscaiolo con la sua famiglia e il pastore col gregge. Non si trattò affatto nel suo caso di realismo sociale alla Courbet, ma piuttosto di una visione "virgiliana" del lavoro dei campi: infatti Virgilio nelle Georgiche parla di natura come luogo del duro lavoro dell'uomo.

Pierre Puvis de Chavannes realizzò inoltre numerosissimi disegni, principalmente degli studi preparatori per le grandi decorazioni. Accanto a qualche ritratto, di sobrietà già moderna, si può affermare che Puvis de Chavannes dipinse tele essenzialmente simboliste. Il Povero pescatore, tra le opere più controverse della sua carriera, apparve come il primo manifesto del simbolismo francese e Picasso ne avvertì direttamente il messaggio sia sul piano dello spirito che su quella della tecnica pittorica.

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L’opera di Puvis de Chavannes ebbe grande risonanza tra i contemporanei che lo considerarono il maestro del simbolismo. Docente coscienzioso, amato dagli allievi, non ebbe però discepoli di grande talento e Paul Baudoin, Ary Renan, Auguste Flameng sono da considerarsi semplici imitatori. Come stimato presidente della Société Nationale des Beaux-Arts lasciò il segno nell’opera di Cormon e Ferdinand Humbert e influenzò profondamente non solo i pittori puramente simbolisti come René Ménard, Odilon Redon, il belga Mellery, il danese Hammershoï o lo svizzero Hodler, ma anche gli accademici convertiti come Henri Martin e Osbert. Persino i pittori più lontani da interessi accademici e da incarichi ufficiali come Gauguin, Seurat, Maurice Denis e i Nabis, trovarono nelle sottigliezze rivoluzionarie dell’opera classica di Puvis de Chavannes il fermento delle loro audacie.

Profondamente colpito dalla morte della moglie, Marie Cantacuzène, sua amica e ispiratrice di sempre che aveva sposato nel 1897 (nonostante le numerose amanti), le sopravvisse solo qualche mese per spegnersi a Parigi il 24 ottobre del 1898. Nel 2002 è stato riconosciuto come precursore di gran parte delle avanguardie storiche.

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Rembrandt van Rijn e il Secolo d’oro

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Rembrandt van Rijn, ronda di notte
Le grandi rivoluzioni borghesi d'Europa furono tre: quella del Duecento comunale italiano, quella parigina del 1789, e quella di mezzo, che fece degli abitanti delle Provincie Basse dell'Olanda dei veri protagonisti della politica e degli affari mondiali. Tutte queste accelerazione della storia comportarono anche un cambiamento radicale della comunicazione e, naturalmente, della pittura. Rembrandt si trovò a nascere e a crescere proprio in quel periodo burrascoso che dalla guerra degli Ottat'anni portò al trattato di Vestfalia che sancì l'indipendenza dei Paesi Bassi dagli spagnoli.

Rembrandt Harmenszoon van Rijn nacque il 15 luglio 1606 nella città universitaria di Leida, nello stesso anno in cui ad Amsterdam prese vita la prima banca centrale d'Europa.
Figlio di Harmen Gerritsz van Rijn, mugnaio benestante di religione calvinista e di Cornelia Willemsdochter, figlia di un fornaio. Rembrandt era il penultimo di ben sei figli e probabilmente il nome che gli venne dato derivò da quello della nonna materna, appartenente a una nota famiglia di Leida convertitasi dal cattolicesimo al calvinismo.

Crebbe proprio in quegli anni una borghesia calvinista che divenne protagonista nella politica europea: per questi mercanti, soldati di mare e di terra, l'agiatezza era la dimostrazione della benevolenza divina e la correttezza negli affari un comandamento fondamentale.
La ricchezza venne vissuta da questi nuovi borghesi senza vergogna, all'interno delle case private, ma anche nelle stanze delle associazioni professionali e dei municipi con una grande abbondanza di opere dipinte che esaltarono l'etica di una nuova classe sociale ormai egemone. Se nelle chiese l'immagine venne abolita, nelle case private abbondarono narrazioni ironiche, nature morte esaltanti, passando da una ritrattistica del quotidiano alla rappresentazione mista dei temi mitologici e delle figure della religione.

Rembrandt van Rijn, Betsabea con la lettera di Davide
Ma torniamo al pittore: Rembrandt trascorse gli anni della sua infanzia nella città natale e abitò nella casa di proprietà della famiglia, nella Weddesteeg. Dal 1613, per circa sette anni, il giovane artista frequentò la Latijnse School di Leida. Il 20 maggio del 1620 si iscrisse all'università, sempre a Leida, abbandonandola forse dopo pochi mesi. Comunque è certo che per volere dei genitori, l'artista ricevette un'approfondita educazione teologica, classica e storica.
Abbandonata l'università, Rembrandt divenne allievo, per poco meno di tre anni, di Jacob Isaacszoon van Swanenburch, pittore stabilitosi a Leida dopo il 1617, in seguito a un lungo soggiorno in Italia. Rembrandt rimase scarsamente influenzato dallo stile del maestro e all'inizio del 1624 andò ad Amsterdam, presso lo studio di Pieter Lastman, uno tra i più quotati pittori olandesi di genere "storico": Lastman forse entrò in contatto con Caravaggio e con alcuni caravaggeschi, durante una sua permanenza in Italia.

Rembrandt van Rijn, donna che si bagna in un ruscello
Sempre nel 1624 Rembrandt tornò a Leida e aprì uno studio tutto suo nella casa natale. I soggetti delle sue prime opere sono tutti tratti dalla Bibbia o dal filone storico, risentendo dell'influenza di Lastman. Uniche eccezioni, due piccoli ritratti della madre e una testa di soldato. In questo periodo si associarono a Rembrandt, ancora molto giovane, ma già abbastanza noto, diversi artisti: Jan Lievens, Dou Jondreville, de Rousseaux e Van Spreeuwen. Nel 1631 Van Vliet e Van der Leeuw eseguirono le prime incisioni dai dipinti dell'artista e nello stesso anno Rembrandt iniziò a espandere la sua attività ad Amsterdam, associandosi con il mercante d'arte Heyndrick van Wylenburch.

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Nel 1634 altro evento chiave nella vita dell'artista che sposò in quell'anno la figlia del sindaco di Leeuwarden, Saskia van Uylenburch. Il pittore entrò così in una nuova fase della sua carriera, definita "barocca", perché nelle opere di questi anni prevalse il movimento, gli effetti luce-ombra e lo studio psicologico dei personaggi. Verso il '36 l'artista raggiunse l'apice della sua carriera e il suo studio vide l'arrivo di sempre più allievi, desiderosi di apprendere dal maestro. Rembrandt si trasferì in una grande e sontuosa casa ai margini del quartiere ebraico ed ebbe l'occasione di ammirare e studiare due quadri di Tiziano che influenzarono la sua arte successiva.

Diventato ricco e famoso, l'artista poté coltivare la sua passione per il collezionismo, impiegando per questo una notevole fortuna, cui si aggiunse, nel 1640, l'eredità dopo la morte della madre. Da borghese autentico, Rembrandt amò gli oggetti, gli uomini e la luce che li circonda.
Nel settembre del 1641 nacque il figlio Tito e l'anno seguente la moglie Saskia, gravemente ammalata morì prematuramente. Gli autoritratti che il pittore realizzò in questo periodo sono densi nel colore e raffigurano l'autore in un'espressione seria. Rembrandt cominciò anche a interessarsi al paesaggio, interpretandolo, o in modo fantastico, o atmosferico, o drammatico, un esempio lo trovate QUI.

Rembrandt van Rijn, autoritratto
Dal 1649 si può parlare di una nuova fase nell'attività del pittore ad Amsterdam: d'ora in poi egli tenderà a una maggiore semplicità formale e a un sempre maggiore studio dell'espressione a scapito però del movimento. La sua vita privata fu segnata in quegli anni da una nuova compagna, Hendrickje Stoffels e da liti e controversie con la nutrice del figlio Tito, complicate dopo il 1650 da una difficilissima situazione finanziaria. Nel 1656 rinunciò formalmente ai suoi beni in favore dei creditori e, quando la Camera dei fallimenti fece un inventario delle sue sostanze, risultarono di sua proprietà opere d'arte, oggetti rari e curiosi. Per cercare di risollevare la situazione nel 1660, il figlio Tito, ormai grande e la sua matrigna, avviarono un commercio d'arte. Ma nonostante questa nuova attività, la famiglia fu costretta a cambiar casa e a trasferirsi in una modesta abitazione nel quartiere popolare del Jordaan, nella città vecchia.


Rembrandt continuò a ricevere alcune commissioni e, anche se si ritirò dall'attività artistica ufficiale, proseguì a esercitare quella di collezionista e di mercante e a godere, tra gli esperti, di un notevole prestigio.
Nel luglio del 1663 morì anche la sua seconda moglie e ormai pochissimi allievi restarono nella casa dell'artista: tra questi il figlio Tito e Aert de Gelder. Rembrandt accentuò maggiormente l'aspetto umano e reale reso con estrema semplicità di mezzi e con un'attenzione particolare per l'espressione dei volti e per le mani. Di questi ultimi anni sono i ritratti di familiari, amici e conoscenti ma sopratutto numerosi autoritratti tra cui si ritrovano i più belli mai realizzati dall'artista.

Rembrandt van Rijn, autoritratto con due cerchi
La pittura per Rembrandt fu la sua vita stessa, esaltata da giovane, bulimica negli anni del successo, depressa dopo il fallimento finanziario conseguente alla sua avidità collezionistica.
Questo grande artista riassunse in modo emblematico la sua epoca e ne narrò la tensione profonda con tale vigore da essere diventano un simbolo che la rappresenta: il Secolo d'Oro, un lungo periodo di scontri, fra pace fredda e cannonate, durante il quale il commercio, le scienze e le arti olandesi furono tra le più acclamate del mondo.
Dopo aver ritratto la famiglia dell'amato figlio Tito nel 1668, concluse la sua vita di artista e di uomo, spegnendosi il 4 ottobre del 1669.

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Dante Gabriel Rossetti e la Confraternita dei Preraffaelliti

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Dante Gabriel Rossetti, Blanzifiore
Dante Gabriel Rossetti nacque a Londra il 12 maggio 1828, destinato a diventare il principale esponente, nonché il fondatore, della Confraternita dei Preraffaelliti. 
Il padre, esule carbonaro, era docente di italiano al King’s College e appassionato dantista. L’amore per Dante passò a Rossetti e divenne elemento caratterizzante di una educazione nutrita con molte, precoci letture: Shakespeare, Goethe, Poe, Coleridge, Browning, per citare le più influenti. Inevitabile, per un pittore e poeta affascinato da Dante, l’incontro con l’opera di Blake.

Come pittore Rossetti, si formò prima alla Sass’s Drawing Academy (dal 1841) poi all’Accademia Reale (dal 1845). Nel 1848 fu allievo di Madox Brown che lo introdusse, tra l’altro, all’arte dei Nazareni. La formazione pittorica procedette di pari passo con le prime espressioni poetiche e non è quindi un caso che tra i primi impegni di Rossetti come artista figurativo vi siano le illustrazioni per i testi letterari più amati. Nel 1848 Rossetti fondò, con W. H. Hunt e J. E. Millais, la Confraternita Preraffaellita. Tuttavia, solo alcune sue opere rientrarono propriamente nell’attività del gruppo.

Dante Gabriel Rossetti,
Ecce Ancilla Domini, 1850.
La Confraternita dei Preraffaelliti fu il movimento artistico che si basò sul medioevo più di qualsiasi altra corrente romantica. Il nome stesso è una chiara dichiarazione d'intenti poetici e stilistici: rifarsi al periodo tardo-medioevale, in particolare alla spiritualità e allo stile tardo gotico e pre-rinascimentale del Trecento e del Quattrocento. Rifiutarono il rinascimento maturo che ebbe come esponente più tipico appunto, Raffaello.
L’arte preraffaellita, anche per il momento in cui si manifestò, fu l'ultimo exploit del romanticismo inglese che diede un contributo anglosassone alle poetiche simboliste europee partecipi di quell'aria di decadentismo che caratterizzò la fine dell'Ottocento.

Il medioevo dei preraffaelliti ha il sapore del sogno e del mito e non di vera riscoperta dell'epoca medievale. I quadri preraffaelliti di Rossetti sono intrisi da un silenzio che carico di elementi sensuali e decadenti. La donna è una costante, avendo un compito molto simile a quello di Beatrice nell'opera di Dante: svelare, con l'aiuto della bellezza, la dimensione trascendentale.
Scosso dagli attacchi della critica, Rossetti si allontanò dai confratelli intraprendendo un percorso artistico che comunque già si annunciava diverso.

Dante Gabriel Rossetti, Beata Beatrix
Per un decennio Rossetti abbandonò la pittura a olio e si dedicò alla produzione di acquerelli, molti dei quali di tema dantesco, ispirati a episodi della Vita Nuova, o della Divina Commedia. Non mancarono, nella serie degli acquerelli e disegni a inchiostro di questi anni, altri temi cari a Rossetti: le illustrazioni shakespeariane, le rivisitazioni del ciclo arturiano ispirate alla Morte d’Arthur di T. Malory e anche immagini di argomento classico.
Nel 1852 Rossetti lasciò la famiglia per trasferirsi a Chatham Place con Elizabeth Siddal, allieva e modella ispiratrice che in seguito sposerà. Nel 1854 l'artista divenne amico di Ruskin, per alcuni anni suo consigliere e mecenate, il quale lo coinvolse anche nell’insegnamento al Working Men’s College.

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Nel 1856 prese avvio il sodalizio di Rossetti con i discepoli W. Morris e E. Burne-Jones. La collaborazione dei tre artisti nella realizzazione degli Oxford Muralsè stata spesso interpretata dalla critica come una rinascita del movimento preraffaellita. Rossetti collaborerà poi con la ditta di arti applicate fondata da Morris nel 1861. Di questi anni sono anche gli stretti rapporti di reciproca influenza con Pater e con C. A. Swinburne. Alla fine degli anni Cinquanta Rossetti tornò alla pittura
a olio e avviò la lunga serie di ritratti femminili che costituiscono la sua produzione più nota.

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La tragica morte della moglie (1862) e la tormentata relazione con Jane Morris, moglie dell’amico William, furono dati biografici non secondari nel processo di ideazione delle figure femminili di Rossetti, che la critica ha spesso visto come un prototipo poi ripreso, su toni diversi, da artisti quali Burne-Jones, Whistler, Crane, Beardsley, Khnopff e Klimt.
Verso la fine della sua vita, Rossetti cadde in uno stato di depressione, dovuto probabilmente alle droghe di cui abusava: passò in solitudine gli ultimi anni che gli restarono e morì il 10 aprile 1882 a Birchington-on-Sea nel Kent.

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L'affresco

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Particolare di affresco pompeiano
Come primo post di questa nuova rubrica voglio partire da una tecnica pittorica molto antica e molto resistente: l'affresco. I primi esempi sono della civiltà Minoica del XVI secolo a.C. per poi diffondersi nell'arte etrusca, greca e romana. Gli affreschi pompeiani sono uno splendido esempio nell'ambito della pittura romana, arrivati fino a noi praticamente intatti.
Avrà poi fortuna continua nel medioevo e nel Rinascimento fino ai giorni nostri, perdendo importanza e frequenza con l'introduzione di nuovi colori per la pittura murale, resistenti e più semplici da usare.


Gli artisti che utilizzarono questa tecnica al meglio vanno da Giotto a Piero della Francesca, a Michelangelo, a Raffaello, con esiti straordinari, che unirono capacità tecniche a capacità artistiche e compositive.
Ma esattamente di che cosa si tratta? L'affresco è una pittura eseguita su intonaco, appunto ancora "fresco", di una parete: il colore ne è chimicamente incorporato e conservato per un tempo illimitato. I pigmenti generalmente di origine minerale stemperati in acqua vengono applicati direttamente sull' intonaco.
Si compone di tre elementi: supporto, intonaco, colore.
  • Il supporto, di pietra o di mattoni, deve essere secco e senza dislivelli. Prima della stesura dell'intonaco, viene preparato con l'arriccio, una malta composta da calce spenta o grassello, sabbia grossolana di fiume o, in qualche caso, pozzolana e, se necessario, acqua, steso in uno spessore di 1 cm circa, con lo scopo di rendere il muro più uniforme possibile.
  • L'intonaco (o "tonachino" o "intonachino") è lo strato più importante dell'intero affresco. È composto da un impasto fatto con sabbia di fiume fine, polvere di marmo, o pozzolana setacciata, calce e acqua. Su questo strato va applicato il colore.
  • Il colore, che è obbligatoriamente steso sull'intonaco ancora umido (da qui il nome, "a fresco"), deve appartenere alla categoria degli ossidi, perché non deve interferire con la reazione di carbonatazione della calce. Tale reazione consente all'isdrossido della malta umida di trasformarsi in carbonato di calcio dell'intonaco asciutto. Un processo chimico che avviene grazie all'anidride carbonica presente nell'aria.
Michelangelo, Giudizio Universale, splendido esempio di affresco
Questa difficile tecnica artistica non consente ripensamenti: qualsiasi pennellata di colore viene istantaneamente assorbita dall'intonaco. Un'altra difficoltà sta nel capire la reale tonalità del colore: sull'intonaco bagnato, infatti, i colori sono più scuri, e sbiancheranno una volta che questo sarà asciutto. Inoltre i tempi stretti, dettati dal processo di carbonatazione che avviene entro tre dalla stesura dell'intonaco, alzano ulteriormente il livello di difficoltà per il lavoro dell'affrescatone.

Per aggirare questi problemi, l'artista procederà per piccole parti di affresco, chiamate "giornate": queste porzioni di affresco coincidono con una giornata di lavoro del pittore che dovrà fare in modo di nascondere al meglio le giunzioni, facendo spesso corrispondere le giornate ai bordi di una figura o al profilo di una collina.
Le correzioni certo si possono sempre fare, ma solo con tempere stese sull'intonaco asciutto che saranno più facilmente degradabili nel corso degli anni.

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Per facilitare la realizzazione delle pitture a fresco, gli artisti facevano molti studi e disegni preparatori oppure disegnavano SINOPIE negli strati sottostanti. La sinopia è un disegno preparatorio alla stesura vera e propria del colore. Era stesa a pennello con terra rossa di Sinope (da qui il nome) prima sull'arriccio e poi sull'intonaco, e riproduceva in modo preciso le figure dell'affresco.

Nel Rinascimento vengono introdotti i "cartoni preparatori" in cui l'intero disegno preparatorio veniva riportato a grandezza naturale sul cartone. Le linee che componevano le figure erano poi perforate. Una volta appoggiato il cartone sull'intonaco fresco, era spolverato con un tampone intriso di finissima polvere di carbone; in tal modo la polvere, passando attraverso i piccoli fori, lasciava la traccia da seguire per la stesura a pennello.


Questa tecnica si chiama "spolvero", ma con il tempo venne utilizzata solamente per le porzioni del dipinto che esigevano una maggiore precisione nei dettagli come ad esempio le mani, i visi, o alcuni particolari degli abiti. L'alternativa era fare delle incisioni dirette o indirette sull'intonaco fresco per avere un primo disegno del soggetto da realizzare.

Per approfondire le tecniche ad affresco che nel corso dei secoli e delle civiltà che ha attraversato, hanno subito delle variazioni leggete QUI, QUI e QUI

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I 10 grattacieli più belli della storia dell’arte

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Forse non siamo molto spinti a considerarli opere d'arte, perchè a noi molto contemporanei, ma molti grattacieli opere d'arte lo sono a tutti gli effetti. Alcuni ispirarono bellissime fotografie e dipinti, altri vennero concepiti e progettati da grandissimi artisti. Quelli che trovate qui sono 10 esempi di opere d'arte legate a queste altissime strutture frutto dell'ingegno e a volte della pazzia dell'uomo.

Dall’epico film Empire di Warhol della durata di otto ore ai progetti di Gaudì per il suo Hotel Attraction: ecco come il grattacielo si è imposto sempre più nell’immaginario artistico del secolo scorso.

  • Andy Warhol – Empire (1964)

Il grattacielo più carismatico di New York diventa la star solitaria  del film di Warhol, che indugia con impenitente monotonia sul maestoso Empire State building per otto ore e cinque minuti. Quest’opera viene apprezzata non tanto come film narrativo, che vi porterebbe all’esasperazione, quanto come se fosse un quadro ricolmo d’amore per l’architettura alta e imponente di Manhattan.

  • Edward J Steichen – The Flatiron (1904)


I grattacieli erano ancora una novità quando Edward J Steichen scattò questa fotografia del Flatiron building di Manhattan. Il profilo a cuneo della torre si staglia romanticamente nella foschia serale, rendendo la foto un ritratto non tanto del roboante modernismo, quanto della città come luogo di un mistero e di una bellezza toccanti.

  • Matthew Barney – Cremaster 3 (2002)


In questa trilogia cinematografica di Barney, il Chrysler building ospita accadimenti mitici e strani raggiri. Questa torre in art-déco con la sua cima metallica è uno dei grattacieli più seducenti di tutti i tempi. Nel film, una disastrosa corsa automobilistica prende vita nell’atrio, mentre un rituale massonico viene svolto all’ultimo piano. Forse era proprio questo quello che vi accadeva nei suoi tempi d’oro.

  • George Bellows – New York (1911)


Nel 1911 New York si stava già trasformando in un enorme e moderno paese delle meraviglie grazie ai suoi canyon e dirupi architettonici. Bellows ritrae la moderna vita cittadina come un dramma, definito però da un’architettura grandiosa.

  • Georgia O’Keeffe – The Radiator Building (1927)


Georgia O’Keeffe viene acclamata per i suoi dipinti sensuali dalle forme naturali, ma in questo caso è l’elettricità della città che accende la sua immaginazione. Il Radiator building di New York brilla di eccitazione e promesse, perché la notte appartiene agli amanti e ai grattacieli.

  • Antoni Gaudì – Hotel Attraction (1908)


Il grande architetto catalano Antoni Gaudìè famoso per i suoi palazzi di Barcellona, che offrono una visione alternativa dell’architettura moderna, intendendola come un’abbondanza organica, gotica e surrealista della forma, ma non si dimentichi il suo sogno di costruire un grattacielo a New York. Gli schizzi pervenutici del progetto dell’irrealizzato Hotel Attraction rivelano una struttura sovversiva rispetto all’eccentrico formicaio della Sagrada Familia: aveva, infatti, immaginato il grattacielo newyorkese come una torre affusolata, specchio dell’anima.

  • Ludwig Mies van der Rohe – Friedrichstrasse Skyscraper Project (1921)


Gli schizzi cupamente espressivi di Ludwig Mies van der Rohe per il tentativo di costruire un grattacielo nel centro della Berlino weimariana rivelano la sublime visione che giace nel cuore della moderna architettura verticale. Egli, infatti, aveva ideato una cattedrale cristallina, autoritaria e geometrica, una roccaforte di ghiaccio che imponesse l’ordine alla città sottostante. Sarà a New York, però, dove van der Rohe progetterà il grattacielo “perfetto”: l’immacolato, elegante e classico Seagram building.

  • Alfred Stieglitz – Città dell’ambizione (1910)


In questa fotografia evocativa di Stieglitz, la città cresce man mano che i grattacieli ne definiscono l’immagine di una metropoli competitiva e agguerrita. Tuttavia, molti suoi scatti riguardano realtà meno scintillanti, come quella degli immigrati che arrivano in terza classe ai moli tanto agognati, e quella delle masse di poveri, eclissati dagli edifici stessi.

  • Raymond Hood – Terminal City (1929)


Questo progetto per un nuovo, sebbene mai costruito, quartiere di grattacieli a Chicago riflette la visione della città moderna come un ombroso poema di torri, vetro e calcestruzzo che sovrasta le persone. Tuttavia, i progetti possono rivelarsi ingannevoli. Il capolavoro di Raymond Hood, il Rockfeller Centre, è l’esatta definizione di un complesso edilizio che riesce ad essere paradossalmente tanto sbalorditivo in altezza quanto umano in scala. Hood ha così dimostrato che l’architettura urbana moderna può creare, anche nei suoi momenti più alti, un senso di calore e unione negli spazi che essa va a definire.

  • Marcel Duchamp – The Woolworth Building as a Readymade (1916)


Quando Marcel Duchamp arrivò a New York il profilo della città costituiva già una realtà moderna colossale. L’artista dalla pronta ironia che aveva inventato il readymade, fissando la ruota di una bici ad uno sgabello nel 1913, affermò immediatamente che anche il Woolworth building rientrasse nella stessa categoria. In effetti, questo grattacielo emula l’architettura medievale, avendo dei gargoyl nell’atrio. Duchamp, invece, scorse la sua vera anima moderna al di là di quei tocchi gotici. Successivamente, nel 1917, avrebbe creato un readymade architettonico più a misura d’uomo: Fontana, il famoso orinatoio in porcellana.

Fonti: traduzione di Beatrice Righetti da www.theguardian.com 

Mi chiamo Beatrice Righetti, sono laureata in Mediazione Linguistica e Culturale all’Università di Padova e sono un’appassionata traduttrice. Studio inglese, russo, tedesco e spagnolo, e nel tempo libero mi dedico all’arte e alla letteratura. Per questo, credo fortemente nella divulgazione artistica e culturale, specialmente se integrata nel nostro vasto e poliedrico panorama internazionale.

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Monet e la delicatezza della luce

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Claude Monet, impressione, sole nascente
Tra tutti i pittori dell’impressionismo, Claude Monet può essere considerato il più impressionista. La sua personale ricerca pittorica non uscirà mai dai confini di questo stile, benché egli sopravviva molto più a lungo dell’impressionismo.
E' necessaria quindi una piccola introduzione a questo movimento per capire Monet: il nome, come forse già saprete, deriva dall’epiteto, inizialmente usato in senso spregiativo contro i pittori del gruppo, tratto dal titolo di un quadro di Claude Monet. 

I pittori di questo movimento rivoluzionario cercarono di cogliere gli effetti di luce, come l’impressione più immediata della visione. Punto chiave è la negazione dell’illuminazione artificiosa dell’atelier, praticando la pittura all’aria aperta (en plein-air ), usando una tecnica pittorica rapida e sciolta e rinunciando al chiaroscuro artificiale in favore di ombre colorate.
Ciò che vediamo nei dipinti impressionisti è una totale fusione di oggetto e spazio, pensato come fenomeno cromatico e luminoso. L'impresionismo fece riemergere l’interesse per il vero, in una ricerca di libertà totale, nel soggetto e nell’espressione, utilizzando processi di rappresentazione totalmente anti-accademici.

Claude Monet, Cattedrale di Rouen
Ma torniamo a Monet: Oscar-Claude Monet nacque a Parigi nel 1840. Trasferitosi con la famiglia a
Le Havre, verso il 1845, frequentò il collegio di La Meilleraye; giovanissimo, tra il 1856 e il 1858, acquisì una discreta reputazione come caricaturista. Verso il 1858, incontrò il pittore Eugène Boudin che, riconoscendone il talento, lo incoraggiò allo studio del paesaggio dal vero, all’aperto, secondo la tradizione olandese. Lo stesso Monet, nei suoi ricordi, sottolineò il ruolo decisivo che questi insegnamenti ebbero su di lui. Nonostante il rifiuto della municipalità di Le Havre di concedergli una borsa di studio, Monet si recò a Parigi nel 1859, dove riportò una forte impressione dai paesaggi di Daubigny e di Corot esposti al salon.

Nella capitale entrò in contatto con Amand Gautier, artista di ispirazione realista, e Constant Troyon, affermato animalista, ma di cui egli apprezzò soprattutto le capacità paesaggistiche. Lo stesso Troyon insistette per far iscrivere il giovane artista all’atelier di Couture, ma Monet optò invece per l’Académie Suisse, atelier libero, dove incontrò Pissarro.
Contemporaneamente frequentò la Brasserie des Martyrs, ritrovo di artisti e intellettuali. Il soggiorno parigino venne interrotto nel 1861, quando Monet fu costretto a partire per l’Algeria per assolvere agli obblighi militari: problemi di salute ne imporranno il rimpatrio alla fine del 1862.

Claude Monet, Donna con ombrello
Ritornato a Le Havre, Monet strinse amicizia con l’olandese Jongkind, la cui cultura artistica segnò in maniera determinante la sua formazione. Superati alcuni contrasti con la famiglia, ottenne il consenso a ritornare a Parigi, dove entrò nell’atelier di Gleyre, e vi incontrò Bazille, Renok e Sisley. In compagnia di Bazille soggiornò nel 1863 a Chailly-en-Bière, località della foresta di Fontainebleau, dove eseguì paesaggi prossimi alla tradizione di Barbizon e di Daubigny. In un nuovo
soggiorno a Chailly, nel 1865, conobbe Gustave Courbet: Monet affascinato dalle opere courbettiane ne studiò con passione la tecnica. L’influenza di Courbet si intrecciò con quella di Manet, che proprio in quegli anni aveva posto con evidenza il problema della rappresentazione di figure en plein air con il suo Le déjeuner sur l’herbe (1863), opera che aveva avuto ampia risonanza nella cerchia frequentata da Monet.

Di stretta ascendenza courbettiana, Monet realizzò Donne in giardino, dipinto abbozzato direttamente en plein air con l’intento di preservare le qualità naturali di spontaneità e luce della scena: l’opera venne però rifiutata dalla giuria del Salon del 1867.
Gravi difficoltà economiche costrinsero l’artista a lasciare Parigi tra il 1868 e il 1869: in questo periodo realizzò alcuni scorci della Senna, volti alla resa dei riflessi della luce sull’acqua e considerati dalla critica compiute anticipazioni della pittura impressionista.

Claude Monet, donne in giardino
Nel 1870, un nuovo rifiuto del Salon ad accettare le sue opere inudsse Daubigny a dimettersi dalla giuria. Da Trouville, dove risiedeva,  Monet apprese la notizia dello scoppio della guerra franco-prussiana: sollecitato da Daubigny, si trasferì a Londra (1870-71), dove si rifugiarono anche Pissarro, Bonvin e Sisley. Con Pissarro, Monet approfondisce la conoscenza della pittura di Gainsborough, Constable e Turner. Al termine del conflitto e dopo la repressione della Comune, Monet rientrò in Francia attraversando l’Olanda.

Nel 1872, si stabilì ad Argenteuil; i dipinti di questo periodo si segnalano per la particolare luminosità e brillantezza delle superfici. Manet aiutò in quegli anni Claude a superare nuovi problemi finanziari e lo ritrasse nel suo famoso atelier galleggiante, realizzato sull’esempio di quello di Daubigny. Per superare nuove difficoltà economiche, Monet propose un’esposizione collettiva di artisti indipendenti, che ebbe luogo nel 1874, presso lo studio del fotografo Nadar: con intenti sarcastici, la mostra venne definita "impressionista", neologismo che derivò dal dipinto di Monet Impression. Soleil levant.

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Nel 1876, alla seconda esposizione impressionista, Monet riscosse successo con la grande tela La Japonaise. L’anno successivo dipinse una serie di vedute della stazione di Saint-Lazare, con l’intento
di rendere pittoricamente il fumo delle locomotive, soggetti che saranno esposti alla terza mostra impressionista. Nel 1878 si trasferì a Vedieuil, che lasciò per stabilirsi definitivamente a Giverny nel 1883. A partire dal 1880, Monet fu affascinato dall’idea di rappresentare l’effetto della luce sul paesaggio ad ore diverse del giorno; per raggiungere questo obiettivo, elaborò delle serie di dipinti, tra le quali è celebre quella dedicata alla cattedrale di Rouen. Realizzata tra il 1889 e il 1894, questa serie comprende cinquanta Cattedrali, percepite unicamente in funzione delle variazioni di atmosfera e luce.


Tra il 1909 e il 1926, Monet realizzò la serie delle Ninfee, definita "grand poème de l’eau": l’esecuzione di queste grandi tele, in cui l’artista si prefigge "di rendere l’acqua con l’erba che si muove sul fondo", si accompagnò a un progressivo peggioramento della vista. Donata dall’artista allo Stato, questa serie venne collocata nelle sale dell’Orangerie alle Tuileries.
La critica ha sempre sottolineato l’influenza che queste opere tarde ebbero sul fauvismo, sull’espressionismo, fino ai più lontani sviluppi della pittura informale.

Claude Monet, Ninfee
Vi lascio con le belle parole che dedicò a Monet Camille Maucleir, poeta, romanziere, biografo, scrittore di viaggi, e critico d'arte:
Nessuno come lui sa ergere una roccia nelle onde tumultuose, far comprendere l’enorme struttura di uno scoglio che riempie tutta la tela, disporre un villaggio su una collina dominante un fiume, dare la sensazione di un gruppo di pini contorti dal vento, gettare un ponte su un fiume, esprimere il carattere del suolo che giace sotto il sole dell’estate. Tutto ciò è costruito con vastità, esattezza e forza, sotto la sinfonia deliziosa o ardente degli atomi luminosi. I toni più imprevisti si alternano nel fogliame; da vicino ci si stupisce di vederlo listato con strisce arancio, rosse, blu, gialle, e a distanza la freschezza delle fronde verdi appare evocata con infallibile verità. L’occhio ricompone ciò che il pennello ha dissociato e ci si accorge con stupore di tutta la scienza, di tutto l’ordine segreto che ha diretto questo ammucchiamento di macchie che sembravano spruzzate in una pioggia furiosa. È una vera musica d’orchestra in cui il colore è uno strumento con un ruolo distinto, e i cui momenti, con le loro tinte diverse, costituiscono i temi successivi.
C. Mauclair, L'Impressionnisme, son histoire, son esthétique, ses maîtres, 1904

Questo post si avvale di contributi bibliografici vari che potete consultare qui

L'arazzo

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Oggi vi parlo di una tecnica e di un oggetto prezioso: l'arazzoè un panno istoriato con motivi araldici, ornamentali o narrativi, usato per decorare, per raccontare, ma anche per scaldare gli ambienti.
La tecnica tradizionale della fabbricazione dell’arazzo è variata poco nel corso dei secoli. L’arazzo è costituito dall’intreccio manuale dei fili dell’ordito con quelli della trama: questi ultimi, di vari colori, coprono totalmente quelli di ordito, che servono da armatura.

Due sono le tecniche di lavorazione:

  1. Nell’alto liccio l’ordito è teso su di un telaio verticale e i fili vengono suddivisi in due serie (anteriore e posteriore) da barre di legno o di metallo; i licci (ovvero cordicelle) vengono assicurati alla barra posteriore, il licciaio lavora sul retro e fa passare i fili di trama prima attorno a un filo di ordito della serie anteriore, e poi a un filo di ordito della serie posteriore.
  2. Nel basso liccio l’ordito è teso su di un telaio orizzontale e i licci vengono mossi da pedali (in questo caso il cartone viene collocato sotto l’ordito). Il licciaio, che ricopre un ordito grezzo con fili di trama, crea il disegno dell’arazzo e nello stesso tempo ne costituisce il tessuto. L’arazzo non è quindi né un canovaccio né un ricamo. Non è neppure un’opera unica, poiché da un unico cartone possono tessersi diversi esemplari; tuttavia è, ogni volta, un’opera originale.

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Il cartone 

Il cartone è il modello, al naturale, necessario all’esecuzione dell’opera di tessitura. È il punto di partenza di qualsiasi arazzo tradizionale. Se ne possono distinguere di diversi tipi:

  • Cartone ispirato a un modello. Tale modello, proveniente da un pittura, un disegno, una miniatura, un incisione e così via, può non essere stato concepito per produrre un arazzo, ma viene successivamente utilizzato a questo scopo. Così, Jean de Bondol, detto Hennequin de Bruges, pittore dei cartoni dell’arazzo dell’Apocalisse, si ispirò a manoscritti miniati. I disegni di Antoine Caron per illustrare il manoscritto di Nicolas Houel della Storia di Artemisia sono all’origine dei cartoni eseguiti da Heny Lerambert e Laurent Guyot. E via dicendo.
  • Cartone originale. Viene concepito e realizzato interamente dallo stesso autore. Citiamo fra tutti i cartoni di Raffaello per gli Atti degli Apostoli. Questi cartoni dipinti tra il 1515 e il 1516 hanno contribuito a "orientare l’arte dell’arazzo ad un adeguamento più completo alle norme e ai procedimenti della pittura". Nel XV secolo, il cartone per arazzo era a chiaroscuro, e toccava al licciaio il compito di definirne i colori. Si serviva di colori puri di origine vegetale o animale.
  • Cartoni eseguiti su bozzetto. L’autore fornisce soltanto un modello a scala ridotta (bozzetto o disegno) e un diverso pittore viene incaricato di eseguire il cartone destinato ai licciai. Charles Le Brun eseguì disegni per gli arazzi i cui cartoni venivano elaborati dai pittori dei Gobelins, specializzati in vari generi. 

Raffaello Sanzio, cartone per la morte di Anania


I grandi centri di produzione 

La tecnica dell’arazzo era conosciuta e praticata sin dall'antichità, in Mesopotamia e in Grecia.
Anello tra l’antichità e il medioevo sono gli arazzi copti, provenienti da tombe egizie tra il III e il XII secolo d. C., che costituiscono il più antico complesso di produzione oggi noto.

Principali officine nei secoli XIV e XVI Parigi, Arras, Bruxelles

L’inizio dell’arte dei licciai in Europa risale all’alto medioevo; tuttavia, gli esempi più antichi conservati sono l’arazzo di San Gereone, tessuto a Colonia alla fine dell’XI secolo, e i tre arazzi della cattedrale di Halberstadt, opere realizzate intorno al 1200, con la tecnica del punto annodato, presso un’officina monastica, il convento di Quedlinburg in Germania.
La grande epoca dell’arazzo cominciò però nella seconda metà del XIV secolo, quando esso assunse importanza considerevole come ornamento di castelli e chiese. Parigi ed Arras furono allora i primi e principali centri di tessitura, seguiti da Tournai e da Bruxelles. In assenza di documenti d’archivio, determinare con certezza il luogo di esecuzione degli arazzi è un problema molto delicato, tanto è grande la difficoltà di fissare criteri di distinzione tra la produzione dei vari centri di tessitura.
Quanto all'origine dei cartoni, di solito s’ignora il nome dei pittori cui venivano richiesti.

Arazzi di San Gereone

I licciai fiamminghi in Italia 

La Riforma protestante provocò la fuga di numerosi licciai e la loro dispersione in vari paesi. Accolti dalle corti straniere, vi costituirono centri di produzione di arazzi. Cosí, arazzieri fiamminghi operarono a Ferrara per il duca d’Este; tra le opere più significative prodotte da questa officina vanno ricordati gli arazzi tratti da Battista Dossi. A Firenze i licciai fiamminghi eseguirono arazzi su cartoni del Bronzino e di Pontormo, di Bacchiacca e di Salviati.

Bruxelles nel XVII secolo 

L’emigrazione dei licciai comportò un certo declino delle officine di Bruxelles. Tuttavia esse conobbero nuovo splendore nel XVIII secolo grazie a Rubens, con i cartoni per la Storia di Decio Mure, l’Apoteosi dell’Eucaristia e la Storia di Achille. Anche l'artista Jordaens fornì molti cartoni stupendi, nei quali rivaleggiò con Rubens in barocca grandiosità.

Arazzo con l'Apoteosi dell'Eucarestia disegnato da Rubens

Fontainebleau e Parigi nel XVI secolo 

Appassionato di arazzi Francesco I acquistò a Bruxelles alcune serie molto importanti. Nel 1540 il re insediò a Fontainebleau licciai parigini che realizzarono la tessitura della serie della Galleria di Francesco I. Qualche anno dopo, nel 1551, Enrico II fondò a Parigi, in rue Saint-Denis, un’officina, posta nell’Ospedale della Trinità. Ad essa è stata attribuita la serie della Storia di Diana, eseguita per il castello di Anet tra il 1550 e il 1560.

Le officine parigine nel XVII secolo 

Enrico IV promosse la costituzione, a Parigi, di manifatture di arazzi. Nel 1597 venne fondata un’officina nella casa professa dei gesuiti in rue Saint-Antoine. Diretta da Girard Laurent, cui si affiancò Maurice Dubout (proveniente dalla Trinità), presto trasferita nella galleria del Louvre. La produzione delle officine parigine fu importante e di alta qualità. Nominato da Enrico IV "pittore per gli arazzi del Re", Henri Lerambert fu autore di numerosi e celebri cartoni. A Lerambert successero  poi altri artisti come Guillaume Dumée e Laurent Guyot.
Il 1627 fu una data importante per il ritorno dall’Italia di Simon Vouet, ritorno voluto dal re, che in particolare desiderava affidare al suo pittore la "responsabilità dei cartoni per arazzi". Come farà piú tardi Le Brun presso i Gobelins, Vouet organizzò una vera e propria officina col compito di realizzare gli arazzi su disegni o da quadri suoi.

Le manifatture reali: i Gobelins, Beauvais e la Savonnerie.

Nel 1662 Colbert politico ed economista francese, decise di raggruppare presso i Gobelins le officine ad alti e bassi licci sparse nella città di Parigi, cui aggiunse quella creata a Maincy da Nicolas Fouquet. Mirava a sviluppare una produzione artistica in grado di porsi in concorrenza con quella degli stati vicini. Le Fiandre, che fino al XVII secolo avevano occupato una posizione di preminenza, la perdettero a vantaggio delle manifatture reali volute dal Luigi XIV e da Colbert.

Francisco Goya, cartone per la vendemmia

La manifattura spagnola di Santa Barbara 

Vale la pena segnalare l’esistenza, nel XVIII secolo, della manifattura spagnola di Santa Barbara, la cui creazione fu voluta da un Borbone, Filippo V. Tra le sue prime realizzazioni vanno citate in particolare le serie ordinate dal re a Michel-Ange Houasse (Telemaco), e ad Andrea Procaccini. Dopo la scomparsa di questi due artisti, la manifattura conobbe un periodo di declino. Verso la metà del XVIII secolo però le officine ripresero vita, grazie alla direzione di Corrado Giaquinto prima e di Raphael Mengs poi.
La celebrità di Santa Barbara fu assicurata nell’ultimo quarto del secolo da Goya, che era entrato nella manifattura in qualità di pittore di cartoni. Dal 1774 al 1791, dipinse 45 tele rappresentanti scene di vita madrilene, destinate a servir da modelli per arazzi nell’arredo dei palazzi reali.

Il XIX secolo 

Nel XIX secolo non esistono grandi officine se non in Francia, dove le manifatture dei Gobelins, di Beauvais e della Savonnerie proseguirono, malgrado concrete difficoltà, la propria attività. Meritano segnalazione alcuni tentativi, in particolare la manifattura creata in Inghilterra da William Morris nel 1861 (attiva fino al 1940). Raccogliendo intorno a sé pittori preraffaelliti, particolarmente Edward Burne-Jones, Morris intendeva liberare l’arazzo dalla sua soggezione alla pittura con un ritorno a un numero limitato di colori, all'eliminazione della prospettiva, ecc.
In Norvegia, a partire dal 1890, vennero realizzati arazzi da cartoni di artisti come Frida Hansen e Gerhard Munthe, che tornarono all'impiego di coloranti vegetali.

Jean Lurçat, lo spirito della Francia

Il XX secolo 

La rinascita dell’arazzo fu opera di Jean Lurçat, pittore francese. Fondamentale fu il suo incontro con i licciai di Aubusson. Le officine private, che un tempo avevano ottenuto da Colbert il titolo di manifatture reali di Aubusson, si trovavano da lungo tempo un poco a corto di cartoni originali di qualità.
Grazie all’iniziativa dell'imprenditrice e mecenate Marie Cuttoli, le officine di Aubusson eseguirono un cartone di Georges Rouault, i Fiori del male, presto seguito dalla tessitura di quadri di celebri pittori: Léger, Braque, Matisse, Picasso, Dufy, Miró, Marcoussis e Derain. Fu proprio Marie Cuttoli a rivolgersi a Jean Lurçat, che nel 1923 diede il suo primo cartone per Aubusson, il Temporale. L’esperienza suscitò un rinnovato interesse per l’arazzo.
Fautore della "liberazione dalla pittura dell’arazzo moderno, per riportarlo alla grande arte del medioevo", Lurçat sosteneva che l’arazzo è "un’arte d’ordine monumentale", opinione condivisa da Le Corbusier, che parlerà di "muro di lana".


Nella scia di Lurçat, una generazione di pittori cartonisti contribuì allo sviluppo dell’arazzo: Gromaire, Picart le Doux, Saint-Saëns, Dom Robert, ecc. Nel 1946 Matisse fornì alla manifattura di Beauvais i cartoni della serie Polinesia. Da quel momento artisti (pittori, scultori o architetti) come Picasso, Braque, Chagall, Arp, Miró, Gilioli, Adam, e Le Corbusier, o ai nostri giorni Penalba, Aillaud, Gäfgen, hanno individuato nell’arazzo un nuovo mezzo espressivo.
Si deve a Lurçat, negli anni ’60, l'inaugurazione, a Losanna, di una Biennale internazionale dell’arazzo.
Questa Biennale ha consentito di fare il punto sulle ricerche effettuate in tutto il mondo portando la tecnica verso il futuro, verso il XXI secolo.

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Le vetrate nell'arte

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Particolare di alcune icone delle vetrate decorate del duomo di Milano
La vetrata è stata ed è un mezzo che gli artisti utilizzano per creare capolavori. Ma cosa si intende per vetrate? si tratta di schermature realizzate con lastre di vetro di piccole dimensioni sostenute da un sistema di telai in piombo.
Per la loro produzione vengono impiegati vari sistemi: la soffiatura in stampi dalle pareti quadrate, il cilindro, la colatura semplice. Le vetrate avevano anche uno scopo conservativo perché mantenevano l'ambiente in una semioscurità che tutelava le opere conservate nelle chiese.
Ovviamente questo tipo di arte è legata a filo doppio con la Chiesa, le cattedrali e la loro decorazione.

Un po' di storia

Nella Schedula diversarum artium del monaco Teofilo (un testo della prima metà del XII secolo) viene descritto il procedimento per l’esecuzione delle vetrate medievali secondo una tecnica che ha trovato recentemente un preciso riscontro in due frammenti di una tavola sui quali è tracciato il disegno di una vetrata trecentesca. Questo supporto, sul quale attraverso lettere sono indicati anche i colori, serviva di base al taglio dei vetri, seguendo il disegno che in altri casi veniva invece steso su carta. Già nel testo di Teofilo vengono individuati gli stretti rapporti di stile che ci sono tra le tecniche artistiche medievali: dipinti, sculture, miniature e vetrate.


Molti storici dell’arte forse hanno assegnato un ruolo eccessivo, ad esempio, all’influenza esercitata dalla miniatura: J. L. Fischer introdusse il suo capitolo sulla Vetrata del XIII secolo con lo studio dei manoscritti di Bianca di Castiglia e dell’epoca di san Luigi. Al contrario J. Porcher segnalò il rapporto inverso, citando manoscritti le cui miniature imitano, nella presentazione e nel cromatismo, le contemporanee vetrate a medaglioni.
I primi grandi cicli di vetrate conservati per intero risalgono tutti al XII secolo, riferiti i cantieri di Augusta, Saint-Denis, Poitiers, Le Mans e Chartres. Questi cicli mostrano nel loro insieme uno stretto rapporto con gli smalti carolingi e ottoniani, quasi in competizione con lo splendore e la purezza delle pietre preziose: Suger, abate di Saint-Denis, celebrò la saphirorum materia delle vetrate che egli ha fatto erigere per la sua chiesa.

Maestro Gherlacus, Storie di Mosè, abbazia di Arnstein an der Lahn 
La gamma cromatica usata in questo periodo è già quella che verrà utilizzata fino alla fine del Medioevo: la tonalità generale tende al chiaro, a una tersa limpidezza, scarsamente modificata dalla grisaille, cioè della pittura monocroma stesa su vetri. Le aree che testimoniano una chiara omogeneità stilistica, nella loro importanza per la storia della vetrata di questo periodo sono quella tedesca e quella francese.
In Francia si contrappongono e si incrociano varie tendenze: una è rappresentata da un gruppo di vetrate occidentali che presentano stretti rapporti con la miniatura e la pittura murale della regione, e che sono pienamente romaniche nell'espressività e nella fantastica distorsione formale. Una tendenza diversa è quella rappresentata dall'abbazia di Saint-Denis, dove l’abate Suger fece dipingere alcune vetrate figurate e altre puramente decorative per il deambulatorio della chiesa abbaziale, costruito tra il 1140 e il 1144.
La situazione testimoniata dalle vetrate di area tedesca è molto differente da quella francese e, nonostante siano poche le vetrate superstiti, è possibile rintracciare alcune caratteristiche costanti: più ancora che in Francia, in Germania appare chiaramente il rapporto con gli smalti e gli oggetti preziosi, con accenti di un’eleganza minuziosa. In quest’area la superficie vetrata viene a inserirsi  in aree più limitate, corrispondenti alle aperture delle chiese romaniche.

Profeti della Cattedrale di Augusta 
Un esempio particolare tra le vetrate del XII secolo è rappresentato dalle cosiddette grisailles cistercensi che, seguendo i precetti di san Bernardo, non avevano figurazioni, ma semplici intrecci decorativi che tramandano forme ornamentali antiche.
Ad apertura del nuovo secolo, la serie delle vetrate costruite a Chartres tra il 1200 e il 1236 costituì il massimo monumento della pittura su vetro medievale. Nell'imponente ciclo della navata, che prosegue con una cromia generalmente più cupa la serie iniziata già nel secolo precedente sulla facciata, le vetrate assumono per la prima volta l’andamento narrativo determinato dalla suddivisione in medaglioni, raggruppati a formare quadrilobi, cerchi o rombi sovrapposti, secondo una tipologia che avrà grande influenza per gli sviluppi della vetrata dipinta: le maestranze che a Chartres avevano portato le esperienze più diverse, in seguito si sposteranno in tutta la Francia.

Cattedrale di Chartres, vetrate del transetto sud
Parallelamente al cantiere di Chartres, si sviluppò negli stessi anni il ciclo di vetrate della Cattedrale di Bourges, ma altri cicli importanti sono quelli di Sens, Auxerre, Le Mans e di Rouen. Intorno alla metà del secolo, il grande ciclo della Sainte-Chapelle, eretta tra il 1243 e il 1248, cambiò sostanzialmente i modi della decorazione vitrea, abbandonando la formula della vetrata-tappeto, con complessi montaggi di medaglioni, per una semplice sovrapposizione delle scene. Il loro stile veloce e spezzato ha avuto una grande influenza sulle vetrate francesi della seconda metà del Duecento.
Lo sviluppo duecentesco della vetrata tedesca mostra invece l’esistenza di due correnti stilistiche: una prima si mantiene più conservatrice, con forti derivazioni romaniche e bizantine, mentre la seconda testimonia più chiaramente un rapporto con la vetrata gotica francese.

Limpidezza e leggibilità

E nel nostro paese? Affrontando lo studio della vetrata in Italia è necessario insistere sul rapporto dei pittori con la tecnica stessa. La lezione delle scuole settentrionali, nel nostro paese venne messa in discussione, anche in un caso a esse molto legato come la serie delle vetrate di San Francesco ad Assisi, che inseriscono tra la metà del XIII secolo e l’inizio del XIV, e che rappresentano il vero, grandioso inizio della storia della vetrata dipinta in Italia. La maestranza tedesca che eseguì le finestre del coro della Basilica superiore introdusse in Italia un linguaggio legato alle persistenze romaniche, mentre intorno al 1270, il cantiere di Assisi si aprì ai maestri francesi e ad avanzati modelli gotici, diventando una vera fucina d'idee.

rosone del coro della Cattedrale di Siena
L’opera italiana più significativa rimane però il rosone del coro della Cattedrale di Siena, per il quale è stata proposta la data 1287, anche se non confermata.
In questa vetrata tutto è completamente nuovo: solo due personaggi incorniciati da una mandorla possono richiamare dei precedenti tedeschi, mentre le cornici sono discrete, come negli affreschi di Giotto a Padova. I personaggi si inseriscono con naturalezza su uno sfondo di grande limpidezza, con un modellato trasparente: siamo di fronte alla prima vetrata moderna.
Altri importanti cicli di decorazione vetraria sono quelli del Duomo di Orvieto, delle chiese fiorentine di Santa Croce e di Orsanmichele.
Sono inoltre da ricordare la vetrata absidale di San Domenico a Perugia, che venne conclusa nel 1411 da Fra Bartolomeo di Pietro e Mariotto di Nardo, e la finestra dell’oculo nella facciata di Santa Maria Novella a Firenze, di Andrea Bonaiuti.

Nel corso del Trecento, in Europa, si assistette a una importante innovazione tecnica, determinata dall'uso del cosiddetto "giallo d’argento"; grazie alla stesura di sali metallici che, con la cottura, assumono una colorazione dorata, questa tecnica rese possibile una variazione cromatica là dove in precedenza sarebbe stata necessaria l’inserimento di un nuovo vetro.
La dimensione dei vetri, la nitidezza dei drappeggi, l’economia del tratto vennero comunque a definire una nuova monumentalità e si impose contemporaneamente una gamma cromatica nuova.

Il punto di equilibrio

Se in area francese si può verificare una certa continuità di risultati, in Italia, e soprattutto a Firenze, l’intervento diretto dei grandi pittori del momento portò la vetrata a un altissimo livello, a un particolare equilibrio, sia pure destinato ad avere breve durata, nel rapporto tra pittura e tecnica vetraria. In questo senso assume valore ciò che già sottolineava Cennini: "(...) questa tale arte poco si pratica per l’arte nostra, e praticasi più per quelli che lavorano di ciò; e comunemente quelli maestri che lavorano, hanno più pratica che disegno, e per mezza forza, per la guida del disegno, pervengono a chi ha l’arte compiuta, ciò che sia d’universale, e buona pratica".

Paolo Uccello (cartone) e Angelo Lippi (esecuzione), natività, Santa Maria del Fiore
L’architettura rinascimentale si mantenne disponibile alla decorazione, si tratti di affresco, ceramica o vetrata: la cupola brunelleschiana di Santa Maria del Fiore, ad esempio, presenta nei sei grandi oculi del tamburo vetrate dovute a Donatello, Paolo Uccello, Ghiberti, Andrea del Castagno, la cui
scioltezza e semplicità sembrano gareggiare con l’architettura.
Uno sviluppo diverso si riscontra nella chiesa di Santa Maria Novella, dove Ghirlandaio utilizzò questa tecnica come fosse un intarsio.
Come schizzi preparatori per le vetrate ebbero la diffusione maggiore i cartoni, ma un altro supporto utilizzato per questi disegni era la tela e questo valse per l'Italia come per la Francia e la Germania.

I pittori e la diffusione delle opere attraverso l’incisione

Tra l’ultimo terzo del XV secolo e la metà del successivo si possono confrontare le opere di maestri vetrai dei quali riconosciamo la personalità in alcune vetrate che sono tratte da cartoni elaborati dai grandi pittori contemporanei. Nonostante l’apparente rigidezza delle diverse competenze, artisti e artigiani operavano a stretto contatto, particolarmente nei grandi cantieri urbani: Grünewald, uscì dalla bottega di Martin Schongauer, dove acquistò il titolo di maestro, per operare nella bottega di Pierre Hemmel, pittore su vetro a Strasburgo. Vasari era stato allievo del pittore su vetro Guillaume de Marcillat, che lasciò vetrate a Roma, Cortona e Arezzo. Sono solo alcuni esempi che dimostrano l'interazione tra le varie arti.

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L’informazione e la documentazione circolavano a tutti i livelli: senza la stampa, il rinascimento non avrebbe presentato la stessa compattezza. Stampe di opere fiamminghe e italiane circolarono in tutta Europa, producendo imitazioni, ispirazioni e libere trasposizioni. In questo periodo, siamo agli inizi del XVI secolo, è in piena attività l’importantissimo cantiere del Duomo di Milano. Qui abbiamo uno dei maggiori cicli di vetrate esistenti in Italia, per cui molti maestri vetrai furono fatti venire dalla Germania e dai paesi fiamminghi e dove forse vi partecipò direttamente il Foppa.
Le diverse correnti, fiamminghe, tedesche, italiane, andarono così intrecciandosi: per fare un esempio, il pittore lionese Antoine Noisin, nella grande vetrata dell’abside della chiesa di Brou, riprodusse nell’Incoronazione della Vergine una tavola della Marienleben di Dürer e, nella fascia sviluppò il Trionfo di Cristo, da una stampa di Andrea Andreani a sua volta da Tiziano.

Duomo di Milano, vetrata dell'Apocalisse, XV secolo
I grandi maestri vetrai del periodo trassero ispirazione da fonti anche più dirette: grande importanza ebbe lo Hausbuch, una raccolta di disegni originali e di rapidi appunti con annotazione dei colori che passò di mano in mano a diversi artisti tra cui Grünewald. In questa raccolta compaiono molti schemi di medaglioni a soggetto religioso o civile. Ma gli esempi abbondano: il vetraio Engrand Leprince di Beauvais possedeva una raccolta di opere originali di gran pregio; nel suo testamento Valentin Busch, il pittore delle vetrate della Cattedrale di Metz, cedette "tutti i grandi modelli, dai quali ha fatto le vetrate della detta chiesa, per servirsene nella riparazione di esse", e contemporaneamente lasciò a un servitore "dodici pezzi di ritratti d’Italia o di Albert".

Certo, tutte queste fonti d'ispirazione sono poca cosa se confrontate con la libertà e l’invenzione del pittore su vetro, con la sua gamma di pennelli, piccoli legni e spilli; il taglio dei vetri e l’inserzione nei piombi compaiono soltanto in pochi documenti, dove sono disegnati a sanguigna.
Nei paesi germanici troviamo, tra la fine del XV secolo e i primi due terzi del seguente, uno stretto legame tra i pittori e i maestri vetrai. Questo rinascimento tedesco si impose con particolare chiarezza
nell’arte della vetrata, in cui la ristrettezza degli spazi e la gamma cromatica satura contribuiscono alla drammatizzazione degli atteggiamenti, come in una sorta di espressionismo, che viene denunciato dal disegno.

Manierismo, barocco e classicismo

Con l'inoltrarsi nel XVI secolo, l'avvento del protestantesimo (e la conseguente iconoclastia) e della Controriforma, iniziò per le vetrate un periodo di declino, sopratutto in Italia e in Germania. La Francia porterà avanti la tradizione e ai suoi mastri vetrai si deve riconoscere una particolare sensibilità pittorica nel trattamento degli incarnati, dei panneggi e del paesaggio.
A partire dal terzo decennio del XVI secolo intervenne una svolta, riguardante soprattutto l’inquadramento architettonico delle vetrate, nel quale venne introdotta una rappresentazione scenografica caratterizzata dalla prospettiva. Questa nuova strutturazione di volumi entro un inquadramento prospettico sarà presente in molte vetrate.
Nel periodo barocco l'interesse nei confronti della vetrata calò ulteriormente: la conoscenza delle tecniche si perse in molti casi, tanto che nessuno fu più in capace di eseguire i restauri.

Burne-Jones e Morris, Commissione di Davide a Salomone,
1882, 
Trinity Church, Boston 
La Francia, ultimo baluardo della tecnica artistica, eliminò le grandi composizioni attenendosi a vetrate geometriche e l’intervento dei pittori su vetro si ridusse a bordi decorati su disegni realizzati da pittori.
Una tecnica invece che rimase monumentale fu quella della pittura, della grisaille o dello smalto impiegati su una trama di vetri rettangolari incolori, nota in particolare in Olanda. Questa era una particolare pittura che si eseguiva sul lato interno delle vetrate, per aggiungere alcuni effetti pittorici, altrimenti impossibili a causa dell'uniformità cromatica dei vetri.
Questa tecnica verrà introdotta all’inizio del XVIII secolo in Inghilterra, da Bernard van Linge e dal figlio Abraham, e sarà ulteriormente perfezionata da Henry ed Edmund Gyles, mentre ci fu un ritorno alla vetrata colorata con l’opera di William Peckitt a York. Ebbe invece un esito negativo la realizzazione con una tecnica pittorica a freddo, nelle vetrate su disegno di J. Reynolds per il New College di Oxford.

L’Ottocento

Soltanto in Gran Bretagna si mantenne costante l’interesse verso la tecnica della vetrata, mentre in Francia si dovettero far arrivare due inglesi, Warrem e Jones, per tradurre i cartoni destinati alla chiesa di Sainte-Elisabeth a Parigi. La ricerca tecnologica, mirante a ritrovare l’antica tecnica del vetro dipinto, insieme all’atteggiamento archeologico che iniziava a prevedere il restauro delle vetrate antiche, provocarono un vero revival della tecnica. La famosa manifattura di Sèvres, in Francia, continuò a creare vetrate su cartoni di grandi maestri, mentre il maestro vetraio Steinheil realizzò per la chiesa parigina di Saint-Germain-l’Auxerrois la prima vetrata ispirata ai prototipi duecenteschi. Il confronto con gli esempi antichi venne cercato anche in Italia, soprattutto a Milano, dove la dinastia familiare iniziata da G. B. Bertini fu a lungo attiva per il ripristino delle vetrate del Duomo.
Solo nella seconda metà dell’Ottocento si vide un moltiplicarsi delle botteghe e un’intensa produzione, in Francia e in Germania.
Strade più moderne furono però intraprese in Inghilterra, dove l’officina fondata da William Morris realizzerà opere dei preraffaelliti, di Madox Brown, Rossetti, oltre ai grandi complessi di Burne-Jones. Questi, come il suo contemporaneo svizzero Grasset, trovò proprio nella pittura su vetro la migliore espressione per la sua grafica.

Esempio di vetrata Liberty

Le fonti del XX secolo

Toccherà a quattro architetti, Gaudí, Horta, Guimard e Mackintosh, dare nuova vita alla vetrata, riportandola a una scala monumentale, cosa che non avvenne invece in pittura, con le esperienze dei nabis, i cui cartoni verranno spesso realizzati da L. C. Tiffany. Nei vetri dipinti da Gauguin o da Maurice Denis, si ritrovano una decisa accentuazione dei contorni e un forte contrasto coloristico. Con la diffusione dell’Art Nouveau si arrivò in tutta Europa alla ripresa della vetrata profana, che si impose come prezioso elemento di arredo.
Nel gruppo del Bauhaus, un laboratorio di vetrate venne diretto prima da Klee, poi da Albers, facendo eseguire i lavori del gruppo dal laboratorio Kraus di Berlino. La corrente di De Stijl elaborò, con Theo van Doesburg e Sophie Taeuber-Arp, il complesso dell’Aubette a Strasburgo, purtroppo disperso.
Meno rigorosi furono invece i tentativi di un’arte che si ricollegasse a fonti popolari, come accadde in Polonia con Jozef Mehoffer e in Olanda dove furono attivi Roland Holst, Joep Nicolas e J. Toorop.
In Germania, la corrente espressionista condusse alcuni pittori, tutti docenti nelle Accademie, a cercare nell’arte della vetrata un importante strumento didattico. A Cracovia, invece, Stanislaw Wyspiafski creò per la chiesa dei francescani (1897-1902) una serie di vetrate di grande creatività e libertà disegnativa. Tutti esempi che confermano una larga ripresa di questa tecnica nel XX secolo.

I pittori contemporanei

A partire dal 1919, con la creazione degli Ateliers d’art sacré, ebbe inizio una rivalutazione dell’arte della vetrata che la portò a riavvicinarsi alla pittura religiosa moderna. Al congresso internazionale sulla vetrata, svolto a Parigi nel 1937, si affermò: "per riabilitare [questa tecnica] bisognerebbe innanzi tutto accostarsi ai maestri della pittura moderna", quasi parafrasando il testo di Cennini citato in precedenza. Mentre Alexandre Cingria riprese le risorse tecniche delle vetrate svizzere del Cinque e Seicento, l’esposizione di arte sacra moderna al MAD di Parigi (1938-39) presentò una prima campionatura, con opere di Denis, Desvallières, Chagall, e una vetrata di Paul Bony. Il passo decisivo venne però compiuto nel 1939, su iniziativa di Jean Hebert-Stevens, con la mostra di vetrate e arazzi al Petit Palais, in cui vennero presentate le prime esperienze di Bazaine, Bissière, Gromaire, Francis Gruber e Singier, messe a confronto con quelle degli svizzeri Cingria e Stocker.

Fernand Léger, particolare delle vetrate del Sacro Cuore di Audincourt
Nel 1946, su iniziativa di padre Couturier, si iniziò una serie di vetrate nella chiesa di Notre-Dame-de-Toute-Grace di Assy che, con la partecipazione di molti artisti, si propose come opera esemplare. Nel 1954, per una sala da musica in una vecchia cappella a Reux, l’espressionista tedesco Francis Bott usò tutte le risorse della grisaille, senza rinunciare a una intensa luminosità, realizzando un opera straordinaria.
Gli esempi di grande qualità continuarono: nel 1951 Fernand Léger creò la vasta decorazione della chiesa di Audincourt, evidenziando la sua grande padronanza delle forme; Matisse, appoggiandosi alle sue esperienze con i collages, realizzò i cartoni per le vetrate della cappella del Rosario nel convento dei domenicani di Vence (1948-51); Braque nel 1955 lavorò nella cappella di Saint-Dominique di Varengeville, centro nella cui chiesa parrocchiale realizzò anche l’Albero di Jesse, suo capolavoro.
Queste opere, lentamente elaborate, rappresentano il momento della ripresa tecnica della vetrata, anche se non aiutano a cancellare l’equivoco che rimase, agli occhi del pubblico, tra arte decorativa e arte astratta.

Un deciso mutamento nell'arte delle vetrate fu determinato dalla discesa in campo di due pittori di grande temperamento che lavorarono alla Cattedrale di Metz: Villon e Chagall. Le tre grandi vetrate figurative del primo conferiscono alla mediocre architettura di una cappella laterale del XIX secolo una dimensione grandiosa, mentre, ricollegandosi ai maestri del Quattro e Cinquecento, Chagall proseguì, in piena libertà, la tematica biblica a lui cara. Sfruttando, come i suoi predecessori cinquecenteschi, tutte le potenzialità dell’incisione su vetri sovrapposti e del vetro dipinto, Chagall ritrovò l’ingenuità delle sue opere giovanili.

Marc Chagall,
particolare della vetrata dell'Antico Testamento,
cattedrale di Metz
Negli Stati Uniti come nell’Europa occidentale l’architettura in cemento armato si adattò all’impiego della lastra vetrata fissata nel cemento. Paul Mariani e Robert Kehlmann si fecero portavoci dell’astrattismo e della Pop Art, ma nei casi migliori la volontà dell’architetto predominò, determinando il rapporto volumetrico tra cemento e vetro. Pochissimi pittori hanno saputo padroneggiare tale tecnica; i tentativi più felici sono quelli di Le Moal della cripta della chiesa di Audincourt e di Ubac a Ezy-sur-Eure.
L’incitamento verso l’arte della vetrata rivolto ai più rappresentativi pittori del nostro tempo proseguì attraverso mostre come quella di Strasburgo e Chartres del 1968. In Gran Bretagna proseguirono gli esempi di vetrate pur essendo di una certa convenzionalità, a volte inserendosi nel filone del neoespressionismo.

Gli anni 1980-90

In anni recenti, la collaborazione tra pittori ed esecutori si è limitata ad alcuni cantieri prestigiosi.
Nella Cattedrale di Saint-Dié (Vosges), Bazaine ha affiancato alcuni artisti esperti in questo tipo di lavori, come Alfred Manessier e Geneviève Asse, ad altri più giovani, in un confronto sul tema Morte e Resurrezione (1982-87).
Analoghe le soluzioni avviate nella Cattedrale di Nevers, un edificio molto danneggiato durante l’ultima guerra. Accanto a Ubac, cui furono affidati i cartoni delle finestre del coro occidentale romanico (1977-83), sono stati coinvolti quattro pittori tra i più rappresentativi delle tendenze attuali (Viallat, Rouan, Honegger e Alberola) che, seguendo indirizzi anche diversi, studiarono la trasposizione dei cartoni con il concorso dei pittori di vetrata scelti per realizzarli.

Le vetrate della Sagrada Familia a Barcellona
Sono comunque molte le difficoltà in cui si dibatte oggi l’arte della vetrata in Europa, dove non è più considerata come un ambito primario della pittura, come era stata soprattutto in Francia tra il XIII e il XVI, e più ancora nel XIX secolo. In Francia in particolare, nonostante l’attività di eccellenti tecnici che ne hanno rinnovato gli effetti formali e cromatici e i rapporti con l’architettura, il riconoscimento a questi artisti tarda ad arrivare.
Ma ancora oggi mastri vetrai sono al lavoro, per terminare l'ultima cattedrale del nostro tempo: la Sagrada Familia. E forse questa antica e complessa tecnica artistica un destino nel nostro futuro ancora ce l'ha.

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Il manierismo, lo stile raffinato e stravagante che segnò la fine del Rinascimento

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Giulio Romano, la caduta dei giganti
Manierismo, un termine che sicuramente molti di voi avranno sentito nominare. Spesso viene usato anche oggi per definire eccessivi virtuosismi, quindi il più delle volte ha una connotazione negativa. Ma la storia di questa parola ha radici nel passato.
II termine venne usato per la prima volta dallo storico Luigi Lanzi (1809) per definire lo stile della pittura italiana nell'arco di tempo che va dal Sacco di Roma (1527) all’arrivo dei Carracci. L’aggettivo "manierista"è però più antico: fra i primi a usarlo fu un francese, Fréart de Chambray, scrittore, traduttore e teorico dell'architettura e delle arti (1662). Questo termine venne utilizzato da questi due autori per dare un giudizio completamente negativo dello stile di quell'epoca.

Lentamente nel XIX secolo cominciò un processo di riabilitazione del manierismo, grazie ai teorici che si applicarono nel cercare di capire il senso e l'importanza del concetto di maniera e grazie, soprattutto, agli studi condotti su artisti definiti "manieristi".

Un po' di storia

Nel XVI secolo i termini "manierista" e "manierismo" non esistevano. Il termine "maniera", invece, lo troviamo nel trattato di Cennini (1390 ca.) e in Vasari (Le Vite), il quale lo utilizza per riferirsi allo stile di un artista, indicando come "bella maniera" le qualità di grazia, armonia, immaginazione, fantasia e virtuosismo che, secondo lui, sono caratteristiche della "maniera moderna", cioè degli artisti del suo tempo, che il Vasari considera superiori a tutti gli altri. In seguito nacquero le riserve degli storici nei confronti degli imitatori di Raffaello e di Michelangelo, che inaugurarono la nuova moda artistica: dubbi che troviamo in G. Pietro Bellori (1672), il quale si scagliò contro gli artisti che, abbandonando lo studio diretto della natura, avevano alterato l’arte con la pratica dell’imitazione.

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Stesso concetto che venne espresso dal bolognese Malvasia (1678) e dal fiorentino Baldinucci (1681).
Quello che Lanzi scrisse, in pieno neoclassicismo, si ispirò quindi a queste interpretazioni negative: impiegò infatti il termine manierismo per un’arte che altera il vero ed è priva di originalità, poiché si basa sull’imitazione e la ripetizione. Questa in sintesi fu la posizione degli storici fino al XIX secolo.
Dopo gli studi di Gurlitt (1884), che considerò un "tardo rinascimento" identificandolo con Michelangelo, e quelli di Riegl (1908), che sottolineò il carattere originale delle invenzioni decorative del manierismo, si dovrà aspettare Dvorák (1918) per arrivare ad affermare l’autonomia dello stile manierista, con i suoi caratteri: soggettivismo, espressionismo, la tendenza al drammatico, la fantasia e l'animazione. È dunque grazie a lui che l’idea dell'importanza del manierismo è comparsa in piena evidenza.

Da quel momento si tentò di considerare il manierismo in rapporto alla Controriforma, al barocco, o al classicismo. W. Friedländer vide, nel 1915, il manierismo come lo stile anticlassico per eccellenza, di cui lo storico identificò l’origine nell’ambiente di PontormoRossoParmigianino, in contrapposizione all’ideale di armonia del rinascimento. Definì così un primo manierismo, che cominciò con l'opera di Michelangelo, e più tardi (1930) individuò una seconda fase che segnò la sua fortuna, cioè una reazione antimanierista che si riavvicinò al rinascimento e anticipò l’arte del Seicento. In questo modo Friedländer divise il manierismo in più fasi.

Pontormo, La Deposizione o Trasporto di Cristo, 1528
In seguito fu un proliferare di studi come la Storia diAdolfo Venturi, gli studi di H. Voss, R. Longhi, G. Briganti (1940), L. Becherucci (1944), P. Barocchi (1951), per citarne solamente alcuni, che misero in luce il manierismo e una serie di opere poco note o addirittura completamente ignorate. L’indagine si estese poi a tutta l’arte europea. In parallelo con le ricerche sui caratteri formali del manierismo, l’attenzione si concentrò sulle sue cause: accanto a spiegazioni di ordine sociologico, che si contrappongono alle teorie che vedono nel manierismo una tendenza permanente dello spirito umano, e dunque indipendente dai contesti sociali, si sono affermate interpretazioni di carattere stilistico, o anche letterario e filosofico.

Negli ultimi quarantanni, il termine manierismo, divenuto di moda, è stato utilizzato anche troppo, al punto da inquadrare l’intero svolgimento della pittura del Cinquecento dalla morte di Raffaello (1520) fino agli inizi del classicismo seicentesco e del barocco. Oggi si tende a considerare la "maniera" in relazione con l’arte dei protagonisti del rinascimento, Leonardo, Raffaello e Michelangelo.
Una cosa è emersa: lo stile "manierista" non è univoco, a maggior ragione se consideriamo la diversità delle espressioni regionali così come la sua espansione che comprese l’intera Europa. Di conseguenza, oggi gli studiosi che affrontano i problemi di questo periodo preferiscono parlare di "manierismi", i cui tipi sono diversi quanto le regioni o i Paesi in cui si sono affermati e di cui proverò a fare una sintesi.

Rosso Fiorentino, Deposizione dalla Croce, 1521

Il manierismo in Italia: Roma

Il manierismo nacque in Italia. Il ruolo fondamentale svolto da Michelangelo è stato unanimemente sottolineato dagli studi: ispirarono gli artisti manieristi non soltanto le sue opere tarde, ma anche quelle della prima maturità. Anche le sue sculture sono servite a modello: dal David alle tarde Pietà. Gli artisti più giovani vi trovarono un modo per affrontare con spirito innovativo il problema dello spazio figurativo e della composizione.
L’ispirazione grandiosa e drammatica di Michelangelo ha inoltre dato l’esempio di una spiritualità in contrapposizione col naturalismo e l’armonia del primo rinascimento.
È con lo stesso intento che i giovani si ispirarono a Leonardo, che per nascita appartenne ancor più al XV secolo. Le sue opere più celebri diedero ai manieristi altrettante suggestioni, non soltanto per la bellezza delle invenzioni e delle attitudini, ma anche per l’inquietudine che le pervade, per il loro poetico chiaroscuro, e forse anche per la perfezione dei particolari.

A Raffaello il manierismo si rivolse con uguale intensità: con particolare riferimento alle stanze vaticane, con il loro clima eroico, la ricerca di composizione e di movimento, che colpirono i giovani artisti.
Dopo la morte di Raffaello, i suoi collaboratori, diretti da Giulio Romano, abbandonarono definitivamente l’equilibrio rinascimentale. Che queste fossero davvero le intenzioni del maestro è dimostrato dai suoi disegni originali e dalle sue ultime opere. Risaliva inoltre a Raffaello il nuovo interesse per la decorazione antica, che gli si svelò quando soprintendeva agli scavi di Roma. Tutti i suoi suggerimenti vennero messi a frutto dagli allievi, ma fu in particolare Giulio Romano a trarre dal modello raffaellesco le massime conseguenze. A Mantova, dove si era stabilito nel 1524, a Palazzo Ducale e soprattutto a Palazzo Te creò un complesso decorativo, di una varietà incessante, accostando lo stucco all’affresco in un rapporto del tutto nuovo. Per queste ragioni Palazzo Te è considerato un monumento fra i più importanti e precoci della civiltà manierista.

Domenico Beccafumi, Annunciazione, 1545

Il manierismo in Italia: la Toscana

L’identificazione del ruolo della Toscana nel manierismo è uno dei risultati degli studi del nostro secolo. Andrea del Sarto e la sua scuola sono stati esaminati, da questo punto di vista, con un orientamento del tutto nuovo: attorno ad Andrea si formarono gli artisti più dotati della nuova generazione, ammiratori non soltanto di Leonardo, Michelangelo e Raffaello, ma anche di Donatello e Dürer. Essi presero da questi maestri arditezze compositive, virtuosismi di disegno e di colore che li condussero ancora più lontano dei loro predecessori.
Piero di Cosimo e Filippino Lippi avevano aperto la strada alla tendenza degli "eccentrici" fiorentini. Ma non solo, il soggiorno a Firenze di Berruguete (fra il 1508 e il 1516) fu ugualmente un avvenimento di rilievo per i giovani pittori. Ma quali furono gli artisti manieristi di area toscana?

Pontormo è uno di questi, dimostrando come si potesse rompere l’unità dello spazio e al contempo esaltare la potenza espressiva delle figure. Le sue opere successive rivelano un soggettivismo sempre più disperato, persino nella decorazione delle ville medicee.
Questa vocazione spinse Pontormo verso un’arte irrealistica, che volle gareggiare con quella di Michelangelo, e che lo rinchiuderà in un totale isolamento sia esistenziale che artistico. Nella tensione di una febbrile ricerca, Pontormo accumulava i disegni che occuparono un posto essenziale nella genesi della sua opera e sottolineano il ruolo notevole attribuito dagli artisti a questo mezzo espressivo.

Giorgio Vasari, la Fucina di Vulcano, 1564 circa
L’originalità di Rosso Fiorentino si affermò molto presto, con lo scalpore di uno scandalo e una volontà di assoluta indipendenza che ne fanno un artista senza maestri. È a Roma, dapprima a contatto con le imprese sconvolgenti di Michelangelo e di Raffaello, poi accanto a Parmigianino e Perino che Rosso fece suo l’ideale, tutto grazia ed eleganza della "maniera". Dopo il 1527, conducendo una esistenza errabonda e piena di difficoltà, lasciò in Umbria e in Toscana opere di un pathos intenso, piene di energia, dissonanti nel colorito e violentemente spezzate nel disegno. Infine, nel 1530, la chiamata di Francesco I gli consentì di dimostrarsi in Francia, un artista fra i più originali e importanti del suo tempo.

Il senese Domenico Beccafumi, sia come autore di decorazioni profane, che come pittore di opere sacre diede forma a un mondo poeticamente irreale, in una gamma dai toni luminosi e lirici, esempio perfetto di una "maniera" dagli inconfondibili, sofisticati formalismi. Pontormo, Rosso e Beccafumi, per la loro originalità, che investì la composizione, l’espressione, la luce e il colore, si distinguono nettamente dalla generazione di artisti della seconda metà del XVI secolo a Firenze, dove si svilupperà un’arte di corte.
Il Bronzinoè ritrattista di una freddezza e di un’eleganza sapientemente calcolate, di una perfezione assoluta nel disegno e di una complicata fantasia nelle invenzioni. Questa generazione ha dato altri grandi della decorazione, come Francesco Salviati: le sue creazioni romane e fiorentine, originali e complesse, costituiscono uno degli esempi più rappresentativi del gusto manierista.

Parmigianino, Madonna dal collo lungo, 1534-40

I grandi cicli diretti dal Vasari, biografo dei pittori, uomo di fiducia dei Medici, svolsero un ruolo di rilievo. L'artista glorificò senza posa i signori di Firenze, influenzando i numerosi collaboratori, che gli furono accanto nelle sue imprese. Nelle decorazioni di Palazzo Vecchio Vasari utilizzò tutte le risorse del vocabolario ornamentale del suo tempo quali grottesche, finte sculture, nature morte e paesaggi, per incastonare composizioni fresche e aggraziate.

Il manierismo in Italia: Parma e l'Emilia

All’inizio del XVI secolo, l’arte emiliana venne dominata dal Correggio, i cui capolavori, per il gusto illusionistico e le originali invenzioni ispirarono i manieristi, prima di sedurre gli artisti del barocco e del rococò. Allo stesso modo le sue soavi Madonne anticiparono le ricerche del Parmigianino, la cui influenza andò oltre i confini dell’Emilia, dove lasciò le sue opere più importanti. I suoi disegni, di raffinato virtuosismo, e i suoi quadri impongono un nuovo tipo di bellezza, dalle forme allungate, dai ritmi sinuosi, prototipi di quella sua grazia tutta manierista che, divulgata dalle incisioni, influenzò profondamente un’intera generazione di artisti. Da quelle sue invenzioni derivarono pittori di delicata sensibilità e di originalità, come Michelangelo Anselmi, Girolamo Mazzola Bedoli, Lelio Orsi e Jacopo Bertoja: la loro arte unisce alla grazia la fantasia più bizzarra.

Pellegrino Tibaldi, adorazione di Cristo bambino, 1548 
Bologna fu tra le prime città ad accogliere il messaggio del Parmigianino, al quale era stata preparata dai seguaci di Raffaello e di Lorenzo Costa, e dal soggiorno del Parmigianino stesso al suo ritorno da Roma. Nicolò dell’Abate ne diede prova nelle decorazioni di Palazzo Poggi a Bologna, prima di "esportare" questa grazia nella lontana Francia insieme al bolognese Francesco Primaticcio, uno dei primi decoratori del suo tempo. Più segnato da Michelangelo, Pellegrino Tibaldi dipinse a Palazzo Poggi con un virtuosismo intriso di humour. Dopo di lui, un gran numero di artisti popolarono i palazzi e le chiese di immagini che si riallacciarono all’ultima ondata del manierismo: Prospero Fontana, Ercole Procaccini, Lorenzo Sabbatini e Grazio Sammachini. Accanto a questi artisti Bologna poteva vantare, già all’inizio del secolo, una personalità dotata di acuta espressività, più vicina all’"eccentrico" che al "manierista": Amico Aspertini, che attinse a fonti diverse e la cui emotività e libertà espressiva incarnarono una moderna disperazione.

Il manierismo in Italia: Venezia, Genova e Milano

È un altro merito degli studi moderni aver indagato il manierismo nella pittura veneziana, prima giudicata estranea a queste vicende di fine rinascimento. Di fatto il nuovo stile è presente a Venezia dopo il 1530. Alla prima ondata manierista si riallaccia Giuseppe Porta detto Salviati, i cui rapporti con l’arte veneziana sono stati diversamente interpretati. Una seconda ondata manierista è caratterizzata, sempre a Venezia, dalle grandi decorazioni di Palazzo Ducale. A Roma lo stesso Tiziano, colpito dai capolavori michelangioleschi, modificò profondamente la sua maniera.

Tintoretto, San Marco compie diversi miracoli, 1562-66
Al manierismo è totalmente legata l’opera del Tintoretto, che si ispirò a Michelangelo in cicli giganteschi, dove la sua fantasia visionaria usò un disegno audace, fatto di un cromatismo vibrante e di violenti contrasti di luce. Il pittore creò un universo irreale dove è sempre presente un tratto personale di forte emotività. Veronese adattò il proprio manierismo agli splendori delle nobili residenze veneziane di campagna, di cui si affermò come grande decoratore: dalla sua pittura stesa con gioiosa fluidità, in una gamma armoniosa e chiara, nacquero figure toccate dalla grazia del Parmigianino. Veronese esaltò anche uno dei temi cari al manierismo, il paesaggio di fantasia o di rovine.

Andrea Schiavone, conversione di San Paolo, 1540-45
Dal Parmigianino derivò Andrea Schiavone: il suo stile rapidamente schizzato ha in pittura il fascino e la freschezza del primo momento creativo, contribuendo a quel virtuosismo grafico che è un carattere tipico del manierismo.
Ricerche più recenti hanno approfondito aspetti del manierismo a Venezia e sottolineato il ruolo di personalità come Paris Bordon, Giovanni de Mio, Lambert Sustris e Battista Franco: un ambiente di eccezionale vitalità che sul finire degli anni Sessanta vide anche la partecipazione di El Greco.
Lo studio delle correnti manieriste negli altri centri italiani è anch’esso una conquista della critica moderna: Genova con Luca Cambiaso, Napoli con Roviale Spagnolo, Milano e la Lombardia con Gaudenzio Ferrari e, più tardi nel XVII secolo con gli inizi di Cairo, Morazzone e Tanzio da Varallo.

Diffusione internazionale del manierismo 

A partire dal 1530, quasi tutta l’Europa fu attraversata dal manierismo: qui cercherò di definire solo alcuni aspetti particolari, parlando degli artisti più significativi e procedendo per aree geografiche.

Spagna 

Dominata inizialmente dall'arte del Ghirlandaio e del Francia, la Spagna si aprì al rinascimento italiano, e la sua ammirazione si rivolse ad alcuni maestri. Sebastiano del Piombo, le cui opere sono ben conosciute e copiate, ispirò uno stile monumentale profondamente religioso. Una corrente più moderna si formò attorno agli artisti che soggiornarono in Italia e alcuni dei quali, come Alonso Berruguete, furono un vero e proprio fermento per la formazione della maniera. Questi pittori crearono immagini di singolare libertà, come fece Pedro de Campaña, o il bizzarro Pedro Machuca, le cui Madonne sembrano quasi riflettere quelle di Leonardo in uno specchio deformato. La rivalutazione di Berruguete, Campaña e Machuca è dovuta alla critica recente e al suo intento di collocare a Firenze la nascita della maniera.

El Greco, martirio di San Maurizio
Il primo artista spagnolo che interessò gli studiosi del manierismo fu El Greco. Per il misticismo che lo caratterizzò, El Greco apparì figura emblematica dello spiritualismo della maniera. Si è anche tentato di avvicinare l’arte dell'artista al barocco: i suoi quadri audacemente composti, dai colori stranamente freddi, talvolta lividi, evocano un mondo irreale, dove personaggi dai corpi inverosimilmente allungati esprimono la più intensa sofferenza, l’estasi e la fede.
Il clima di tensione spirituale dell’opera di El Greco è di una intensità senza pari nella pittura del suo tempo.

Inghilterra 

L’arte di corte, che fu uno tra gli aspetti significativi del manierismo, favorita dalle condizioni storiche, raggiunse nell’Inghilterra del XVI secolo uno splendore di cui purtroppo oggi non ci resta gran che, poiché la maggior parte delle opere sono scomparse. In realtà, l’Inghilterra appare, all’inizio del rinascimento, in ritardo rispetto al resto d’Europa. Enrico VIII chiamò artisti stranieri, e in particolare i fiamminghi, rinomati per l'eccellenza della tecnica, e gli italiani considerati gli autentici creatori dell’arte contemporanea. Il suo tentativo fu quello di acclimatare in Inghilterra il manierismo romano e fiorentino avvalendosi di artisti come Toto di Nunziato d’Antonio, Bartolomeo Penni e Nicolas Belin di Modena. Si riallacciarono al manierismo internazionale alcuni fiamminghi che, richiamando i toni algidi e la tipica tavolozza di Floris e Jan Metsys, dipinsero complicate allegorie e mitologie.

Isaac Oliver, party all'aria aperta, 1590
Se gli italiani hanno svolto un ruolo fondamentale nella decorazione, i fiamminghi hanno dominato l’arte del ritratto, sviluppatasi considerevolmente durante il regno di Elisabetta: si diffusero allora generi tipicamente inglesi, come i ritratti allegorici dei sovrani, le icone profane con finalità politiche, e, nel campo della miniatura, le creazioni raffinate di Nicolas Hilliard e di Isaac Oliver: esempi perfetti del gusto manierista per l’infinitamente piccolo.

Francia 

Uno dei centri manieristici più importanti si sviluppò a Fontainebleau, grazie all’intelligente politica artistica dei sovrani. Non soltanto, come Francesco I, essi seppero circondarsi di artisti italiani, ma riunirono anche attorno a sé raccolte prestigiose di opere d’arte, la cui presenza a Fontainebleau fu fondamentale per la nascita del nuovo stile. Questo giunse alla perfezione nel celebre Castello, dove venne elaborata un’arte decorativa di così spiccata originalità da essere denominata "la maniera francese".

Rosso e Primaticcio, aiutati da collaboratori di classe, affrontarono tutti i generi e si imposero nella decorazione di ispirazione mitologica, nel nudo e nel paesaggio. Ampiamente diffuso attraverso le incisioni, impiegato anche negli arazzi, il nuovo stile di Fontainebleau ebbe un successo cui si sottrassero pochi artisti francesi. Imitata nei castelli, la decorazione a stucchi e ad affreschi di Fontainebleau venne spesso, per economia, tradotta in sola pittura. L’evoluzione dell’inquadramento ornamentale, la cui importanza è spesso maggiore di quella della scena principale, è caratteristica dello stile di Fontainbleau e riscosse un successo che si estese alle tecniche più diverse quali armi, libri, miniature, mobili e oreficeria. Disegnatori di talento seguirono felicemente questa moda, e così anche alcuni incisori. Fu creato, in stretto rapporto con i modelli offerti dalla corte e con il contributo di grandi pittori come François Clouet, il ritratto mitologico, con personaggi a mezza figura, di raffinato erotismo.

Francesco Primaticcio, il rapimento di Elena, 1530-1539
La moda dello stile "miniatura" e quella delle allegorie sofisticate proseguirono fino alla fine del secolo; mentre negli ultimi anni, sotto Enrico IV, un manierismo tardivo, influenzato da quello nordico e dallo stile dei decoratori precedenti, e in particolare dell’epoca di Enrico II, rinnovò tecniche e soggetti, facendo splendere di nuove seduzioni il vecchio castello. Influenzati dai fiamminghi oltre che dagli italiani, Dubreil, Dubois, Fréminet ripresero la decorazione a stucchi e ad affreschi: la loro maniera, più colorata, si accostò al manierismo internazionale, mentre i soggetti si ispirarono a nuove fonti (poemi greci e italiani). Questa seconda scuola di Fontainebleau produsse uno dei capolavori del manierismo francese, la decorazione della cappella della Trinità nel Castello di Fontainebleau.

Scuole del Nord: Fiandre, Olanda, Germania 

Le personalità eccezionali di Bosch e Bruegel dominarono il XVI secolo e rappresentano un problema tutto particolare. È considerata manierista la pittura di Anversa verso il 1520, etichetta che fu a volte criticata, benché la preziosa fattura dei personaggi lo richiamino alla mente. Infatti questi maestri annunciarono sia la pittura italianizzante di Pieter Coecke van Aelst o di Scoreli, affascinato dall’Antico e dall’Italia, sia l’eclettismo di Heemskerck. I romanisti, le cui esperienze furono anticipate da Gossaert, vennero dominati da Frans Floris, che assimilò la cultura italiana, sostenuto da un forte temperamento e lontano dall’accademismo in cui si affossò la sua scuola. Anche in Michiel Coxcie o Lambert Lombard la lezione italiana fu perfettamente assimilata, e così pure in Maerten de Vos. Per quasi tutti questi artisti il modello italiano divenne fondamentale, ma questo non intaccò le qualità principali del realismo nordico.

Frans Floris, il giudizio di Paride, 1550
Di conseguenza l’originalità dei maestri dei Paesi Bassi primeggiò in alcuni temi tradizionali e in particolare nel paesaggio o nella natura morta. In centri molto attivi, come Haarlem o Utrecht, si elaborò verso la fine del secolo, per influsso della scuola di Parma, un’arte elegante e appassionata. Tipicamente manieristi sono i colori dissonanti, la mimica ricercata di questi pittori, che si distinsero anche per una grande delicatezza di esecuzione, che sembra annunciare l’arte del XVIII secolo. In Germania, se Dürer ed Holbein restarono estranei al manierismo, la scuola del Danubio che raggruppava artisti diversi, da Cranach a Wolf Huber, vi si riallacciò per l’irrealismo fantastico dei suoi paesaggi: i nudi di Cranach hanno un accento singolarmente erotico, che il pittore rafforzò ulteriormente avvolgendoli in veli trasparenti o decorandoli con sontuosi gioielli. Egli riprense motivi da composizioni italiane, ma li dipinse con un rigore di disegno e una freddezza ancora gotica, che conferiscono loro un fascino singolare. Alcuni di questi caratteri e un ductus irreprensibile danno una speciale impronta anche all’opera dello svizzero Niklaus Manuel Deutsch.

Un focolare di tardo manierismo particolarmente brillante si costituì a Praga alla corte di Rodolfo II, che sull’esempio di Francesco I seppe riunire artisti di prestigio e una ricchissima collezione.
Il bizzarro, l’erotico, il prezioso vennero qui apprezzati ancor più che a Fontainebleau, e arrivarono a vertici di seduzione talvolta un po’ ostentata: i loro risultati erano stati preparati dalle esperienze di Karel van Mander e di Speckaert a Roma. Davanti alle loro opere si resta colpiti da una qualità di invenzione dalla ineguagliabile raffinatezza dell’esecuzione che annuncia il barocco e il rococò.

Quindi tanti paesi, centri e artisti svilupparono percorsi che oggi vengono identificati come "manierismi". Ma questo movimento artistico, inventato convenzionalmente dagli storici dell'arte, continua ad avere contorni sfocati e a sfuggire da definizioni e recinti rigorosi. Vi invito per questo a percorrere voi stessi percorsi trasversali, cercando opere o artisti. Vi stupirete della diversità e della moltitudine di espressioni artistiche che percorsero questi decenni, poco prima dell'arrivo del Barocco.
Buona esplorazione

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La litografia

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Una litografia del 1820
Come detto nel post sulle incisioni, di queste tecniche artistiche ne esistono di diversi tipi e tra questi c'è la litografia.
La litografia è un procedimento di riproduzione in piano, su pietra, basato sull'incompatibilità tra l’acqua e una sostanza grassa. La pietra litografica è un calcare fine, abbastanza duro e omogeneo, i cui giacimenti si trovano in Baviera, e che viene tagliato in lamine di spessore variabile. La pietra viene pulita e, tracciandovi segni grassi e poi inumidendola, si vede che l’acqua non aderisce a tali tracce. Ora, passandovi un rullo inchiostrato, si produce l’effetto opposto: l’inchiostro, che è grasso, aderisce ai segni grassi e non alle parti inumidite della pietra. Infine, un foglio pressato contro la pietra riceve l’inchiostro posato sui segni.


Per migliorare il procedimento, si fa "mordere" la pietra da una soluzione di gomma arabica, leggermente acida; ciò accresce l’aderenza dell’acqua alla pietra. I litografi si servono di una sostanza grassa mescolata a un pigmento (in generale, nerofumo), il che consente di constatare l’effetto nel corso del lavoro. Tale sostanza grassa è sia una matita tipografica, sia un inchiostro applicato a pennello o a penna, e che è possibile diluire in lavis litografico.
L’artista, se lo desidera, gratta le parti grasse ottenendo così un tratto bianco su nero.

Aloys Senefelder
La litografia venne inventata dal boemo Aloys Senefelder nel 1798 o 1799. Il termine comparve in Francia, attorno al 1803 e da qui si diffuse. Nel 1818 Senefelder pubblicò un manuale, Vollständiges Lehrbuch der Steindruckerei, nel quale prevedeva ogni sorta di innovazioni: sostituzione della pietra con altri supporti, trasferimento litografico, cromolitografia. I primi tentativi di litografia artistica risalgono al 1800: Philipp André, che a questa data si stabilì a Londra, inviò pietre con l’accompagnamento di istruzioni per l’uso a tutti gli artisti importanti.

Bejamin West, angelo della resurrezione, 1801
Una litografia di Bejamin Westè datata 1801; nel 1803, André pubblicò gli Specimens of Polyautography: a Monaco comparvero, nel 1805, i Lithographische Kunstprodukte. La Francia si aprì solo più tardi alla nuova tecnica: i primi tentativi fallirono, e la litografia si sviluppò soltanto nel 1816 quando Engelmann e Lasteyrie aprirono le loro officine a Parigi dopo aver studiato quelle di Monaco. In pochi anni essa si affinò nei procedimenti, e a partire dal 1820 si moltiplicarono i capolavori. Il barone Taylor l’adottò per illustrare i suoi famosi Voyages pittoresques (in collaborazione con Nodier), che cominciarono a comparire nel 1820.


Gli stampatori litografi divennero numerosi. Molti artisti si avvicinarono alla tecnica, e alcuni ne fecero la propria professione, come Charlet, che godette di grande popolarità.
Goya esplorò audacemente le possibilità di questa tecnica nei Tori di Bordeau (1825), dove dispiegò tutto il genio dei suoi ultimi anni. La generazione del 1830, con in testa Delacroix, acquisì completamente la tecnica della litografia, la cui fioritura fu stupefacente. Grazie a essa, ebbe un impulso inatteso la caricatura, con Decamps, Grandville, Gavarni e Daumier ne fece una delle massime espressioni del secolo.

Una litografia da Voyages pittoresques, Vue de Saint-Claude, 1825
Meno in auge fu la litografia verso la metà dell’Ottocento, malgrado le opere magistrali di Manet, Redon e Whistler. Conobbe una rinascita verso il 1890 con lo sfruttamento della stampa a colori. La cromolitografia, in auge nella prima metà del secolo, aveva prodotto sino ad allora solo risultati volgari: da qui il senso peggiorativo che ha in francese il termine chromo. Il procedimento si rigenerò, sulle prime, nel campo del manifesto (soprattutto per merito di Jules Chéret e di Mucha), in seguito in quello dell’illustrazione libraria (Walter Crane, Flora’s Feast, 1889).
La litografia a colori fu allora praticata con successo da Lautrec e dai Nabis (Bonnard, Vuillard, Denis, Roussel).

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In Italia venne introdotta attorno al 1805, a Roma, dal trentino G. Dall'Armi.
Dapprima fu usata una macchina antenata della stampa offset, che in campo industriale si diffuse velocemente e con cambiamenti anche profondi, come la sostituzione della lastra in pietra con una di zinco, che portò verso il 1840 alla costruzione delle prime macchine pianocilindriche. Queste hanno come caratteristica principale un cilindro di pressione, a differenza della pressione planare utilizzata in precedenza.

Torchio litografico
Sono quindi molti gli artisti che si confrontarono con questa tecnica: Georges Braque, Marc Chagall, Salvador Dalí, Honoré Daumier, Eugène Delacroix, Gustave Doré, Max Ernst, Francisco Goya, Paul Klee, Édouard Manet, Marino Marini, Joan Miró, Alfons Maria Mucha, Edvard Munch, Emil Nolde, Pablo Picasso. Solo per citarne alcuni.
Se, dopo il 1900, la litografia sia in bianco e nero che a colori ha servito costantemente l’arte, non ha però suscitato nuovi sviluppi. E ancora oggi conosce ampio utilizzo, sia in campo artistico che pubblicitario.

Se volete scoprire altre tecniche artistiche leggete QUI

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Gala, la musa inquietante

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Gala e Salvador Dalì
Questa storia comincia nel luglio del 1929 a Cadaqués in Spagna. Nel piccolo paesino di mare giunsero in quell'anno un gruppo di artisti del movimento surrealista per trascorrere un periodo di vacanza:Rene Magritte con la moglie, Luis Bunuel, Paul Éluard e sua moglie Gala.
A invitarli lì fu Salvador Dalì che all'epoca era un artista semi-sconosciuto che viveva con il padre e la sorella. A Cadaqués nell'estate del 1929 avvenne così il primo incontro tra Gala e Salvador e forse fu proprio in quel momento che lei scelse l'artista e l'amante che l'avrebbe resa musa immortale.

Ma chi è Gala, la donna che molti definiscono la musa inquietante?
Il suo nome di battesimo è Elena Dmitrievna D’jakonova, figlia di un avvocato, nacque a Kazan' una città sulle rive del Volga nella Russia centrale, il 7 settembre 1894. Questa almeno è la data ufficiale, diversa da quella sui suoi documenti e dichiarata da lei stessa in molte occasioni, questo perché Gala mentì sempre sulla sua età e fece sempre di tutto per sembrare più giovane.
La Gala di allora, quella che crebbe a Mosca, era una ragazza desiderosa di fare la scrittrice e che sognava un futuro pieno di successo e gratificazioni, ma fin da subito conobbe bene i suoi limiti.

Max Ernst, Reindez-vous des amis
Gala si sentì infatti sempre incapace di trovare le parole e i colori per esprimersi, per dare forma alle belle idee che le turbinavano nella mente. E così decise che sarebbe stato un artista a concretizzare per lei il suo sogno di gloria, a mettere in pratica ciò che per lei era chiaro, convinta di quel che voleva fin da giovane e pronta a fare di tutto per ottenerlo.
Il suo destino le apparve ancora più chiaro nel 1917 quando in Svizzera, nel sanatorio in cui andò per curare la tubercolosi, incontrò il giovane poeta Paul Éluard. Paul e Gala si innamorarono subito: lei giovane e determinata, non bellissima, ma carismatica, seppe catturare il giovane poeta. Fu lui a darle quel nome, "Gala", ispirandosi al mito di Galatea e Pigmaglione, lo scultore che si innamorò della propria a cui Afrodite diede vita.


Quella tra Paul e Gala fu una storia molto simile a quella tra Pigmaglione e Galatea, ma al contrario: perché Gala era una donna in carne e ossa, ma sembrava voler a tutti i costi diventare un opera d'arte, come una statua. Fu proprio con Paul Éluard che Gala iniziò a recitare il suo ruolo di musa ispiratrice, con lui si trasferì a Parigi, la città che le avrebbe potuto cambiare la vita. Si sposarono nel 1918 e il poeta la introdusse negli ambienti artistici parigini, dove frequentò personaggi del calibro di Andre Breton, Tristan Tzara, Louis Aragon e Max Ernst. In breve tempo diventò un punto di riferimento per molti di loro, partecipò alle riunioni dei surrealisti e il suo giudizio sulle loro opere venne sempre tenuto in gran considerazione.

L'importanza che questa donna assunse nell'ambiente surrealista è confermata dal dipinto di Max Ernst, Reindez-vous des amis, dove vennero ritratti tutti i componenti del movimento, inclusa Gala, unica donna presente nell'opera. Ma lei non fu soltanto una donna che seppe suscitare grande ammirazione, per la sua intelligenza e per le sue capacità critiche, Gala generò anche grandi conflitti e tensioni, soprattutto per il suo comportamento molto disinibito in campo sessuale. Come accadde quando, subito dopo aver conosciuto Max Ernst, nel 1920, lo sedusse e lo convinse a intrattenere una relazione a tre con lei e il marito Paul. Alcuni componenti del movimento surrealista a quel punto la considerarono solo un'astuta manipolatrice, una donna interessata al denaro e al successo che seduceva gli uomini per controllarli. Ma a lei importò poco questo giudizio perché il suo unico scopo era trasformare la propria vita in un'opera d'arte.

Gala e Salvador Dalì
Nell'ambiente surrealista sembrò quindi aver trovato tutto quello che cercava, legata ad un poeta di successo e considerata da molti un'importante musa ispiratrice. Presto però capì che Paul Eluard non era l'uomo giusto, quello che le avrebbe permesso di diventare immortale e lo capì proprio nell'estate del 1929 quando incontrò Salvador Dalì. All'epoca l'artista era a malapena conosciuto, grazie a un film realizzato insieme a Luis Bunuel, Un chien andalou che aveva suscitato forti reazioni nel pubblico parigino. All'inizio Gala non ne rimase molto colpita, tutt'altro, era quasi infastidita da quello stravagante artista che vestiva come un toreador. Lui però la coprì d'attenzioni, facendo di tutto per farsi notare, perché comprese fin da subito che era lei la sua musa, la donna che lo avrebbe aiutato a diventare un grande artista. Passò poco tempo e anche la donna si rese conto che Dalì era l'uomo giusto per lei: molto fragile e insicuro, ma ricco di talento, cera fusa nelle sue mani di abile plasmatrice.

Così quando il marito tornò a Parigi, lei rimase a Cadaqués con Dalì e per 53 anni non lo lasciò più. Gli anni che seguirono furono avventurosi e intensi, anni nei quali Dalì si affermò in tutto il mondo come il principale esponente del surrealismo, sempre seguito e guidato da Gala.
Lui la adorò in maniera completa, immortalandola in molte sue opere: la ritroveremo spesso, nei panni, di una Madonna, o di un nudo di spalle o ancora su un piedistallo, in pose sensuali, nuda, concretizzandosi come la musa superiore, l'incarnazione della libido del pittore.
Nel 1932 la donna divorziò da Paul Éluard e sposò Dalì: il primo periodo per i due fu molto difficile, spesso a corto di soldi, ma comunque sempre capaci di vivere alla grande. Gala si diede molto da fare, promuovendo il marito, chiedendo anticipi e prestiti ad amici, acquirenti e sostenitori. Arrivarono purtroppo però anche problemi di salute per lei che dovette operarsi due volte per due tumori, uno nei polmoni e uno nell'utero: quest'ultima operazione la segnò in maniera particolare sia dal punto di vista fisico che psicologico.

Gala e Salvador Dalì
Ma nonostante tutto Gala non si fermò mai, lavorò incessantemente per far si che la fama sua e quella di Dalì raggiungesse a Parigi una grande solidità: ormai il surrealismo si divideva in due epoche, il prima e il dopo la venuta di Salvador.
L'artista catalano non comprese mai la forza straordinaria delle sue opere, se non attraverso la moglie la quale gli fece sempre capire che la sua arte sarebbe rimasta nella storia, immortale. Infatti dietro al genio artistico di Dalì, si nascondeva un uomo turbolento, insicuro e disorganizzato, ed era Gala che agiva come il suo agente, il tramite tra il genio ed il mondo reale. E così dal 1934 l'artista iniziò a firmare le opere con il nome di entrambi, conscio dell'importanza del contributo della moglie.

Negli anni '50, dopo tanto tempo, entrambi sembrarono quindi aver realizzato i propri sogni, finalmente: lui pittore di successo, lei musa immortale. Con l'arrivo del successo, cominciarono a condurre una vita intensa, piena di feste e apparizioni in pubblico, ma con esso arrivarono anche i problemi tra i due. Dalì si amava circondare di modelli e modelle bellissimi che usava nelle sue opere e Gala sceglieva tra di loro i suoi amanti, sempre molto più giovani di lei.
Tra i due le cose però cominciarono ad andare male, la musa cominciò a comportarsi come una strega, affamata di soldi e di ragazzi, a cui faceva regali sempre più costosi, e sempre a spese del marito. Nel 1969 Dalì le regalò il castello di Púbol dove lei si trasferì per lunghi periodi, ricevendo i suoi amanti e pure il marito, ma quest'ultimo solo su invito scritto.

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Gala stava diventando un opera d'arte, ma il tempo cominciava ad avere la meglio su di lei, nonostante la sua battaglia costante per mantenerlo sotto controllo, sottoponendosi a continui interventi di chirurgia plastica, che le conferirono con il passare degli anni un aspetto grottesco. Cominciò a soffrire di demenza senile, che la portò più volte a scontri e liti con il marito a cui arrivò a somministrare una dose eccessiva di tranquillanti che gli provocarono un notevole danno fisico al sistema nervoso, tanto che il pittore per molto tempo non poté più usare la mano destra.
Poi il 24 febbraio 1982, Gala cadde, si scheggiò un femore e si lacerò la pelle in più punti: come sia successo non si sa: un incidente? o forse la conseguenza dell'ennesima lite? Una cosa è certa, pochi mesi dopo la musa inquietante morì, era il 10 giugno 1982. Venne sepolta, dopo aver subito un trattamento di imbalsamazione, nel castello di Púbol, nei pressi di Girona, in Catalogna, castello che lo stesso Salvador Dalí aveva comprato per lei.
L'artista le sopravvisse fino al 1989 quando si spense il 23 gennaio 1989, divorato dalla depressione.

Musa, madre, moglie e strega, sono i mille volti di Gala Elouard Dalì, la quale ebbe un’influenza importantissima nella vita e nell’opera del pittore catalano, oltre a essere ispiratrice del Surrealismo, Per Dalí fu soprattutto maestra dell’arte amatoria, fulcro del suo desiderio sessuale, ma allo stesso tempo anche madre e agente artistico spietato.
Gala seppe quindi incarnare molti ruoli, ma principalmente riuscì a realizzare i propri scopi: diventare una grande musa di successo, piena di soldi e soprattutto raggiungere l'immortalità attraverso l'arte.

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Alvise Corner, uomo d'ingegno e amante delle arti

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Tintoretto, ritratto di Alvise Corner
Oggi riprendo la rubrica #uominiedonneillustri e lo faccio parlandovi di un grande mecenate e scrittore italiano, nato nella parrocchia di San Bartolomeo a Venezia da Antonio di Giacomo e Angeliera Angelieri nel 1484: sto parlando di Alvise Corner, italianizzato in Luigi Cornaro
In realtà la data della sua nascita non è così scontata, perché l'illustre Corner aveva un vizio, aggiungersi sempre degli anni. E così lui stesso affermò di avere nel 1540 56 anni, che diventarono 70 nel 1551. L'anno seguente erano 74, nel 1557 80 e nel 1559 85, fino ad arrivare addirittura a 95 nel 1565. Certo non aiutarono i testimoni dell'epoca che, come Antonio Maria Graziani, lasciarono scritto d'aver assistito alla morte di Alvise all'età di 98 anni, un record per l'epoca.

In questo modo gli studiosi hanno avuto un bel grattacapo nel cercare di definire un anno di nascita corretto. Emilio Menegazzo trovò molto improbabile che Corner fosse morto quasi centenario e quindi identificò il 1484 come data definitiva, sulla base di quanto dichiarato dallo stesso Corner in un esposto ufficiale alla Repubblica di Venezia, un contesto che richiedeva serietà.
Per quanto riguarda la sua famiglia, pare discendesse dall'omonima casata patrizia e, precisamente, da un figlio del doge Marco. I suoi discendenti sarebbero tornati da Padova (dopo essere stati esiliati) a Venezia ricchissimi, perdendo però il titolo nobiliare.

Un fatto è certo, la famiglia del Corner non possedeva molto denaro e la maggior parte delle sostanze derivarono dalla dote materna. Uno zio omonimo nel 1490 provò inutilmente di farsi riconoscere patrizio, con una versione del passato familiare diversa, ma più credibile: secondo lo zio, il figlio del doge Marco da cui discendevano si chiamava Enrico o Rigo ed esiliato da Venezia, si stabilì a Padova come Antonio di Rigo dal Legname. E in effetti la famiglia del Corner fu conosciuta anche con il cognome di Righi e lo stesso Alvise venne ricordato, in occasione delle nozze della figlia Chiara, come "ser Jacomo Corner da Padoa diti dirjgi".


Sicuramente i suoi genitori erano tutti e due veneziani, e lo stesso vale per lo zio materno, il sacerdote Alvise Angelieri. E fu proprio dallo lo zio a Padova che nel 1489 il piccolo Alvise venne mandato: probabilmente perché molto benestante, essendo proprietario di due canonicati, case e terre sparse tra Este e Chioggia. E sempre grazie allo zio, che fu sicuramente un uomo di cultura, venne introdotto allo studio delle lettere e della giurisprudenza. Ma nonostante le possibilità privilegiate Corner non terminò gli studi, forse perché già si delineava in lui uno spirito pratico che non si conciliava con studi astratti e distanti dalla realtà.

Alla morte dello zio, avvenuta nel 1511, rimase l'unico erede di tutto il suo patrimonio dato che il fratello Giacomo ricevette i beni materni. Dopo un ultimo tentativo fallito per riconquistare il titolo nobiliare a Venezia, prese la decisione di abbandonare definitivamente la città lagunare per spostarsi a Padova, diventando un intelligente amministratore delle sue numerose proprietà. Queste aumentarono con la dote della moglie Veronica di Giovanni Agugia che sposò nel 1517.
Si dedicò quindi a quello che più gli piaceva: studiare l'agricoltura, l'idraulica e l'architettura, costruendo ville e altri edifici e realizzando molte opere di bonifica nei territori della Serenissima, soprattutto dighe per controllare le acque con lo scopo di aumentare le zone coltivabili.

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E in questo campo progettuale si mise in risalto per un'idea presentata alla Magistratura delle Acque per evitare l'interramento della laguna veneziana. Il suo piano prevedeva anche una deviazione del fiume Brenta e la chiusura della laguna al mare, cosa che avrebbe favorito l'ampliamento di Venezia verso la terraferma. Cristoforo Sabbadino della Magistratura rispose decidendo di usare i fanghi estratti dai canali per ingrandire i confini di Venezia, senza però espandersi verso l'entroterra.
Corner a sua volta propose di realizzare una cinta muraria costruita nell'acqua, con bastioni e un terrapieno tutto intorno creato con i fanghi scavati, sul quale avrebbe dovuto trovar posto un parco. L'idea rivoluzionaria di Corner andò contro la concezione di Venezia città unica al mondo, con al posto delle mura l'acqua e per tetto il cielo, volendo ampliare l'insediamento urbano verso la terraferma.

Nel 1560 presentò un nuovo progetto per Piazza San Marco: questo prevedeva la costruzione su due porzioni di fondale lagunare poco profondo, di fronte alla piazza, di un teatro all'antica, di una collinetta sormontata da una loggia aperta sui lati e di una fontana tra le Colonne di San Marco e San Todaro.
Tutte queste idee avevano un filo conduttore che le legava: Corner infatti volle sempre spronare la Serenissima verso una politica agricolo-imprenditoriale più attenta alla terraferma invece che ai soli aspetti marittimo-commerciali. Questa sua visione utopistica però non venne mai colta, mentre si realizzò l'espansione urbana voluta da Sabbadino.

La Loggia (a sinistra) e l'Odeo (a destra) realizzati da Falconetto per il giardino
di villa Corner a Padova
Ma il nostro uomo illustre non fu solo un grande progettista. Divenne infatti il mecenate di molti artisti del suo tempo: protesse, tra gli altri, il drammaturgo, attore e scrittore Angelo Beolco detto Il Ruzante, sostenne il pittore e architetto Giovanni Maria Falconetto, che presentò al vescovo di Padova, committente in seguito della Villa dei Vescovi. A Falconetto in particolare Alvise Corner commissionò il giardino della sua casa di Padova, comprendente la Loggia e l'Odeo: quest'ultimo, realizzato a partire dal 1524 e ispirato al passato classico, è ritenuto uno dei primi esperimenti di teatro moderno. Dal 1538 inoltre ebbe rapporti con il giovane architetto Andrea Palladio.

Ma non si accontentò e prese anche in mano la penna, diventando l'autore di diversi trattati: dopo un primo sull'architettura e un secondo dedicato alle acque (1566), scrisse l'opera che gli diede maggior successo, Discorso sulla vita sobria. A seguito di un periodo di grossi problemi di salute, dovuti anche agli stravizi di quando era giovane, e riacquistato vigore a quarant'anni, decise in tarda età di scrivere questo trattatello, pubblicato per la prima volta a Padova nel 1558. In esso espresse la propria esperienza, consigliando alcune buone regole da rispettare per giungere alla vecchiaia con ottime facoltà fisiche e mentali, a cominciare da una dieta quotidiana composta di 12 once di cibo e 20 once di vino. E i risultati, a detta di Corner, furono questi:
"sono così agile che posso ancora cavalcare e salire ripide scale e pendii senza fatica. Sono di buon umore e non sono stanco della vita. Mi accompagno ad uomini di ingegno, che eccellono nella conoscenza e nella virtù. Quando non posso godere della loro compagnia, mi do alla lettura di qualche libro ed alla scrittura. Dormo bene ed i miei sogni sono piacevoli e rilassanti. Io credo che la maggior parte degli uomini, se non fossero schiavi dei loro sensi, delle passioni, dell'avarizia e dell'ignoranza, potrebbero godere di una vita lunga e felice, all'insegna della moderazione e della prudenza."
E con molta probabilità disse il vero, dato che all'età di settant'anni si ruppe un braccio e una gamba per colpa di un incidente della carrozza su cui viaggiava, ma si riprese completamente.
E così, l'uomo d'ingegno, il mecenate e l'umanista si spense l'8 maggio 1566, pare quindi all'età di 82 anni.
Di lui ci è giunto un bellissimo ritratto che vedete in cima al post, realizzato da Tintoretto e conservato a Palazzo Pitti. L'artista, invece che soffermarsi sul rango o la vastità degli interessi culturali di Corner, volle ritrarre il suo aspetto più umano, in un opera in cui tutto è teso a far risaltare il volto e le mani. Corner è ritratto seduto, a mezza figura, rivolto verso destra, la mano appoggiata al bracciolo dello scranno mostra un anello con pietra all'anulare, unico segno di nobiltà.
Gli occhi intelligenti e attenti guardano fuori dalla tela, perdendosi in profondi pensieri, il viso mostra tutti i segni dell'età, accentuati sulle guance e sulle tempie, scavate da profonde ombre nere.

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Il pastello

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Oggi vi parlo del pastello, una tecnica di disegno che conobbe grande fortuna nella storia dell'arte, fino ad arrivare ai giorni nostri.
Tecnica grafica e pittorica, eseguita solitamente su carta colorata, mediante l’uso di bastoncini generalmente cilindrici, fabbricati con pigmenti di colore in polvere allo stato puro, impastati con un agglutinante leggero e lasciati asciugare. La maggiore o minore adesione al supporto è favorita dalla quantità di legante utilizzata. Fra i diversi tipi di legante sperimentati dalla pratica artistica nel corso dei secoli, i più usati furono la gomma arabica, decozioni di orzo o di lino, sapone di Marsiglia, colle animali e colla arabica.

A seconda della quantità di legante in essi contenuti, i pastelli possono dividersi in teneri, semiteneri e duri. Particolarmente apprezzati sono i teneri, per la facilità con cui si possono ottenere, in fase di lavorazione, particolari fusioni di colori diversi. Le gradazioni di uno stesso colore (possono essere più di quindici o venti) si ottengono aggiungendo al pigmento di base argilla bianca o nerofumo. Al pastello classico più comune si affiancano quelli a cera e a olio, che hanno però un impiego tecnicamente diverso e sono stati usati prevalentemente nel periodo contemporaneo. 

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Per facilitare l’adesione del colore al supporto, la carta o il cartone generalmente incollati sulla tela, devono presentare una superficie ruvida o porosa, o devono essere precedentemente preparati con collanti ricchi di argilla, vetro in polvere o pietra pomice. A questo scopo, dal Settecento si usò una speciale preparazione a base di scarti della lavorazione di lane e velluti.
Ogni epoca e ogni artista ha segnato una variante a questi procedimenti di base. La pittura a pastello è una tecnica di particolare delicatezza che richiede perizia da parte dell’esecutore, unita a una grande sensibilità, perché gran parte della realizzazione poggia sull’uso dei polpastrelli delle dita che consentono la ricerca di particolari sfumature.

La fortuna che questa tecnica registrò nell’esecuzione di ritratti a partire dal Cinquecento e che toccò il suo vertice nel Settecento, è dovuta al materiale con il quale i colori sono costruiti. Morbidi, opachi e friabili, i pastelli ricreano facilmente la trasparenza e la morbidezza della pelle. Il pastello non copre il disegno sottostante come un qualsiasi colore, ma la sua stesura a corpo dipende dall’abilità del pittore che, soprattutto in passato, poteva fissare sulla carta i principali tratti di un viso con poche tracce di colore.

Hans Holbein il Giovane,
disegno preparatorio per il ritratto di Sir Richard Southwell
Le tonalità di fondo generalmente omogenee venivano stese con colori a tempera; una delle più usate era una gradazione di azzurro più o meno intensa, oppure grigio o giallo ocra. La scelta era relativa al soggetto da dipingere, allo stile o al tratto del pittore. Solitamente l’effetto ricercato era il contrasto: colori chiari su fondo scuro e viceversa.
Argomento ancora oggi piuttosto controverso è quello della conservazione dei pastelli ultimati. Il fissaggio dei colori tramite sostanze protettive è sconsigliato. I fissativi modificano in modo irreversibile le tonalità e le peculiarità del colore. Questo problema fa sì che il sistema più efficace, nel caso si debba esporre il pastello in posa verticale, sia quello di porre il disegno in cornice scostandolo dal vetro perché gli strati superficiali non siano a contatto del supporto. Anche se con il tempo alcune cadute di colore sono inevitabili, obbligando il conservatore a imporre un’esposizione dei pastelli solo per brevi periodi.

Un po' di storia

La prima documentazione sull’uso del pastello in modo continuativo risale al Rinascimento, quando era pratica comune fra gli artisti lumeggiare i disegni, oltre che con la biacca, anche con il gesso. Quest’ultimo, di origine naturale, veniva sgrossato e ridotto in formati maneggevoli. Tale uso di allargò presto anche ad altri materiali, quali la calcite (bianco), il carboncino (nero), l’ematite (matita rossa), l’argilla da mattoni (ocra o grigio). Anche in disegni preparatori per la successiva stesura pittorica possiamo trovare annotazioni sui colori da impegnare in quest’ultima: la tecnica adottata è spesso la matita colorata, simile al pastello, ma la cui origine può esser sia naturale che artificiale.

Leonardo da Vinci, autoritratto 
Strutturalmente più dura a causa della presenza di agglutinanti più forti (come la cera), consente a volte di ottenere effetti più precisi nel dettaglio. Leonardo da Vinci, in una nota del Codice Atlantico, scrisse di aver appreso la tecnica del pastello dal pittore francese Jean Perréal durante la sua permanenza a Milano nel 1499. Michelangelo usava il carboncino nero o la matita, Fra Bartolomeo il gesso bianco, ma può dirsi che per tutto il Cinquecento l’uso del pastello rimase un’attività prevalentemente nordica. Pittori come Hans Holbein o Hendrick Goltzius impiegarono per i loro disegni preparatori tre o quattro tonalità cromatiche di pastello. 

Michelangelo Buonarroti, studi per la testa della Leda
Uno dei campi di applicazione maggiore di questa tecnica, soprattutto in area francese, e ancor più parigina, fu, già alla prima metà del Cinquecento, il ritratto, nella tipologia e nelle pose sviluppatesi nell’ultimo quarto del secolo precedente. Il pittore fiammingo Jean Clouet ne fu insieme il maggiore esponente e l’innovatore: proponendo il ritratto disegnato a pastello su carta come vera e propria opera d’arte finita e dette vita a una moda che perdurò per i secoli successivi, divenendo un genere a sé stante, richiestissimo e apprezzato. Questi disegni potevano impiegare il pastello soltanto con un ruolo di contorno e contrasto, ma nella maggior parte dei casi i toni morbidi e la piacevolezza dei suoi colori, apprezzati dalla clientela sempre più vasta che li richiedeva, spinsero gli artisti francesi a un uso costante del pastello per i ritratti.

Jean Clouet, ritratto di donna
In Italia invece, rimarranno diffuse le tecniche consolidate da una lunga tradizione, come la matita rossa (detta successivamente anche sanguigna), carbone e gesso bianco, lasciando la pittura a pastello ancora alla fase embrionale di semplice comprimarietà. Soltanto tra fine Cinque e primi del Seicento comparvero con una certa frequenza disegni in cui l’uso del pastello divenne predominante per evidenziare e trattare il modellato delle figure: artisti come Barocci, i Carracci e Sebastiano Mazzoni alimentarono e rielaborano, la tradizione nordica che intanto, per la necessità di ampliare la gamma dei colori e di disporre di un materiale meno friabile, mise a punto nel corso del XVII secolo le prime ricette per la fabbricazione dei gessetti colorati.

Il Settecento costituisce il periodo di massima diffusione e sperimentazione tecnica del pastello. Tale tecnica continuerà a esser legata in massima parte al ritratto, confermando come centro di irradiamento Parigi e la Francia in genere, ma anche l’Italia: Rosalba Carriera venne designata come ambasciatrice del ritratto a pastello presso le principali capitali europee dopo averne appreso i segreti dall’inglese Kristin Cole. Nanteuil e Vivien a Parigi saranno i massimi specialisti insieme a Vouet, Le Brun e Mellan, anticipatori a loro volta dei pastelli di M. Q. de la Tour, Perroneau, Labille Guiard. In questo periodo si moltiplicarono le pubblicazioni, spesso compilate dagli stessi pittori, come il Traité des principes et des règles de la peinture di Liotard (1781), contenenti appositi capitoli dedicati al pastello. Proprio la produzione a pastello di Liotard dimostra a quali vertici possa arrivare un artista che sappia sfruttare appieno le potenzialità espressive di questo mezzo apparentemente così modesto; o nelle varie nature morte, dove i timbri metallici di alcuni colori preludono ad esperienze pittoriche che saranno affrontate in epoche successive.

Rosalba Carriera, ritratto di ragazzo
Chardin usò il pastello solo in età avanzata, consegnandoci ritratti e autoritratti di disincantata freschezza, come corollari della sua più celebre produzione di nature morte a olio su tela: un dato indicativo di come la diffusione del pastello avesse raggiunto molti pittori che vi si dedicarono anche solo marginalmente, usando i gessetti per liberare il tratto disegnativo e sperimentare soluzioni più sciolte e libere.
Con la fine del secolo e l’inizio dell’Ottocento il pastello si orienterà maggiormente verso iconografie di genere assumendo caratteristiche sempre più artigianali, come nei ritratti, spesso stereotipati, di donne e bambini. La fioritura di quest’ultimo genere di pittura nel secolo scorso è anche legata all’inizio della produzione industriale dei colori, distribuiti in gamme di tonalità molto vaste.

Simeon Chardin, autoritratto
Il periodo neoimpressionista registrò un nuovo interesse per il pastello. Edgar Degas, che pure lo alternava disinvoltamente con altre tecniche, è giudicato uno dei suoi massimi diffusori. Celebri sono i suoi studi sulla danza e le corse di cavalli, dove risaltano la perizia di esecuzione e la cura nella stesura dei colori. Generalmente l’attività grafica francese dell’Ottocento si situa come continuazione stilistica del Settecento, conservando un bagaglio tecnico tradizionale che pone la Francia in una posizione isolata rispetto ad altri paesi nei quali la diversificazione e l’innovazione delle tecniche consente usi più disinvolti. In Inghilterra, ad esempio, pittori come Turner e Constable assemblarono il pastello con altre tecniche loro più congeniali, come l’acquerello e la tempera.

Edgar Degas, ballerina con mazzo di fiori
Oltre al citato Degas, ricordiamo anche Jules Dupré (1811-89) per l’incontestabile eleganza dei paesaggi, spesso di dichiarata origine inglese; Renoir, Eugène Bodin, Jean Baptiste Caupeaux, Odilon Redon, Manet, Monet, Gauguin, Toulouse-Lautrec furono alcuni fra i molti che si servirono dei pastelli colorati per le loro esecuzioni spesso in modo personalissimo, come di una tecnica minore comunque in grado di esaltare quei principi che sono classici dell’impressionismo e del postimpressionismo. La capacità di rinnovarsi e di far valere quelli che sono i valori di una tendenza è visibile nella produzione italiana dei macchiaioli, dove il colore, molto spesso usato puro, a tratti senza compenetrazione, conferisce alle opere una innegabile lucentezza: è il caso di alcuni dipinti di Fattori, Zandomeneghi e Telemaco Signorini, anche se, inevitabilmente, la pittura a pastello perderà sullo scorcio del secolo la sua impostazione professionale per divenire sempre più annotazione, esperimento e fenomeno saltuario o isolato nel curriculum artistico di un pittore.

Pablo Picasso, disegno preparatorio per le Demoiselle d'Avignon
Dagli artisti del Novecento il pastello venne impiegato come mezzo espressivo, carico di forza e di incisività. Allontanati i canoni formali tipici delle epoche precedenti, le scelte si articolarono su immagini immediate che riacquistarono il valore e la freschezza di parte dei disegni rinascimentali; i materiali si fondono e spesso danno luogo ai risultati più interessanti. Il pastello abbandonò il ruolo primario divenendo tecnica di ricalco e mezzo di lucente linearità: così gli studi di Pablo Picasso per il quadro Les demoiselles d’Avignon o per il Ritratto di Olga, eseguiti a matita e pastello, suggeriscono nei toni rarefatti e nei colpi veloci l’annotazione di colore utile ma non condizionante per i passaggi successivi. A questo autore si deve anche il largo impiego di pastelli a olio e a cera, più grassi e corposi, che vengono anche usati per soluzioni litografiche.


Nel disegno di G. Rouault La cavallerizza, o nella composizione Donna di W. D. Kooning, come nei lavori di G. Sutherland, il pastello diviene quasi traccia primaria per elaborazioni successive a tempera dove la materia difficilmente fissabile si mischia al colore liquido creando effetti materici e trasparendo solo a chiazze. Per i formati più grandi, come quelli di F. Kupka, un tratto più incisivo e formale dà luogo a improvvise masse di luce. Il pastello divenne così uno strumento usato come materia espressiva candida nei suoi valori di luminosità e fu impiegato da numerosi pittori moderni e contemporanei quali, fra gli altri, Wilfredo Lam, Arshile Gorky, Sebastian Matta, Hans Bellmer, Henri Matisse e Mario Sironi.

Oggi il pastello non solo continua ad essere usato dagli artisti, ma è una tecnica molto adatta, nelle scuole d'arte, per avvicinare gli studenti all'attività pratica del disegno. Nella didattica e negli ambienti accademici il pastello non ha mai perso i suoi valori peculiari e formali. Molti pittori di tendenza figurativa tradizionale continuano l’uso del pastello utilizzando tecniche di lavoro tipiche delle epoche passate.

Questo post si avvale di contributi bibliografici vari che potete consultare qui


Il Vedutismo

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Canaletto, riva degli Schiavoni, veduta verso est
Parlando del paesaggio, nella carrellata che vi proposi un po' di mesi fa (e che vi consiglio di ripescare negli archivi QUI), accennai a una pratica specifica, realizzata dai pittori, chiamata vedutismo.
A partire dalla fine del Settecento il termine "veduta", si sostituì a quello di "prospettiva" per definire un genere pittorico consistente nella raffigurazione topografica realistica, secondo rigorosi principi prospettici. La parola derivava dalla terminologia della prospettiva e dell’ottica, in cui veduta equivale a "punto dove batte la vista" e quindi indica quanto è compreso nel campo della piramide visiva. Il termine "prospettiva" nel Seicento gradualmente coincise con quello di veduta e assunse il significato più specifico di "visione della realtà topografica organizzata secondo regole determinate".

Benché la veduta, come genere autonomo, si definisca solo negli ultimi decenni del Seicento, essa trovò però i suoi precedenti in episodi legati alla pittura di paesaggio nella prima metà del secolo, e addirittura nel Cinquecento. Delle anticipazioni di questo genere le troviamo nei disegni eseguiti a Roma nel quarto decennio del Cinquecento dall'olandese Martin van Heemskerck e, nella seconda metà del secolo, da altri artisti nordici di passaggio nella città eterna. Queste raffigurazioni dei luoghi più significativi della scena romana si caratterizzano per un preciso intento documentario e descrittivo che è all'origine della moderna veduta. Sono però immagini quasi sempre riprese da punti di vista rialzati e senza alcun rispetto dei rapporti metrici e proporzionali: per queste caratteristiche si legano piuttosto alla tradizione della cartografia.

Martin van Heemskerck, la basilica di San Pietro in costruzione
Le stesse convenzioni le ritroviamo nell'ultimo decennio del Cinquecento, nelle vedute topografiche dipinte a fresco nel salone della Biblioteca Vaticana e nella Sala del Concistoro del Palazzo Lateranense, dedicate invece alla topografia della Roma moderna e, più specificamente, delle trasformazioni urbanistiche intraprese da Sisto V e da Domenico Fontana. Queste vedute, di carattere descrittivo, hanno le loro radici nella consuetudine di raffigurare ville e possedimenti feudali: si ritrova ad esempio, alla fine del secolo, nei dipinti di Paul Brill raffiguranti i feudi di casa Mattei. Benché aggiornata su esempi più moderni la produzione di Brill in cui ritroviamo spesso la raffigurazione di rovine e monumenti romani, resta sostanzialmente legata alle convenzioni visive proprie della tradizione nordica.

Se l’impaginazione del paesaggio adottata da Brill trova poi uno sviluppo nella veduta a soggetto italianizzante di Willem van Nieulandt e in quella più tarda di Pieter van Bredael, nella pittura di paesaggio fiorita a Roma tra terzo e quarto decennio del Seicento si ritrovarono gli intenti realistici e le inclinazioni all'origine di questo genere. In particolare Bartholomaeus Breenbergh e Cornelis Poelenburgh, attivi a Roma negli anni Venti, produssero principalmente paesaggi con rovine antiche. Alle intenzioni puramente descrittive che avevano animato gli artisti nordici del Cinquecento si sostituì una visione inedita e in qualche modo romantica della città e della campagna romana, di cui viene sottolineata la continuità, ma insieme il contrasto, tra le vestigia dello splendido passato e gli aspetti più umili della città moderna.

Hermann Swanevelt, Veduta di Campo Vaccino, 1631
Questo atteggiamento mentale sopravvisse rinnovandosi in alcuni aspetti della veduta settecentesca, in particolare nell'opera del Pannini.
L’intento realistico trovò spazio però soprattutto nella produzione grafica di Breenbergh e, con soggetti più legati al problema delle origini della veduta, nei disegni eseguiti a Roma da Andries e Jan Both verso la fine degli anni Trenta e in quelli poco più tardi di Thomas Wijck, questi ultimi dedicati agli aspetti più dimessi e insieme pittoreschi di una Roma "minore".
È comunque nell’ambito dei paesisti nordici attivi a Roma nella prima metà del Seicento che ritroviamo una delle più antiche vedute prospettiche della città, vale a dire la Veduta di Campo Vaccino dipinta da Hermann Swanevelt nel 1631, su cui si appoggia l’analoga veduta di Claude Lorrain, eseguita nel 1636.

È ancora in un episodio minore della pittura romana degli anni Trenta che manifestò, con caratteri più specifici e sistematici, un diretto antecedente della veduta. In particolare nella produzione di Willem Baur sicuramente attivo a Roma durante il quarto decennio del Seicento e interessato alla raffigurazione degli aspetti più tipici della Roma antica e moderna. Le sue vedute, realizzate solitamente a tempera e in piccole dimensioni, destinate con ogni probabilità a viaggiatori di passaggio a Roma, si distinguono per la scrupolosa esattezza di dettaglio e per essere riprese da un punto di vista leggermente più alto del piano di terra. Tali caratteristiche aprono senza dubbio la strada alla veduta intesa come genere autonomo.

Viviano Codazzi, veduta architettonica, 1627
Con Viviano Codazzi, attivo a Napoli dal 1633 al 1647 e successivamente a Roma, si verificò la saldatura tra due tradizioni pittoriche che, fino a quel momento, avevano trovato espressioni in generi diversi. Nella sua produzione gli intenti realistici che, con maggiore o minore coerenza, si erano espressi episodicamente nella pittura di paesaggio secondo le tendenze già indicate, si saldarono alla specialità di quadraturista, cioè di esperto delle leggi della prospettiva lineare e dell’ottica. Tale specialità aveva fino a quel momento trovato applicazione soprattutto nel campo della decorazione parietale, con intenti illusionistici che, nella seconda metà del secolo, daranno origine alla scenografia. Poteva dunque più facilmente prestarsi a intenzioni fantastiche più che realistiche. Sebbene occasionalmente utilizzata anche dal Codazzi con fini specificamente decorativi e illusionistici, la scienza prospettica fu invece da lui piegata alla raffigurazione "secondo verità" di luoghi realmente esistenti inquadrati secondo una visione "grandangolare" da un punto di vista coincidente con il piano di terra della veduta stessa.

Si possono ricordare come esemplari di quest’atteggiamento nei confronti della realtà urbana, riprodotta senza il filtro, la Veduta di Palazzo Gravina a Napoli e quella della Torre di San Vincenzo a Napoli, in cui l’intima verità dei luoghi è restituita grazie a una nuova attenzione per i valori luminosi e chiaroscurali. Anche le vedute eseguite a Roma dal Codazzi e aventi come oggetto i monumenti antichi cui si erano a lungo ispirati gli artisti oltremontani si caratterizzano per la novità dell’inquadratura e la tendenza a documentare aspetti inediti della scena romana esattamente inseriti nel loro contesto topografico.

Gennaro Greco, capriccio architettonico.
Se il realismo di questo pittore può dirsi in qualche modo alla radice della veduta settecentesca del Canaletto e del Bellotto, occorre invece sottolineare come nella seconda metà del secolo, col prevalere di intenti accademici e decorativi, furono soprattutto le sue vedute ideate e i capricci architettonici con rovine a influenzare la produzione di prospettici e rovinisti, quali Giovanni Ghisolfi e, più tardi, il Pannini e, a Napoli, Leonardo Coccorante e Gennaro Greco.
È infatti il capriccio, cioè quel genere di raffigurazione topografica che riproduce luoghi e monumenti reali accostati fuori da ogni verosimiglianza di contesto, e ad essi accompagna architetture d’invenzione, conobbe notevole fortuna sia in Italia, che in Olanda, grazie ai paesisti italianizzanti. Tra questi Johannes Lingelbach, attivo ad Amsterdam dopo il 1650, Anton Goubau, operoso ad Anversa fino alla fine del secolo, e Pieter van Bredael, attivo nella stessa città ancora all'inizio del Settecento.

La loro produzione era senza dubbio indirizzata a un gruppo di amatori nordici che inseguiva un’idea generale dell’Italia e in particolare di Roma nei suoi aspetti antichi e moderni, senza alcuna preoccupazione di esattezza o verosimiglianza. Si moltiplicarono così, ad opera di artisti che avevano visitato brevemente l’Italia ma che si appoggiavano più probabilmente a incisioni, ampie vedute di soggetto genericamente italianizzante, quasi sempre animate da episodi che fanno riferimento al repertorio della bambocciata.

Gaspar van Wittel, veduta di Piazza del Popolo Roma, 1678
Del tutto isolata rispetto alle tendenze che in quel momento prevalevano nell’ambiente romano fu la posizione di Gaspar van Wittel (1652-1736), a Roma dal 1674, cui si deve l’invenzione della veduta moderna che praticò con impegno esclusivo e altissimi esiti formali. Le radici culturali dell’artista possono in parte riconoscersi nella tradizione vedutistica olandese, distinta dalla corrente italianizzante; non fu priva di importanza la sua collaborazione, nei primi anni del soggiorno romano, con l’ingegnere idraulico Cornelis Meyer, per il quale eseguì una serie di disegni di carattere tecnico e topografico destinati a illustrare il suo trattato sulla navigabilità del Tevere. Alla stessa collaborazione si devono le incisioni raffiguranti piazza del Popolo, piazza San Pietro e piazza San Giovanni in Laterano, pubblicate da Meyer nel 1683 e riutilizzate da van Wittel in dipinti dei primi anni Ottanta.

Tra il 1680 e il 1685 l’artista elaborò i principi di visione utilizzati nelle sue vedute e stabilì, attraverso disegni, i soggetti, i motivi e i punti di vista delle sue vedute romane. Ricordato dal Lanzi come il "pittore della Roma moderna", van Wittel respinse infatti l’interesse esclusivo per l’antico e il pittoresco che aveva distinto gli italianizzanti e l’immagine ideale ed evocativa della città che essi avevano perseguito, ricercandone invece gli aspetti più attuali. Benché egli replicasse senza sostanziali modifiche le vedute di uno stesso luogo, lo scrupolo realistico lo portava ad aggiornarle raffigurando gli edifici di nuova costruzione e dunque con la registrazione di tutti i mutamenti della città. Accanto alle vedute di soggetto romano, tra cui spicca per assoluta novità di ispirazione la serie dedicata al Tevere e alle sue rive, van Wittel non mancò di eseguirne altre raffiguranti le ville di Frascati, e paesi laziali quali Tivoli, Ronciglione e Caprarola.

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Disegni e vedute datate documentano i viaggi dell’artista a Venezia, Bologna e Firenze; prima del 1702 fu invitato a Napoli dal viceré spagnolo che si proponeva di documentare le proprie iniziative urbanistiche attraverso le vedute vanvitelliane. I dipinti di soggetto napoletano del van Wittel, tra cui la Veduta del Largo di Palazzo e quelle raffiguranti laDarsena delle galere, replicate anche in anni successivi, aprirono la strada al vedutismo napoletano che si sviluppò però solo nella seconda metà del Settecento e attraverso il filtro della scuola vedutistica veneziana. Tra i pittori di vedute attivi a Napoli si ricorda innanzi tutto il modenese Antonio Joli, formatosi a Roma e poi a Venezia nell’ambiente canalettiano, attivo a Napoli anche come scenografo a partire dal 1662, dopo un primo soggiorno nel 1659 a cui risalgono le sue Vedute di Paestum.

Lavorarono a Napoli anche i minori Gabriele Ricciardelli (attivo fra il 1740 e il 1780) e Pietro Fabris (documentato dal 1756 al 1792) e, con interessi più paesistici, Carlo Bonavia, documentato con opere datate dal 1755 al 1788. Di particolare rilevanza per lo sviluppo del vedutismo napoletano, stimolato nella seconda metà del secolo anche dalla recente scoperta dei templi di Paestum, l’ambiente illuminista e cosmopolita riunitosi intorno all’ambasciatore inglese Sir William Hamilton, e le sue iniziative tra cui la pubblicazione, nel 1776 e nel 1779, dei Campi Phlegraei, illustrato da incisioni acquerellate tratte da tempere di Pietro Fabris. Alla sua cerchia appartennero anche il minore Cristoforo Kniep (1755-1825) e Philipp Hackert; nella sua attività di pittore di corte a Napoli quest’ultimo eseguì tra il 1789 e il 1793 una serie di vedute dei porti del Regno di Napoli.

Antonio Joli, la processione reale alla Chiesa di Santa Maria di Piedigrotta, 1770
A Roma la veduta vanvitelliana trovò immediata continuazione nell’opera di Hendrik Frans van Lint (1684-1763), soprannominato "Studio" per il carattere minuziosamente descrittivo che distingue le sue vedute da quelle del maestro; modelli vanvitelliani sono ancora all'origine delle vedute realistiche giovanili di Giovanni Paolo Panini. Benché Firenze non possa vantare una propria scuola vedutistica, le sue piazze e le principali ville gentilizie dei dintorni furono oggetto delle incisioni pubblicate nel 1744 da disegni di Giuseppe Zocchi, che ne riutilizzò alcuni anche per vedute dipinte a olio.

Il vedutismo settecentesco si identificò però soprattutto con la scuola veneziana e con l’opera del Canaletto che ne diede la più geniale e moderna interpretazione; e ancora con il più giovane Luca Carlevarijs, con Michele Marieschi (1710-44) e Bernardo Bellotto, quest’ultimo attivo principalmente a Dresda e a Varsavia. Le vicende della loro committenza danno la misura della dimensione europea raggiunta dalla scuola vedutistica veneziana e rendono ragione della straordinaria novità delle vedute di soggetto inglese del Canaletto e ancor più di quelle di Dresda e di Pirna del Bellotto che, tese a documentare l’espansione di città moderne, si liberano delle convenzioni classiciste che, almeno dal punto di vista tematico, condizionavano la veduta di soggetto italiano e, più specificamente, romano.

Francesco Guardi, gondole sulla laguna
La fortuna del vedutismo, che a Venezia proseguì per tutto il XVIII secolo con gli allievi dei maestri citati, e a Napoli continuò nel primo Ottocento con una vasta produzione, quasi sempre anonima, di gouaches, fu comunque legata alla committenza straniera e, più precisamente, alla voga settecentesca del grand tour, o viaggio d’istruzione nelle principali città europee. È dunque principalmente, e ancora una volta, l’intento documentario a legare in un unico genere, al di là delle differenze qualitative, la produzione dei maestri citati e quella più scadente dei loro successori. Alla veduta va il merito di aver documentato con una sorta di istantanee, città e paesaggi, restituendoci testimonianze uniche. Si può dire che anticipò per molti aspetti la cartolina illustrata.
Ma questa è un'altra storia!

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