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Il ritratto a miniatura

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Oggi riprendo la rubrica #decorestauro parlandovi di una particolare tecnica pittorica, di moda tra XVI e XIX secolo. In questo arco di tempo vennero prodotti piccoli medaglioni con ritratti realizzati generalmente a guazzo su pergamena e avorio o a smalto su metallo. Piccole opere che venivano usate per decorare una scatola o un gioiello oppure erano incorniciate come opere indipendenti. Questi ritratti erano commissionati principalmente per uso privato, come ricordo affettivo o familiare. Erano conservati negli ambienti più intimi delle abitazioni oppure indossati, come ciondoli o spille.
Ma andiamo a vedere nel dettaglio un po' di storia e chi praticò questa tecnica pittorica che richiedeva abilità e pazienza certosina.


L’origine del ritratto a miniatura sembra risalire all’Inghilterra. Lucas Horenbout, pittore di corte di Enrico VIII, e sua figlia Susanna eseguirono ritratti di questo tipo. Hans Holbein fece, durante i suoi due soggiorni inglesi, piccoli ritratti che a corte piacquero tantissimo.
Nicholas Hilliard e il suo allievo Isaac Oliver furono, alla fine del secolo e nei primi anni di quello seguente, i più brillanti e raffinati fra i numerosi ritrattisti attivi alla corte di Elisabetta I.

Jean Petitot, regina Henrietta Maria di Francia
Nel XVII secolo, merita menzione il nome di John Hoskins, poi quello del suo allievo Samuel Cooper, la cui notevole arte, piena di vigore e di finezza psicologica, venne ispirata da Van Dyck. I primi ritratti francesi in miniatura sono generalmente attribuiti a Jean Clouet e al figlio François. La tecnica della miniatura su smalto, perfezionata presso i Toutin toccò il culmine nel Seicento con le opere di Jean Petitot, Genève, Louis du Guernier, Louis de Châtillon e con quelle di Jean-Philippe Ferrand, autore anche di un trattato tecnico, l’Art du feu ou de peindre en émail (1721).

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In altro campo, Nicolas Robert, e poi Jean Joubert, si fecero un nome nell’esecuzione di tavole di scienze naturali. Numerosi i pittori su smalto di origine svizzera: oltre a Jean I Petitot, che fu il maggiore e che lavorò per Carlo I in Inghilterra, poi per la corte francese, tornando in Svizzera dopo la revoca dell’editto di Nantes, citiamo Jean II Petitot, Paul Prieur, attivo a Copenhagen, e i fratelli Huaud, attivi a Berlino. Nei Paesi Bassi, furono frequenti nel Cinquecento, oltre quelle consacrate al ritratto, le miniature che rappresentavano scene religiose e mitologiche oppure paesaggi. Tale tradizione proseguirà durante il XVII secolo. Occorre menzionare il centro di produzione di miniature costituito a Strasburgo nel XVII secolo e quello svedese.


Il soggiorno parigino di Rosalba Carriera, celebre tanto per le sue miniature su avorio che per i suoi pastelli, sta all’origine della nuova moda del ritratto in miniatura in Francia. Lo stabilirsi a Parigi nel 1769 dello svedese Pierre-Adolphe Hall, che inaugurò una tecnica più libera, confermò questa moda. I temi si diversificano: accanto ai ritratti fecero la loro comparsa le scene galanti (Baudoin, Lavreince), i paesaggi (Louis Moreau, L. N. Blarenberghe), i fiori (Anne Vallayer-Coster).

Pierre Adolphe Hall, ritratto di gentiluomo
Tra i ritrattisti attivi durante il regno di Luigi XVI, fino alla monarchia di Luglio, vanno citati F. Dumont, J.-B. Isabey, che conobbe una celebrità senza pari. La miniatura aveva grandissimo successo, nello stesso periodo, in Inghilterra (R. Cosway, J. Smart), in Germania (H. F. Füger, stabilitosi a Vienna), in Svizzera (J. E. Liotard) e in tutta l’Europa orientale e settentrionale.
Verso la metà dell’Ottocento però fu inevitabile il declino di questa pratica artistica: con l'invenzione della fotografia e il diffondersi del ritratto fotografico, l’arte del ritratto miniato scomparve nel giro di pochi decenni.

Questo post si avvale di contributi bibliografici vari che potete consultare qui

Elizabeth Siddal

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Vi parlai già in passato di una musa legata al movimento preraffaellita, Jane Burden, ma non fu l'unica stella ispiratrice del gruppo di artisti raccolti intorno a Dante Gabriel Rossetti.
Anche Elizabeth Siddal fece la sua parte, da modella, da poetessa e da pittrice.
Elizabeth nacque il 25 luglio 1829 in una famiglia del ceto medio e fu la terza di ben otto figli. I suoi genitori possedevano un negozio nel centro di Londra, dove il padre, Charles Crooke Siddall, produceva coltelli. Elizabeth, o meglio Lizzie (come veniva chiamata), insieme alle tre sorelle più piccole, si diede da fare molto presto, cominciando a lavorare come modista in una bottega di Cranbourne Alley.

A questo punto le fonti ci danno due possibili versioni: la prima ci racconta di un grande cambiamento che avvenne quando Lizzie, al lavoro nella bottega di Cranbourne Alley, fu notata dal giovane pittore Walter Howell Deverell che, rapito dalla sua bellezza, la scelse come modella nel ruolo di Viola nel dipinto La dodicesima notte. La seconda versione dei fatti invece, più credibile, ci narra una Lizzie sarta per la famiglia Deverell e solo in un secondo momento venne presentata dal padre al figlio pittore, forse dopo aver visto dei disegni della giovane donna.

John Everett Millais, Ofelia, 1851-1852
Al di là di tutte le ipotesi, un fatto è noto: Elizabeth divenne molto presto la modella favorita da tutti gli artisti della confraternita preraffaellita. E così la possiamo ritrovare nei dipinti di William Hunt o in quelli di Rossetti, o ancora nelle opere di John Everett Millais che la ritrasse come Ofelia.
E in particolare proprio a questo dipinto è legato un evento drammatico: il pittore per dare credibilità all'opera, chiese alla giovane musa di posare vestita all'interno di una vasca da bagno scaldata con delle candele. Proprio in una di queste sedute, le candele si spensero e il pittore, intento nel suo lavoro, non se ne accorse ed Elizabeth per il freddo perse i sensi. In fin di vita venne riportata a casa del padre che fuori di sé chiese al pittore un risarcimento di 50 sterline. Cifra vana, perché la salute della giovane donna era già irrimediabilmente compromessa.

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E risale proprio all'anno di questi eventi e cioè il 1852, un incontro travolgente per Lizzie: Dante Gabriel Rossetti. L'artista da quel momento divenne suo amante e maestro, servendosi della giovane anche come modella unica e insuperabile, almeno agli inizi. Elizabeth dal canto suo imparò dall'artista le basi della pittura, arrivando però a superare il maestro nella composizione, nell'originalità ed espressività dei suoi lavori. E a raccontarci tutto ciò è l'autorevole critico e sostenitore dei preraffaelliti, Ruskin che divenne anche il mecenate della giovane musa, comprando molti dei suoi lavori. Ruskin aiutò economicamente la coppia, prestando a Rossetti il denaro per poter curare Lizzie dal suo "esaurimento cerebrale per troppa intensa ed improvvisa fatica", conducendola a Parigi e a Nizza.

L'artista Elizabeth espose per la prima volta, dei disegni e un autoritratto a olio, nel 1857, al salone preraffaellita. Ma a questo punto qualcosa tra lei e Rossetti si incrinò: Lizzie dovette andare spesso fuori Londra per continuare a curarsi e l'artista colse l'occasione per avvalersi di nuove modelle con le quali intrecciò delle relazioni. Per la musa dei preraffaelliti furono momenti duri, poiché si rese conto dei continui tradimenti del suo amante e in più nel 1859 venne a mancare un punto di riferimento importante: suo padre. Cominciò così a fare uso del laudano, un sedativo ricavato dall'oppio, finendo in overdose per la prima volta nel 1860.

Walter Howell Deverell, la dodicesima notte, 1850
Dopo questo tragico evento, Rossetti prese una decisione che lo portò a scontrarsi con tutta la famiglia della Siddal a cui l'artista proprio non piaceva: dopo dieci anni dal loro primo incontro decise di sposare la sua musa, ormai debole, sia nel corpo che nella mente. Convolarono a nozze nel maggio del 1860 e già un anno dopo Lizzie rimase in cinta, ma la figlia nacque, dopo un parto prematuro, morta. A questo dolore si aggiunse altro dolore: Jane Burden-Morris, moglie di William Morris nonché amante e modella di Rossetti, sia prima che dopo il suo matrimonio con Elizabeth, diede alla luce una bella bambina.
A questo punto Lizzie non ce la fece più e nella notte dell'11 febbraio 1862, a soli 32 anni, scrisse un biglietto d'addio e si tolse la vita, bevendo una dose fatale di laudano.

Fu il marito a ritrovare il corpo, accasciato nella loro casa. In preda al panico chiamò l'amico pittore Madox Brown che, per paura dello scandalo di un suicidio e della negata sepoltura cristiana conseguente, distrusse il biglietto di Lizzie. Rossetti volle seppellire, insieme al corpo della sua amata musa, l'unica copia della raccolta di poesie scritte dalla giovane donna. Soffocato dai debiti e dalla povertà, sette anni dopo, il pittore andrà a recuperarle, nel tentativo di racimolare un po' di soldi con la loro pubblicazione. A questo evento è legato un macabro racconto: Rossetti e il suo agente letterario si recarono nel cimitero di Highgate una notte del 1869 con il compito di recuperare il manoscritto. Le persone che parteciparono all'apertura della tomba dissero che il volto e il viso di Elizabeth erano intatti, e che i suoi rossi capelli erano cresciuti tanto da riempire tutta la bara.


L'epilogo drammatico di questa storia non tardò ad arrivare: nel 1872 nel tentativo di raggiungere Lizzie, Dante Gabriel Rossetti assunse un'elevata dose di laudano, ma venne salvato da alcuni amici. La morte giungerà dieci anni dopo, all'età di 53 anni, una fine che colse il pittore in totale solitudine, povertà e follia. Fino alla fine continuò a dipingere la bellezza pura ed eterea nella moglie morta, i suoi capelli rossi e lunghissimi e i suoi lineamenti che tanto aveva amato e tanto aveva tradito.
Il fratello di Dante, William Michael Rossetti, tempo dopo, rese il giusto tributo alla donna che ispirò non solo un artista, ma un intero movimento, pubblicando un saggio su Elizabeth Siddal, e poi, nel 1906, le sue poesie.

Dante Garbiel Rossetti, Beata Beatrix
Di questa fragile donna, forse martoriata dalla tubercolosi o da disordini alimentari o da disturbi psichici o  semplicemente vittima di un uso esagerato di laudano, ci rimane l'arte, quella che seppe ispirare e quella che lei stessa produsse. Tra le sue creazioni vi sono quindici, toccanti e intime poesie che potete leggere in Il vero amore non ci è concesso, curato da Conny Stockhausen, e distribuito da Panda edizioni.
Si tratta di poesie funeree e ballate tristissime, dove l’amore e la morte vanno a braccetto, perché in fondo per Lizzie l'amore segnò la strada verso la sua triste morte.

Questo post si avvale di contributi bibliografici vari che potete consultare qui

Hans Holbein il Giovane, il maestro del reale

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Hans Holbein il Giovane, ritratto di Enrico VIII, 1540
Questa è la storia di HansHolbein il Giovane, figlio di Hans il Vecchio, membro più importante della famiglia Holbein che gran ruolo ebbe nella storia dell'arte.
L'artista nacque tra il 1497 e il 1498 ad Augusta, città della Germania, situata nella parte sud-occidentale della Baviera e importantissimo centro economico e commerciale tra il XV e il XVI secolo. La prima formazione gli fu data dal padre, e forse da Hans Burgkmair, pittore tedesco, col quale sarebbe entrato molto presto in contatto. Raggiunse Basilea, importantissimo centro culturale-umanistico, nel 1515 in compagnia del fratello Ambrosius.

La precocità del talento del giovane Hans ne favorì l’indipendenza e lo introdusse nelle cerchie umanistiche della città.
Nel 1516 illustrò un esemplare dell’Elogio della pazzia di Erasmo, di cui diverrà intimo amico. Nei disegni realizzati da Hans, vi si trova già l’espressione di uno spirito più libero, distaccato e ironico. Nel 1516 entrò in rapporto con l’alta borghesia mercantile di Basilea, di cui eseguì molti ritratti. Nel 1517 partecipò col padre alla decorazione della facciata di casa Hertenstein a Lucerna: la facciata, distrutta nel 1824, era concepita nello stile del Rinascimento italiano, elemento che confermerebbe la tesi di un viaggio di Hans il Giovane in Italia.

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Membro nel 1519 della ghilda Zum Himmel di Basilea, continuò verosimilmente la bottega del fratello, morto nello stesso anni, e sposò Elsbeth Schmidt. Cominciò allora un periodo d’intensa produzione fino alla sua partenza per l’Inghilterra nel 1526: in questo periodo si collocano praticamente tutte le opere religiose giunte fino a noi, nonché un consistente numero di decorazioni murali, purtroppo tutte perdute, ma che, per la loro dimensione, testimoniano della fama di cui godette il giovane Holbein.
La sua arte si articolò tra il potente espressionismo tedesco, ereditato dal tardogotico attraverso Grünewald, il cui influsso è notevole nello straordinario Cristo morto, e l’"obiettività" degli artisti del Rinascimento italiano, col suo miscuglio di sacro e profano. In particolare l’influsso di Leonardoè avvertibile in molte opere di Holbein: è infatti probabile che Hans effettuò tra il 1523 e il 1526 un viaggio in Francia, dove poté vedere opere tarde del maestro fiorentino.
Durante questi anni incise la sua celebre Danza macabra, la cui prima edizione, comportante 41 incisioni, venne stampata a Lione nel 1538 dai fratelli Trechstel.

Hans Holbein il Giovane, Cristo morto, 1521
Nel 1526, probabilmente su consiglio di Erasmo, che lo raccomandò a Tommaso Moro, umanista, scrittore e politico inglese, Hans fuggì la Riforma e la sua iconoclastia, esiliandosi per due anni a Londra, dove la sua fama di ritrattista crebbe rapidamente.
Tornato a Basilea, la sua attività si limitò al ritratto e alla decorazione di facciate, avendo un decreto del consiglio della città, vietato nel 1529 ogni pittura religiosa. Hans dovette quindi tornare in Inghilterra nel 1532. Nell’intervallo intraprese probabilmente un viaggio in Italia settentrionale ed eseguì la decorazione della casa Zum Kaiserstuhl, di cui ci restano solo i disegni preparatori, nonché un importante dipinto, la Famiglia dell’artista. In quest’opera, in cui il realismo si tinge di calore umano e che mostra fino a qual punto sia stato assimilato l’esempio fiammingo, l’emozione intima si sublima in qualche modo nel classicismo tranquillo della composizione, e il soggetto domestico acquista la potenza di un simbolo.

Hans Holbein il Giovane, la famiglia dell'artista, 1528
Quando tornò a Londra nel 1532, Tommaso Moro aveva ormai perduto il favore del re: il rifiuto di Moro ad accettare l'Atto di Supremazia del re sulla Chiesa in Inghilterra e di disconoscere il primato del Papa, misero fine alla sua carriera politica e lo condussero alla pena capitale, con l'accusa di tradimento. Così Hans trovò protettori presso i rappresentanti londinesi della lega anseatica, per i quali realizzò un considerevole numero di ritratti. Per questi uomini le opere religiose non avevano molto interesse, perché preferivano farsi rappresentare con i simboli del loro potere economico, commerciale e culturale.
I suoi nuovi protettori gli commissionarono anche opere decorative, come un Arco di trionfo in occasione dell’incoronazione di Anna Bolena, seconda moglie di Enrico VIII o il Trionfo della Ricchezza e il Trionfo della Povertà.

Hans Holbein il Giovane, ritratto di Thomas Cromwell, 1533
Sin dal 1533 una parte importante della sua attività venne riservata agli incarichi di Enrico VIII, al
servizio del quale entrò nel 1536, verosimilmente per intervento di Thomas Cromwell, politico, primo ministro del sovrano dal 1532 al 1540, di cui eseguì anche un ritratto. La sua attività sarà da allora molto disparata, poiché oltre ad opere decorative e a una dozzina di miniature, Holbein realizzò numerosi studi per pezzi di gioielleria e una serie importantissima di ritratti, tra i quali Robert Cheseman, gli Ambasciatori, Cristina di Danimarca, che doveva essere la quarta moglie di Enrico VIII, e Anne de Clèves che invece lo diventò, accrescendo il numero delle mogli del sovrano, destinato ancora a salire.
Riuscì così ad entrare nelle grazie del re Enrico VIII diventandone il ritrattista ufficiale: di lui il sovrano si servì anche per avere le immagini dipinte delle sue numerose mogli, prima di sposarle, avendo così una sorta di istantanea che lo avrebbe guidato nella scelta. Hans divenne così importante per il re da questo punto di vista che fu mandato diverse volte in missione per ritratte le future spose. Ma Holbein divenne molto di più si farà artefice dell'immagine, dell'archetipo di potere di Enrico VIII, creando un'icona che in seguito influenzò molto i ritratti di sovrani.

Hans Holbein il Giovane, ritratto di Anne de Clèves, 1539
Molte opere ci sono note solo in base ai disegni preparatori che si trovano nelle collezioni reali del castello di Windsor. I dipinti furono sempre condotti con incomparabile maestria e, se la composizione dei ritratti a mezzo busto s’ispira a prototipi come la Gioconda, nella ricchezza e nella solennità ieratica dei ritratti in piedi, a grandezza naturale, si può nondimeno scorgere una parentela con Gossaert o Metsys, cioè con la cultura del manierismo, conosciuta forse anche tramite i pittori italiani al servizio di Enrico VIII. Inoltre, Hans conosceva certamente le opere della scuola di Fontainebleau e i disegni di Clouet.

Hans Holbein il Giovane, disegni per un pendant, 1533-36
Nel 1538, inviato in missione in Borgogna, fece una deviazione verso Lione e Basilea, dove il consiglio della città gli offrì vantaggiosissime condizioni di lavoro, ma egli non accettò. Ultima sua
opera nota (1543) è il disegno di un pendolo destinato a Enrico VIII.
A causa della perdita della maggior parte delle sue opere monumentali, Hans Holbein il Giovane appare soprattutto un ritrattista, uno dei massimi di tutti i tempi. Aperto a tutte le influenze, da Grünewald a Leonardo, da Metsys alla scuola di Fontainebleau e ai pittori inglesi del tempo,
le seppe integrare in un linguaggio originale che ci appare come una sintesi internazionale senza pari della pittura dell’inizio del XVI secolo.

Hans Holbein il Giovane, ritratto di Lady Mary Guildford, 1527
La sua arte si basò sulla soluzione di due problemi, che avevano impegnato anche il padre: il disegno, portatore dell’esattezza espressiva, e la composizione, costruita in base a uno studio estremamente attento della prospettiva; in essa le strutture dello spazio variano costantemente per giungere negli ultimi ritratti a una sorta di equilibrio tra realismo e astrazione, tra la tradizione gotica e la rinascenza umanistica. Infatti, l'incontro con Erasmo e Tommaso Moro, impregnò l'arte di Hans delle idee umanistiche affioranti nel dubbio razionalistico di cui sono pervasi i suoi dipinti religiosi, e nella ricerca inquieta e costante, dietro l’apparenza del ritratto, di un significato profondo dell’essere. Con l’altezza della sua personalità Hans dominò la prima metà del XVI secolo in Germania, in Svizzera e in Inghilterra. Nonostante ciò, l’arrivo alla corte di Enrico VIII, nel 1540, di numerosi artisti fiamminghi offuscherà il suo influsso sulle generazioni successive.

Nel 1543, la grande peste che devastò Londra, non risparmiò nemmeno il grande maestro. Hans morì così nel pieno della sua maturità e della sua fama.

Questo post si avvale di contributi bibliografici vari che potete consultare qui


La Nike di Samotracia

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Arrivano dal mondo intero al Louvre per stare davanti a lei, qualche istante, magari il tempo di scattarle una foto e proseguire nella visita del museo. La Nike di Samotracia ha colpito intere generazioni di visitatori, è un'icona che si erge maestosa in cima allo scalone progettato da Hector Lefuel. Eppure nonostante la sua grande popolarità, quasi nulla si conosce della sua storia. A differenza della Gioconda o della Venere di Milo, non è mai stata al centro di polemiche tra gli storici dell'arte e nemmeno oggetto di atti di vandalismo.
La sua storia iniziò più di 2000 anni fa, dipanandosi fino a noi tra mille domande che non hanno travato risposte certe.

La Nike è l'incarnazione della Vittoria resa divinità dai Greci, rappresentata come una donna con le ali, pronta a prendere il volo o appena posatasi su di un basamento. La statua era collocata originariamente su una prua marmorea di una nave, obliquamente slanciata e coperta da un panneggio mosso dal vento. Allo stato attuale mancano molti pezzi del basamento e della statua che però resta uno splendido esempio di arte ellenica giunta fino a noi. Numerosi restauri, tra cui uno recentissimo, hanno tentato di restituire all'opera parte dell'integrità perduta, ma è comunque necessario uno sforzo di immaginazione per comprenderne la bellezza originaria.

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La Nike ci pone una serie di domande: conosciamo l'autore? quando è stata scolpita? per chi o per quale motivo? quale vittoria voleva celebrare? perché è stata rinvenuta in pezzi e dove sono finiti quelli mancanti? e la testa?
La statua venne ritrovata in una piccola isola del mare Egeo che le diede il nome: Samotracia. Si trovava all'interno di un santuario dedicato ai Grandi Dei, poi abbandonato con l'avvento della religione cristiana. Nel 1862 Charles Champoiseau, viceconsole di Francia ad interim ad Adrianopoli, nel corso di una "passeggiata archeologica" ritrovò i frammenti del monumento: dal cumulo di rovine spuntarono prima un seno, poi più lontano un corpo senza testa ne braccia venne estratto dalla terra. Gli scavi che Champiseau decise di compiere furono giustificati dalla quantità di rovine visibili fuori dal terreno e dal desiderio di compiacere l'imperatore portando in Francia qualcosa di straordinario.


In un secondo momento vennero riconosciuti anche i resti della prua di nave in marmo su cui la statua poggiava. Questo ulteriore ritrovamento fu importante per capire il significato della scultura.
Probabilmente a seguito dell'abbandono del santuario, questo divenne una cava per il riutilizzo di materiali da parte delle popolazioni locali che se ne servirono per costruire altri monumenti o per ricavarne la calce per gli intonaci delle proprie abitazioni.
Dopo un lungo viaggio, pieno di traversie burocratiche, la statua arrivò a Parigi, con un anno di ritardo e con ulteriori danni subiti durante il trasporto.

Tutti i blocchi e i frammenti vennero tolti dalle casse e con un lavoro certosino vennero ricomposti con colle e perni metallici: per quindici anni la Nike venne esposta ricomposta solo in parte, senza ali, prima che venissero ritrovati anche i pezzi della prua della nave e comprendendo meglio la sua collocazione. Per rimpiazzare le parti mancanti si fece abbondante uso di gesso, una delle due ali venne completamente ricostruita e si applicò un rivestimento vetroso per rendere omogenee le parti originali con quelle ricostruite.Il recente restauro ha permesso la pulitura di tutta la statua, il suo smontaggio e rimontaggio con l'utilizzo di materiali più idonei, rendendo leggibile l'opera, ma rispettando gli interventi del passato. Studiata e analizzata in ogni dettaglio, l'opera è tornata al suo posto con l’aggiunta di tre nuove piume sull’ala sinistra.

Un'ipotesi di ricostruzione del monumento
Il materiale costitutivo di tutto il monumento è il pregiato marmo di Paro, proveniente dalle cave nell'isola di Paros, di un biancore tale che, quando estratto, può essere scambiato per parte di un ghiacciaio. L'opera venne scolpita a Rodi, forse come offerta commemorativa al santuario dei Grandi Dei, i Cabiri, per una vittoria navale, in un arco di anni che va dal 200 al 180 a.C., ma di quale vittoria si tratta?

Le ipotesi sono diverse: una vuole che sia quella ottenuta nel 190 a.C. nella battaglia di Side sulla flotta fenicia del re di Siria Antioco III, da parte dei Rodi. Un'altra ipotesi invece ritiene che la Nike sia la copia di una scultura di epoca classica, anticipando la sua realizzazione all'inizio del III secolo a.C. Questa seconda ipotesi è avvalorata da antiche raffigurazioni della Nike su prua, presenti su anfore panatenaiche e su alcuni conii di Alessandro Magno, della seconda metà del IV secolo a.C. E a questo proposito l'impostazione della statua ricalca alla perfezione l'immagine realizzata su alcune monete dei primi anni del III secolo a.C. appartenenti al regno di Demetrio Poliorcete re di Macedonia.

La fatica del trasporto della Nike in cima alla scalinata Daru del Louvre
Proviamo ora ad osservare bene l'opera: la dea appoggia il piede destro sulla nave, frenando con un fitto battere di ali l'impeto del volo. La gamba sinistra resta indietro rispetto al corpo che si sporge tutto in avanti. Mancano le braccia, ma grazie ad alcuni frammenti dell'attaccatura delle spalle e delle mani possiamo capire che quello destro era abbassato, forse per reggere il pennone della nave e quello sinistro era alzato, con la mano aperta in un gesto di saluto, o per tenere una corona.
Sicuramente lo scultore della Nike cercò di utilizzare tutti gli espedienti possibili per restituirci l'idea di movimento e velocità, in una composizione scenografica ricca di quel pathos tipico dell'ellenismo.

Ma chi fu l'autore? Alcuni elementi ci conducono a Pitocrito, che pochi di voi conosceranno, scultore attivo a Rodi nel II secolo a.C. E' un artista che venne citato da Plinio e che lasciò molte firme su basi di statue e una di queste fu proprio ritrovata nei pressi del luogo in cui si ergeva la Nike.

Dopo tanti secoli questo splendido monumento continua a suscitare meraviglia, nonostante le importanti mancanze che ne mutilano l'aspetto. La statua ci appare perfettamente equilibrata e compiuta così e se un giorno si dovesse ritrovare la testa, una cosa è certa, la Vittoria che vigila sui visitatori del Louvre, non sarebbe più lei.

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Il Barocco e la Controriforma

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Pietro da Cortona, ratto delle Sabine
Cos'è il Barocco? come sintetizzarlo in un post? come in ogni storia, partiamo dall'inizio.
Il termine "barocco", mai usato durante il XVII secolo, venne utilizzato inizialmente per definire uno stile architettonico maturato a Roma e diffusosi in altri paesi. Dall’architettura il termine è stato esteso alla scultura e alla pittura, nonché ad altre forme artistiche contemporanee.
Benché le date del barocco cambino da paese a paese, si è d’accordo nel collocarlo, nel suo insieme, tra l’inizio del XVII secolo e la prima metà del XVIII.

Barocco e Controriforma 

All’inizio del XVII secolo, l’Europa era divisa in seguito alle guerre di religione. Le forze innovatrici
della borghesia e della Riforma minacciavano l’Europa degli Asburgo. Stati come l’Olanda, l’Inghilterra, la Svezia, le città mercantili e una Francia che trovò la propria forza nella ricchezza della sua borghesia, si scontrarono con un mondo al culmine dello splendore, ma già prossimo al declino. La Germania era divisa in piccoli regni a struttura ancora feudale. La Spagna invece era stata quasi rovinata dalle guerre di Filippo II e dalla debolezza dei suoi re.

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Nel bel mezzo di quest’Europa in guerra, Roma godeva un periodo di pace. E proprio qui maturò la cultura del barocco: arte trionfale ma anche arte fatta per illustrare, segnò l’apice di una chiesa universale, che già universale non era più. Benché non si possa ridurre il barocco al solo aspetto religioso, è palese il fatto che si diffuse soprattutto nei paesi per i quali il Concilio di Trento costituì una linea da seguire, e che invece incontrò resistenze in tutti i paesi riformati da Lutero, l’Olanda in particolare. Occorre però evitare di identificare barocco e Controriforma. Dal punto di vista della storia delle idee, in questo periodo, è importante la difesa e la rivalorizzazione delle immagini artistiche: da un lato esse favorirono, all'opposto della Riforma, lo slancio dell’opera d’arte religiosa e dall'altro garantirono la continuità con il Rinascimento.

La pittura barocca a Roma 

Nel XVII secolo Roma era un crocevia di esperienze pittoriche. Caravaggio, opponendosi alla tradizione, e i Carracci, rinnovando l’arte dell’affresco, aprirono la strada alla sperimentazione di linguaggi nuovi. Il primo, in nome della realtà, si liberò dalle raffinatezze manieriste trasformandole in contrasti tra luce e ombre. Il secondo artista che a Roma contribuì alla definizione del linguaggio della pittura barocca fu Annibale Carracci. Tra il 1597 e il 1604 eseguì la decorazione della Galleria Farnese, punto di partenza della grande decorazione barocca. Gli allievi dei Carracci, il Domenichino, Guido Reni, il Guercino, eseguirono a Roma grandi cicli decorativi, proseguendo la diffusione del nuovo stile.

Annibale Carracci con l'intervento di Agostino Carracci e aiuti,
affreschi della Galleria Farnese
Ma il pittore che dipinse gli affreschi più complessi per invenzioni e tecnica illusionistica fu Pietro da Cortona, pittore, architetto e decoratore contemporaneo di Bernini e di Borromini. In una delle sue opere maggiori, il soffitto di palazzo Barberini (1633-39), le architetture e le sculture finte si fondono in un effetto di pittura totale.
Nell'arte barocca statue, architetture e dipinti si fondono insieme, costituendo così un’entità pittorica senza frontiere, grazie all'integrazione tra i diversi mezzi espressivi.
L’artista barocco cercò sempre di sorprendere lo spettatore mediante una realtà che non si distingue più dall'illusione.

La pittura barocca in Italia fuori da Roma 

Il barocco romano non fu però l’unico barocco esistente in Italia. Si svilupparono scuole molto ricche e molto diverse fra loro:

  • A Genova, con G. B. Castiglione, B. Strozzi, G. de Ferrari, A. Magnasco
  • A Napoli, feudo caravaggesco dove operavano lo spagnolo Ribera e i suoi allievi; 
  • A Milano, dove Morazzone e Cerano furono influenzati dalla dottrina borrominiana; 
  • A Venezia brillarono le ultime fiamme del barocco: la festa si dissolse nel tocco "impressionistico" dei suoi pittori. Gli affreschi di Tiepolo fanno già parte di un’epoca diversa.


La pittura barocca nei Paesi Bassi spagnoli 

Rubens, personalità di livello europeo, incaricato spesso d’importanti missioni diplomatiche, si stabilì ad Anversa dopo un soggiorno a Roma dal 1600 al 1608. La sua pittura si riallacciò così da un lato all’arte fiamminga e dall’altro alle ricerche che da Michelangelo, attraverso gli artisti di Parma e di Mantova, arrivarono a Tintoretto. La composizione geometrica rinascimentale, fatta di contrasti multipli ed equilibrati, non resiste alla vitalità dell’arte di Rubens.  La sua influenza, immensa in tutta Europa, contrassegnò particolarmente la pittura fiamminga, ma nessuno seppe raccoglierne l’eredità grandiosa per intraprendere nuove ricerche.

Pieter Paul Rubens, La Caduta di Fetonte
Van Dyck, che lavorò nella bottega di Rubens intorno al 1618 prima di percorrere l’Italia e l’Inghilterra, fu soprattutto il ritrattista d’un’aristocrazia raffinata e languente. Nei suoi quadri il movimento è sospeso, la resa dei materiali tocca la perfezione nello sfavillio delle luci e nel riverbero delle sete.
Il realismo di Jordaens invece rappresentò soprattutto il tema della fine del banchetto, e in questo lavoro a tutto corpo il tocco leggero che Rubens possedeva si trasformò completamente. Le altre botteghe di Anversa si divisero tra la tradizione di Bruegel e il caravaggismo.

La pittura barocca nell’Europa centrale 

La guerra dei trent’anni ritardò la fioritura della pittura barocca nell’Europa centrale. L’Italia, fu l’ispiratrice principale della decorazione dei soffitti, a Vienna in particolare, dove si moltiplicarono le false architetture in trompe-l’oeil. Le grandi realizzazioni di soffitti dipinti in Austria furono il frutto della collaborazione tra l’architetto Fischer von Erlach e il pittore J. M. Rottmayr.
D. Gran dipinse il grandioso soffitto della Biblioteca nazionale di Vienna nel 1726 e con P. Troger, la scuola viennese rafforzò il suo trionfo avviandosi verso il rococò. I fratelli Asam, E. Quirin, architetto e scultore, e Cosmas Damian, pittore, proseguirono a Monaco di Baviera, l’illusione ottica tra pittura e architettura.

La pittura barocca in Francia 

La Francia del XVII secolo rimase principalmente classica; ma anch'essa ebbe un suo barocco, o quanto meno qualche affinità con questa estetica. Poussin stesso durante i suoi primi anni a Roma, fu sensibile a esso.
I pittori francesi che, a Roma, furono risolutamente barocchi, ritroveranno in Francia le influenze classiche. Così fu per S. Vouet: durante il suo soggiorno a Roma, dal 1614 al 1627, rimase influenzato da Caravaggio, dall'arte decorativa dei napoletani e dal modellato saldo del Domenichino, ma tornato a Parigi, temperò la propria eloquenza.

Simon Vouet, Annunciazione
J. Blanchard e F. Perrier subirono anch'essi influssi romani, e persino in Le Brun, pittore ufficiale del regno, garante della dottrina classica, si possono scoprire tratti barocchi.
Rubens influenzò una parte della pittura degli ultimi anni del XVII secolo in Francia, soprattutto in seguito allo scontro tra i poussinisti, sostenitori del disegno, e i rubensiani, difensori del colore. Charles de La Fosse venne influenzato dal colore dei veneziani meditato attraverso Rubens, usando schemi compositivi barocchi, ma lasciando già intravedere la leggerezza, la chiarezza e la grazia rococò.
Il gusto del re e della Corte mutò negli ultimi anni del secolo, aprendo spiragli al barocco: le tendenze romane, giunte attraverso le stampe, furono accettate soprattutto nei polittici di provincia. Tuttavia lo stile barocco si diffonde in Francia più particolarmente nella decorazione effimera per feste e apparati funebri, di cui gli incisori ci hanno trasmesso il ricordo.

La pittura barocca in Spagna 

La Spagna seguì con rigore alle idee controriformistiche. La canonizzazione di molti santi e la campagna in favore dell’Immacolata Concezione crearono un’iconografia nuova. Gli incarichi degli istituti monastici furono importanti quanto quelli dei palazzi. I particolarismi regionali e i legami col passato furono tanto forti che è difficile oggi definire le relazioni di questa pittura col barocco. I ritratti statici e scultorei di Zurbarán rivelano una continuità con l’arte del secolo precedente e si collocano nella linea dei polittici e delle sculture sivigliane. Murillo contrappose alle mistiche sublimità di Zurbarán una pietà più amabile e divenne il pittore preferito dei cappuccini, favorevoli  a una devozione tenera ed espansiva.

Diego Velazquez, ritratto equestre del principe Baltasar Carlos
Velázquez, pittore di corte, fu invece in contatto continuo con la pittura europea: incontrò Rubens nel 1628, fu a Venezia e a Roma (1629 e 1649). Fu dunque al centro di tutte le ricerche pittoriche contemporanee.
Ma è durante il regno di Carlo II che la pittura rifletté caratteri più nettamente barocchi. Francisco Herrera il giovane studiò a Roma e dall’Italia riportò il gusto per la pittura d’altare a colonne tortili, gli scorci e le diagonali. Carreño de Miranda, influenzato dalla tecnica di Rubens, rifletté in tono minore il fasto pomposo e triste della corte di Carlo II. Valdés Leal, dopo aver dipinto con tecnica focosa opere in cui il movimento si concerta con un colore brillante, interpretò con macabra violenza il tema della fuga del tempo e delle decadute grandezze. Le architetture della sacrestia dell’Escorial si prolungarono nei dipinti in cui C. Coello creò un’illusione di specchio. In realtà, ad eccezione di F. Rizi, furono soprattutto gli italiani a eseguire in Spagna le pitture a soffitto. Nel 1692, alla morte di Coello, i cui affreschi sono scomparsi in un grande incendio, il napoletano Luca Giordano, che deve alla sua celerità il soprannome di "Luca fa presto", proseguì l’esecuzione degli affreschi dell’Escorial.

 Gian Lorenzo Bernini, baldacchino di San Pietro

Un po' di definizioni 

Gli storici dell'arte, nel corso degli anni, si confrontarono spesso con questo movimento sfuggente e di difficile definizione.
Fu J. Burckhardt, nel Cicerone (1860), a riabilitare il termine "barocco", senza superare i pregiudizi dei classicisti: "L’architettura barocca parla lo stesso linguaggio di quella del Rinascimento, ma è un linguaggio degenere". Quest’opinione fortunatamente è cambiata. H. Wölfflin la attenuò qualche anno dopo in Renaissance und Barock, dove sostenne che il barocco non fu un periodo di decadenza dello stile classico, ma uno stile autonomo. Egli suddivise la storia dell’arte in cicli, e per il periodo tra la fine del XV secolo e l’inizio del XVIII secolo, mise in rilievo due modalità di visione totalmente diverse nelle arti figurative: il classicismo rinascente e il barocco del XVII secolo. La sua analisi è tra gli approcci più raffinati al barocco, e in particolare alla pittura. Wölfflin fissò cinque categorie stilistiche:

  1. Lo stile classico è lineare, si riferisce ai limiti dell’oggetto definendolo e isolandolo. Lo stile barocco è pittorico, i soggetti si riferiscono all’ambiente. 
  2. Lo stile classico è costruito per piani, il barocco in profondità. 
  3. Il classicismo è forma chiusa, il barocco è forma aperta. 
  4. L’unità dello stile classico è ottenuta nella chiara distinzione dei suoi elementi; quella del barocco è un’unità indivisibile.
  5. Il classicismo mira alla chiarezza, mentre il barocco subordina i personaggi alla loro relazione.


Nel 1921, in Der Barock als Kunst der Gegenreformation (Il barocco arte della Controriforma), W. Weisbach definì l’arte barocca come l’espressione della Controriforma trionfante e dell’assolutismo politico. Nel 1932 E. Mâle isolò, nel suo studio iconografico sull’Art réligieux après le concile de Trente, i temi specifici della Controriforma: martirio, visione, estasi e morte. E. d’Ors, in Du Baroque, definì lo stato d’animo all’origine della cultura barocca come conseguenza alle costrizioni delle norme. Il barocco va ricollegato al fenomeno che contrappone razionalità e sensibilità, maschile e femminile, apollineo e dionisiaco. Dalla preistoria ai giorni nostri d’Ors individua ventidue forme dell’eterno barocchismo.

Francesco Borromini, Chiesa di Sant'Ivo alla Sapienza
H. Focillon, che non ha dedicato al barocco opere specifiche, vede in questo fenomeno un "momento della vita delle forme" nel quale esse vivono di per se stesse. Lo storico V.-L. Tapié, nel 1957, con Baroque et Classicisme, ha proposto un approccio sociologico al barocco studiando il propagarsi dello stile della Roma triumphans nelle zone a organizzazione terriera in cui la società è fortemente gerarchizzata. Le zone di diffusione minore invece sarebbero quelle a struttura borghese. P.-H. Minguet, nella sua ipotesi sull’Estétique du Rococo (1966), sostenne che l’architettura tedesca del XVIII secolo non può essere identificata con il linguaggio barocco, ma piuttosto con lo stile rococò, e propose una definizione positiva di tale stile. In Le Mirage baroque (1967), P. Charpentrat auspicò un uso ristretto del termine.

Che dire quindi in conclusione?
Se il termine "barocco" fu principalmente sinonimo di architettura, esiste realmente una pittura che merita questa qualifica. Concepita in funzione di un edificio, che essa modifica o assimila, si compiace dell’illusionismo, dell’espansione e del movimento, degli apparenti squilibri che dissimulano una coerenza interna rigorosa. Sia che si tratti del soffitto Barberini che dell’universo di Rubens, questa pittura, di decorazione o di cavalletto, ha creato un nuovo spazio dinamico che realizza l’unità nel molteplice e la permanenza nel movimento.
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    La ragazza con l'orecchino di perla

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    La ragazza con l'orecchino di perlaè un film realizzato nel 2003 da Peter Webber, tratto dal romanzo omonimo di Tracy Chevalier. Tra i film dedicati agli artisti e alla loro opera questo rimane ad oggi uno di quelli che ebbe maggior successo, di pubblico e di critica, arrivando alla candidatura per tre premi Oscar: migliore scenografia, migliore fotografia e migliori costumi. Il film e il libro non sono basati su fatti realmente accaduti, ma partono da un celebre dipinto di Jan Vermeer per creare un personaggio a cui ruota intorno tutta la storia narrata.

    Il dipinto in questione è la Ragazza col turbante, realizzato dall'artista olandese nel 1665. La ragazza nel dipinto nell'immaginario di Tracy Chevalier diventa Griet, una giovane donna che vive a Delft. A causa di difficoltà economiche e familiari Griet, figlia di un pittore di ceramiche diventato cieco per un incidente sul lavoro, viene mandata a servire a casa del pittore Jan Vermeer. Si scoprirà così che anche Vermeer fa fatica a mantenere il proprio stile di vita agiato, considerando che la moglie mette al mondo molti figli e che l'artista produce pochi quadri, a causa della sua mania di perfezione.

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    Griet comincia a lavorare per la famiglia Vermeer, scoprendo d'essere molto interessata ai colori e alla pittura. E così l'artista le insegna come preparare i colori per i suoi dipinti, tenendo segreti questi incontri a sua moglie. Griet è una bella ragazza, non sa leggere, ma i suoi occhi sono intelligenti e attira presto su di sé l'attenzione di molti ammiratori: dal giovane garzone Pieter, al mecenate di Vermeer, Van Ruijven, che chiede all'artista di far lavorare la ragazza per lui. Il pittore rifiuta, ma in cambio decide di realizzare un ritratto di Griet da donare a Van Ruijven, che resta la sua sola fonte di reddito. In realtà lo stesso Vermeer desidera ritrarla e nel periodo in cui l'artista dipinge il quadro, la sua relazione con Griet diviene più intima. Le cose chiaramente si complicheranno, tra gelosie, incomprensioni e rabbia, ma non vi anticipo altro.


    I punti a favore di questo film sono molti. Dalla scelta degli attori, tutti all'altezza del loro compito, in particolare Colin Firth, che interpreta un Vermeer enigmatico ma molto passionale e fascinoso, e la protagonista Scarlett Johansson, la cui immedesimazione in Griet è praticamente perfetta e piena di sentimento. La famosa scena in cui viene concesso allo spettatore di vedere i capelli della giovane donna è di grande impatto emotivo. Ottima è anche la ricostruzione della cittadina olandese di Delft, negli interni e negli esterni, per non parlare dei bellissimi costumi (premio oscar). L'aspetto criticabile è che non si tratta certamente  di un documento di ricostruzione fedele della vita di Vermeer, ma è una divagazione romanzata. Se siamo coscienti di ciò, il film trascorre veloce e leggero nel descriverci un incontro di vite che per un periodo si sfiorarono, generando incomprensioni, passioni, conflitti, rabbia, tristezza e, infine, un capolavoro: la Ragazza col turbante.


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    La Brocca di Hans Memling

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    Hans Memling, brocca con monogramma di Cristo, con gigli, iris e aquilegia
    La splendida opera che vedete qui fu realizzata da Hans Memling intorno al 1490, oggi conservata al Museo Thyssen-Bornemisza di Madrid. L'arte di Memling è distinta da un'eleganza raffinata, a tratti malinconica, che sintetizza al meglio la breve ma intensa stagione artistica promossa dai mercanti di Bruges. Ma se vi dicessi che si trova su una tavola dipinta su entrambi i lati? lo riterreste possibile?

    Ebbene è così, perché questa natura morta si inserisce in una particolare tipologia di immagini tra Quattro e Cinquecento, perlopiù fiamminghe che portò a risultati di una perfezione insuperabile. Si era infatti abituati all'epoca a realizzare cose inanimate sul retro di tavole di vario formato e destinazione. Ma per quale motivo?
    Questi dipinti avevano uno scopo morale, riferito al soggetto che veniva ritratto sul fronte della tavola ed è un tipo di rappresentazione che ha origini antichissime.

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    I fiori raffigurati da Memling costituiscono il soggetto della facciata esterna di una tavola che, all'interno, presenta un ritratto del committente in preghiera. Questa tavola probabilmente era l'anta di un altarolo portatile a due sportelli. Come tale doveva essere abbinata a una Madonna col Bambino e collegata a essa attraverso un chiaro messaggio simbolico: infatti gigli, iris e aquilegia, le specie raffigurate da Memling, secondo una tradizione emblematica che si afferma negli scritti di devozione medievali, sono attribuiti alla Vergine Maria e allo Spirito santo, e sul vaso di porcellana è bene in vista il monogramma di Cristo.

    L'altro lato della tavola, con il ritratto del committente
    Comunque al di là di tutte le interpretazioni iconografiche che sicuramente rivestivano un ruolo chiave per i committenti e i fruitori di queste opere, ci troviamo di fronte ad un'opera straordinaria.
    Si presenta a noi come un dipinto raffinatissimo nel quale ogni particolare è reso con la massima cura: basti guardare la maestria nel realizzare le ombre, l'attenzione alla resa naturalistica dei fiori e lo splendore cromatico del tappeto caucasico su cui appoggia il vaso.
    E' un'opera che vive di vita propria, figurativamente risolta in sé stessa a prescindere dallo scopo e dal contesto in cui fu pensata, testimonianza della grande maestria di Memling.

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    Ritratto di Paolina Borghese

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    Antonio Canova, ritratto di Paolina Borghese come Venere vincitrice, 1808
    Antonio Canova, scultore e pittore, nacque il 1° novembre 1757 a Possagno, piccolo paese nel nord-est d’Italia. Considerato il massimo esponente del Neoclassicismo e per questo soprannominato "il nuovo Fidia", l’artista è autore di questa splendida statua, raffigurante Paolina Borghese Bonaparte, sorella di Napoleone. Qui Paolina è rappresentata come Venere: nella mano sinistra, infatti, tiene il pomo d’oro con il quale fu riconosciuta da Paride la bellezza della dea. Nell'episodio della mitologia greca il principe troiano dovette infatti premiare la donna più bella, scegliendo tra Minerva, Giunone e Venere.

    Si tratta quindi di una rappresentazione allegorica in cui la giovane Paolina viene immortalata nei panni di una divinità, per celebrare la sua virtù e la sua bellezza. La scultura fu commissionata dal marito della donna, il principe Camillo Borghese, e scolpita a Roma tra il 1805 e il 1808. Non si sa se Paolina posò nuda per l’artista o se piuttosto Canova non abbia fatto altro che inserire il ritratto della donna su un corpo realizzato seguendo i canoni di bellezza neoclassica.

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    L’opera viaggiò molto prima di trovare la sua collocazione definitiva a Galleria Borghese.  Una volta completata, raggiunse la dimora di Camillo Borghese a Torino, dove rimase fino al 1814. Alla caduta di Napoleone fu spostata a Genova e, via mare, raggiunse Roma. La statua fu esposta a palazzo Borghese, dove la si poteva osservare anche di notte, illuminata da fiaccole: era così messa in risalto la raffinatezza del marmo e la patinatura finale a cera data da Canova. Dopo un breve periodo in cui l’opera fu mostrata a villa Pinciana, dal 1889 trovò la sua collocazione definitiva a Galleria Borghese.


    Una curiosità: la parte marmorea dell’opera, che termina con il materasso, è appoggiata sulla struttura lignea del letto. All'interno di questo c’è un meccanismo nascosto che permette alla statua di ruotare intorno al proprio asse verticale. Nel 1953 al letto furono aggiunte due zampe di leone. L’aspetto più sorprendente di questo ritratto di Paolina è il modo in cui Canova seppe rendere materiali e superfici diverse: dalla pelle vellutata della donna, ai morbidi cuscini, al leggero tessuto che si adagia sulle gambe. Si può veramente dire che il marmo prende vita.

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    Olpe Chigi, la maestria degli artisti di Corinto

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    Olpe protocorinzia Chigi, 640-630 a.C.
    Roma, Museo Nazionale di Villa Giulia
    Oggi vi voglio condurre attraverso l'arte greca antica, alla scoperta di un vero capolavoro.
    L'olpe Chigi è un vaso che serviva ad attingere o versare liquidi, in particolare il vino.
    Fu ritrovato in una tomba etrusca vicino a Veio: si tratta di un vaso venduto in Etruria o donato a qualche potente signore, quasi come campione, a dimostrazione dell'abilità degli artigiani di Corinto. In esso ritroviamo tutte le tecniche usate allora nella decorazione delle ceramiche: incisione, policromia e pittura su sfondo scuro.

    Il vaso è aggraziato, forse un po' troppo carico nella decorazione e mancano i collegamenti tra gli elementi della composizione. Nonostante ciò è una testimonianza molto interessante perché riassume tutte le iconografie usate a Corinto, distribuite tra quattro fregi figurati.
    Il primo rappresenta due schiere di opliti che, al suono di un flautista, fanno dietrofront; i più lontani si affrettano al centro, i più vicini vibrano le aste. Nel modo in cui sono accuratamente descritte le armi, l'interno e l'esterno degli scudi dalle rappresentazioni terrificanti, emerge l'immagine della potenza di Corinto. Nel secondo fregio appaiono dei cani che inseguono vari animali.

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    Nel terzo il giudizio di Paride, una caccia cruenta a un leone, un carro e una schiera di cavalieri, una sfinge con due corpi araldici e un solo volto. Nel quarto fregio ancora scene di caccia: cani che inseguono lepri, cacciatori carichi di selvaggina che, nascosti oltre i cespugli, cercano di sorprendere gli animali.
    L'artista che l'ha decorata ci resta anonimo, ma possiamo sicuramente dire che ci troviamo di fronte a un capolavoro di pittura policroma e chi l'ha fatto era un miniaturista di grande maestria: gli sono bastati infatti solo cinque centimetri di altezza per rappresentare il movimento degli uomini in battaglia. Una scena dal vero ricca di dettagli in cui trova posto anche la natura nei cespugli agitati dal vento in cui si nascondono gli uomini intenti nella caccia alla lepre.

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    La rinascita della società italiana - i test di Artesplorando

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    Il test di oggi metterà alla prova le vostre conoscenze riguardo certi termini dell'arte che ritroviamo nel periodo in cui l'Europa si aprì al nuovo millennio, l'anno Mille. L'Europa di allora era una distesa di boschi, praterie e paludi, interrotta da qualche castello feudale, da pochi villaggi e da città che faticavano a riempire le rovine degli antichi insediamenti romani. Un epoca di cambiamenti, di conquiste tecnologiche e dello sviluppo di un arte al servizio della Chiesa e degli ordini monastici.


    Le istruzioni per il test sono sempre le stesse: è composto da domande a risposta multipla, compilatele tutte e cliccate invia. Vi appariranno così le risposte esatte per capire se e quanto avete fatto bene!
    Facile no? bene, allora non perdete tempo e cominciate a mettere alla prova le vostre conoscenze!

    10 grandi talenti, caduti nella Prima Guerra Mondiale

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    Spesso gli artisti hanno vite brevi, quasi come se la fiamma del loro talento li consumasse velocemente. Ma in determinati periodi storici furono gli eventi della storia a strapparli dalle loro vite e dalla loro arte. Quelli che trovate qui sono 10 esempi di artisti che terminarono la loro vita per colpa di una guerra.

    La Prima Guerra Mondiale coincise con uno dei periodi più creativi della storia dell’arte e, tra le altre tragiche perdite, dovremmo contare anche tutti quei capolavori che non riuscirono a vedere la luce.

    Franz Marc

    Questo brillante espressionista catturò l’eccitazione del giovane XX secolo in frammenti e strisce di colori accesi, ripensando la natura attraverso i suoi occhi visionari. Ma venne ucciso al fronte occidentale all’età di 36 anni, e l’arte moderna perse un gigante in erba.
    Tedesco, morto nel 1916.

    Umberto Boccioni



    Umberto Boccioni, l’artista più dotato del movimento futurista, creò delle immagini fortemente dinamiche, che diventavano, che diventavano potenti similitudini dei progressi tecnologici del nuovo secolo, come la figura che si protende in avanti in Forme uniche della continuità nello spazio. Il Futurismo esaltava la guerra in quanto forza che avrebbe spazzato via il passato e dato nuova energia al secolo appena nato. Quando questa scoppiò, Boccioni ne prese parte, fu ferito nel 1915, e morì in un incidente a cavallo durante la convalescenza.
    Italiano, morto nel 1916.

    Henri Gaudier-Brzeska


    Questo talentuoso artista francese visse e lavorò in Inghilterra, dove condivideva l’inclinazione per il modernismo radicale con i suoi amici Ezra Pound e Jacob Epstein. Prese il cognome della sua fidanzata polacca, la scrittrice Sophie Brzeska. Quando la guerra venne dichiarata, prese parte al conflitto nell’armata francese e venne ucciso in battaglia all’età di 23 anni, lasciando una piccola ma formidabile raccolta di opere.
    Francese, morto nel 1915.

    Egon Schiele


    Il terribile tasso di mortalità causato dalla Prima Guerra Mondiale peggiorò con l’avvento dell’influenza spagnola, che colpì la debole popolazione europea sul finire del conflitto. Questa si portò via anche il genio, allora 28enne, Egon Schiele e sua moglie Edith. Fu la fine di una delle vite più provocatorie e intense della storia dell’arte. I suoi ritratti disperati e i suoi disegni erotici approfondiscono una profonda e soggettiva apertura alle gioie e ai dolori della vita. Cos’altro avrebbe potuto fare se fosse sopravvissuto?
    Austriaco, morto nel 1918.

    Isaac Rosenberg


    Il pittore e poeta Isaac Rosenberg era figlio di immigrati ebrei, provenienti dall’est Europa, e crebbe a Cable Street, nell’Est End londinese. Combatté contro la povertà per tutta la sua breve vita. Era contrario alla guerra e scrisse contro di essa, ma si arruolò nel 1915, non tanto per patriottismo quanto per necessità economiche. Fu ucciso durante gli ultimi mesi del conflitto all’età di 27 anni. Viene ricordato più per le sue poesie sulla guerra che per la sua arte pittorica. Ciononostante, questo delicato autoritratto della National Portrait Gallery è un toccante relitto di una giovinezza destinata ad essere stroncata sul nascere.
    Inglese, morto nel 1918.

    Antonio Sant'Elia



    L’architettura del XXI secolo è piena di richiami ai disegni fantastici di Antonio Sant’Elia, l’architetto preferito del movimento futurista. In un’Italia ancora dominata da rovine romane e palazzi rinascimentali, Sant’Elia immaginò città fantascientifiche con immensi grattacieli, fortezze di vetro e calcestruzzo, ziggurat futuriste su piani inclinati. Le sue visioni, però, dovettero rimanere solo dei meri disegni teorici dopo la sua morte nella battaglia di Monfalcone all’età di 28 anni.
    Italiano, morto nel 1916.

    Raymond Duchamp-Villon



    La guerra di trincea fu letale non solo per le granate e armi da fuoco, ma anche per le condizioni di vita fortemente insalubri. Lo scultore cubista Raymond Duchamp-Villon era il fratello di Marcel Duchamp, ma, mentre quel genio irrequieto di suo fratello sfuggì alla guerra trasferendosi in America, Raymond si arruolò volontario. Prima di diventare un artista aveva studiato per diventare medico, e servì come ufficiale sanitario sul fronte occidentale, ma questo lo espose alla tifoide e morì all’età di 41 anni.
    Francese, morto nel 1918.

    Nina Baird



    Nel porticato della Royal Academy di Londra c’è un memoriale agli studenti caduti durante la Prima Guerra Mondiale. Il primo nome che compare è quello di una donna, Nina Baird, che morì di febbre tifoide, contratta durante il suo lavoro militare nel nord Africa. La lista rappresenta tutti quegli innumerevoli talenti che sono andati perduti in questa guerra prima che avessero avuto la possibilità di crescere e svilupparsi. La Prima Guerra Mondiale accadde in uno dei periodi più creativi della storia dell’arte: per questo, ci dovranno sicuramente essere delle personalità geniali ancora sconosciute tra i suoi caduti.
    Inglese, morta nel 1919

    Guillaume Apollinaire


    Il caduto più iconico e compianto della comunità parigina d’arte moderna non era un’artista in quanto tale, ma un eloquente critico d’arte, brillante poeta, grand’uomo e amato amico di Pablo Picasso, la cui promozione dell’arte moderna fu parte imprescindibile della scena artistica prima del 1914. L’onirico artista Giorgio de Chirico affidò una sorta di premonizione della morte di Apollinaire ad un suo dipinto del 1914. Apollinaire fu ferito alla testa nel 1916 e morì di questa ferita due anni dopo, all’età di 38 anni, quando la guerra si era già conclusa. La sua morte simboleggiò la fine degli anni più vitali dell’arte moderna.
    Francese, morto nel 1918

    Fonti: traduzione di Beatrice Righetti da www.theguardian.com 

    Mi chiamo Beatrice Righetti, sono laureata in Mediazione Linguistica e Culturale all’Università di Padova e sono un’appassionata traduttrice. Studio inglese, russo, tedesco e spagnolo, e nel tempo libero mi dedico all’arte e alla letteratura. Per questo, credo fortemente nella divulgazione artistica e culturale, specialmente se integrata nel nostro vasto e poliedrico panorama internazionale.

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    Dosso Dossi, La maga Circe o Melissa

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    Dosso Dossi, La maga Circe o Melissa
    Giovanni di Niccolò Luteri, conosciuto come Dosso Dossi, fu il principale artista attivo nel primo Cinquecento alla corte degli Estensi, a Ferrara, città del nord-est d’Italia. Si fece interprete delle evocazioni fantastiche e suggestive del coetaneo Ludovico Ariosto, poeta e commediografo, autore dell’Orlando Furioso.
    Questo dipinto fa parte delle opere inviate da Ferrara al cardinale collezionista Scipione Borghese, ideatore della Galleria Borghese.

    Protagonista dell’opera è una figura femminile con un turbante sul capo, vestita di un abito riccamente decorato e con una fiaccola nella mano sinistra e una tavoletta con caratteri cabalistici in quella destra. La donna è stata interpretata come la maga Circe di Omero, o come Melissa, benefica incantatrice cantata dall’Ariosto nell’Orlando Furioso.
    La maga è immersa in un rigoglioso paesaggio con elementi architettonici di una città, seduta all’interno di un cerchio magico, tracciato durante l’incantesimo a cui sta lavorando. Alla sua destra vedete una lucente corazza, un cane e alcuni volatili, animali che spesso accompagnano le maghe e le incantatrici. Appesi a un albero, in alto a sinistra, notiamo un gruppetto di guerrieri ridotti a pupazzi e che forse sono il simbolo di anime imprigionate. Infine, sullo sfondo, l’artista ha realizzato alcuni giovani che sono un richiamo al gruppo presente nel Concerto campestre di Giorgione o Tiziano. Tutto il paesaggio è un chiaro riferimento all’indimenticabile lezione di Giorgione, presso il quale Dosso Dossi trascorse una fase decisiva della sua formazione.

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    L’ultimo restauro, oltre a evidenziare i raffinati colori della tela, ha evidenziato diversi pentimenti dell’artista: nella parte sinistra del dipinto, al posto del cane e dell’armatura, c’era una figura maschile in piedi, a cui la maga volgeva lo sguardo.
    Dosso Dossi con quest’opera dà prova della sua grande versatilità stilistica, curando vari effetti di consistenza dei materiali: dalla resa della brillante corazza, alla precisione nei dettagli del ricchissimo broccato della vesta della Maga.
    L’artista in questo dipinto riesce a coniugare i colori e le atmosfere luminose tipiche dell’arte veneta, con la continua ricerca di spunti esoterici e letterari che i pittori della scuola ferrarese erano soliti usare nelle proprie opere.
    Vi invito quindi a cogliere tutti i dettagli, i colori, le sfumature e i simboli che ci trasportano in un mondo di maghi e cavalieri.

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    L'astrattismo, espressione concreta della realtà?

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    Vasilij Kandinskij, primo acquerello astratto
    L'astrattismo è una delle principali tendenze affermatesi nella pittura e nella scultura del XX secolo. Se ne può fissare l’inizio intorno al 1910, quando Kandinsky dipinse un acquerello nel quale eliminò ogni riferimento al mondo esterno. Quasi nello stesso momento la forma astratta fu teorizzata sul piano estetico: infatti, nel 1908 apparve a Monaco l’opera dello storico dell'arte Wilhelm WorringerAstrazione e empatia. Partendo dalla nozione di Einfühlung, già formulata dalla filosofia tedesca, che esprime una sorta di comunione tra l’essere umano e il mondo esterno, l’autore pensò a uno stato d’animo opposto, dominato dall’angoscia, di cui le precedenti civiltà avevano già offerto parecchi esempi. Tale stato d’angoscia si traduce, nel campo artistico, in una tendenza all’astrattismo. L’uomo, schiacciato dalla potenza degli dei o dall’incertezza della propria esistenza, si distoglie dal reale, che soltanto la forma astratta può trascendere.

    Fuori dal campo della filosofia estetica, l’evoluzione stessa della pittura preparò la comparsa dell’atrattismo. Già le teorie cromatiche dei postimpressionisti avevano dissociato l’oggetto dipinto dal suo colore reale. L’impiego del colore divenne sempre più libero, fino al trionfo del colore puro, che è la grande conquista dei fauves. Parallelamente, la struttura del quadro e le forme si modificarono secondo lo stesso spirito. Gauguin, pur forzando i contrasti tonali, modulò le linee della composizione in nome dell’espressione.
    Cézanne sottrasse la forma a quanto essa contiene di accidentale. La purezza geometrica che egli vide come possibilità di compimento della pittura, al di là dell’effimero, condusse al cubismo, dove gli oggetti persero il loro aspetto reale. Così, nel 1910 circa, l’indipendenza della forma si aggiunge a quella del colore: la disintegrazione di tale spazio comporterà, a sua volta, la progressiva dissoluzione dell’oggetto, poi la sua scomparsa, segnando l’avvento dell’astrattismo.

    Robert Delaunay, forme circolari
    Due dei tre pionieri di questa pittura, Mondrian e Malevic, passeranno infatti dal cubismo all’astrattismo. Il solo Kandinsky resterà indifferente alle ricerche cubiste e approderà all'astrattismo direttamente, attraverso il colore. Tra il 1910 e il 1920 si assistette alla fioritura di forme astratte nell’opera di vari artisti. L’americano Arthur Dove realizzò nel 1910 alcuni dipinti astratti molto personali; il russo Larionov lanciò nel 1913 il raggismo, movimento astratto, che restò legato al suo nome e a quello della Goncarova. In Francia, nel 1913, Delaunay e Léger concepirono rispettivamente le Forme circolari e i Contrasti di forme. In questi artisti, peraltro, i tentativi astratti rimasero occasionali.

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    Osservando l’evoluzione, intorno agli anni ’20, di numerosi artisti di diverse tendenze, si notano in essi momenti astratti, effimeri ma significativi, nella misura in cui dimostrano l’interesse generale che l’espressione astratta aveva risvegliato. Anche se tale atteggiamento ha potuto suscitare opere interessanti, esso non va assolutamente confuso con quello dei pionieri autentici, che adottarono l'astrattismo come impegno formale e teorico, spesso legato a un’etica personale. Ciascuno di loro sentì il bisogno di scrivere: Kandinsky con Lo spirituale nell’arte, 1912 e Punto linea superficie, 1926; Mondrian con numerosi testi su De Stijl, dal 1917; Malevic con Il mondo senza oggetti, 1927. In modo più o meno pronunciato, l’espressione astratta fu per essi non soltanto una rivoluzione visiva, ma un passo avanti verso un mondo migliore. Tale coscienza d’una missione da compiere, fondamento dell’astrattismo, fu una caratteristica unica tra i movimenti d’avanguardia.

    Estratto del giornale De Stijl con le "immagini sonore" di Theo van Doesburg
    Agli esordi semplice tendenza, dopo il 1920 l'astrattismo assunse man mano l’aspetto di un movimento, quando l’influsso della forma astratta cominciò a manifestarsi nell’architettura, nella decorazione, nell’arredo, nella tipografia e nell’arte grafica, ponendo fine allo stile decorativo del primo Novecento. Sotto questo aspetto la rivista De Stijl (1917-32) svolse un ruolo di primo piano. Fondata da un gruppo di artisti e di architetti raccolti intorno a Mondrian, ebbe come principale animatore Theo van Doesburg. Con straordinaria energia e capacità di persuasione, questi intraprese una serie di viaggi e di conferenze attraverso l’Europa per imporre ai contemporanei la poetica dell’astrattismo, che nel suo spirito si ricollegava alla concezione di Mondrian, quale verrà formulata nel neoplasticismo.

    Le applicazioni pratiche dell’esperienza astratta ebbero origine anche nei movimenti russi d’avanguardia. In Unione Sovietica, dove, col favore della rivoluzione, l’avanguardia svolse per un certo tempo il ruolo di arte ufficiale, si pose con insistenza il problema della realizzazione pratica
    delle ricerche astratte, poiché l’arte era chiamata a servire la società. Le esperienze di Tatlin, promotore della scultura astratta, e il costruttivismo che ne seguì sfociò in due opposte tendenze: la prima prese le parti dell’arte pura, mentre l’altra raccomandò agli artisti di cessare ogni attività speculativa per ritrovare "le basi sane dell’arte nel campo della realtà, che è quello della costruzione concreta". Ma questo ruolo sociale che l’arte doveva svolgere, e che avrebbe consentito alla poetica astrattista di conferire slancio al disegno industriale e all’architettura, si scontrò con la crisi economica che l’Unione Sovietica attraversava; e l’influsso delle forme nuove si manifestò quasi esclusivamente nel campo tipografico. Tuttavia, attraverso l’architetto e pittore suprematista El Lisickij, che aveva subito fortemente l’influsso di Malevic, le innovazioni degli artisti russi ebbero prolungamenti in Germania.

    Piet Mondrian, Broadway Boogie Woogie
    Nell’espansione delle forme astratte tra il 1920 e il 1930 l’attività di El Lisickij e quella di Van Doesburg, che lavorarono entrambi al Bauhaus unendo la dinamicità suprematista e il rigore neoplastico, contribuì alla diffusione della poetica dell’astrattismo sul piano pratico.
    Parigi, che fino a quel momento era rimasta a margine delle tendenze astratte vere e proprie, le accolse nel 1923 quando Léonce Rosenberg organizzò nella sua galleria, L’Effort moderne, una mostra del gruppo De Stijl. Poi, nel 1925, l’esposizione internazionale delle arti decorative rivelò l’esistenza, ovunque in Europa, di nuove forme nelle quali prevalse il rigore funzionale. Nel corso di questi stessi anni il numero degli artisti conquistati dall’astrattismo aumentò considerevolmente.


    Importanti mostre di pittura e scultura astratte vennero organizzate a Zurigo e a Parigi. Tale espansione dell’arte astratta raggiunse il punto culminante col movimento Abstraction-Création, fondato a Parigi nel 1931, e attivo fino al 1936. Le mostre internazionali che i suoi membri organizzarono annualmente finirono per raccogliere oltre 400 artisti. Nel complesso queste imponenti manifestazioni segnarono il trionfo dell’astrattismo geometrico. Si trattò tuttavia di una semplice moda, e non di una fioritura dell’astrattismo. L’unico campo in cui la visione astratta degli anni ’30 scoprì possibilità nuove fu quello della pittura murale.

    Kazimir Severinovič Malevič, cerchio nero
    Le realizzazioni più importanti furono i Ritmi senza fine di Robert Delaunay, la cui convinzione profonda circa il valore decorativo delle forme astratte appare chiara nei suoi scritti. Delaunay
    divenne il difensore principale dell’astrattismo in Francia, e creò il Salon des réalités nouvelles, primo salon dedicato unicamente all’astrattismo, che si terrà regolarmente ogni anno a partire dal 1946. Un altro fatto significativo fu il tentativo degli artisti di denominare l’astrattismo "arte concreta". Nella convinzione che le loro opere esprimessero il fondo stesso della realtà, ritennero che fosse più esatto denominarle "concrete". Van Doesburg lanciò la rivista Art concret, di cui uscirà un unico numero; ma il termine resterà associato all’astrattismo essenzialmente geometrico del
    periodo 1930-40.

    L’astrattismo dopo il 1945 

    Dopo la seconda guerra mondiale, l’espressione astratta cambiò radicalmente di aspetto e d’intenzioni. Accanto alla tendenza puramente geometrica, che intorno al 1950 conobbe grande successo in Francia comparvero altre forme di astrattismo che non si riallacciarono più alle origini dell’arte astratta. Se in passato l’astrattismo era il risultato d’una costruzione meditata, progressivamente messa a punto, esso acquisì per alcuni pittori un valore soprattutto espressivo: atteggiamento che portò all’astrattismo calligrafico o al tachisme; o anche a un astrattismo ambiguo, che è stato chiamato "informale".

    Tutte queste opere mirano a un’espressione totale e immediata di quanto l’artista ha in sé di più profondo. Presto i pittori sentirono il bisogno di trasgredire i mezzi tradizionali, servendosi di una materia oltre la tecnica corrente della pittura. Il caso più significativo di tale nuova tendenza dell’astrattismo è stato, negli Stati Uniti, quello di Jackson Pollock. Reagendo, in una sorta di furia pittorica, alla lentezza esecutiva che la pittura esigeva, egli approdò nel 1947 al dripping, procedimento in cui non servì più il pennello, perché l'artista usò colori industriali, che lasciò direttamente colare dal tubetto sulla sua tela stesa a terra. Il quadro si compone così unicamente di queste strisce di colore, sovrapposte in tutti i sensi, da lui ottenute spostandosi intorno e sopra alla tela col tubetto in mano. Questa forma espressiva, che si fonda sul gesto, adottata in modo più o meno esclusivo da numerosi artisti americani ed europei, è nota col nome di Action Painting e caratterizzò al massimo grado la libertà di concezione e la spontaneità d’esecuzione che contraddistinsero l’astrattismo nel dopoguerra.

    Jackson Pollock al lavoro con la tecnica del dripping
    Una tale apertura della sensibilità si accostò alle concezioni pittoriche della Cina e del Giappone antichi, dai quali per altro alcuni artisti avevano già tratto sin dagli anni ’30 un insegnamento. Ma per
    definire tali forme, la ripartizione tradizionale tra astrattismo e figurazione non basta più; il numero degli artisti puramente astratti è piuttosto ridotto. Ben più numerosi sono quelli che sono stati astratti durante una fase della propria evoluzione, ma vi sono soprattutto coloro che il grande pubblico vorrebbe considerare tali perché i loro dipinti non rappresentano nulla di riconoscibile, mentre astratti non sono affatto. Durante gli anni ’60 la comparsa della Pop Art nei paesi anglosassoni, seguita in Francia dalla Nouvelle Figuration, segnò una reazione contro l’astrattismo in generale e più particolarmente contro il soggettivismo estremo di alcuni pittori astratti. Se l’astrattismo non occupò più il centro dell’attualità, non cessò peraltro di esistere. Negli Stati Uniti s’impose così, verso il 1965, la Minimal Art, che all’opposto dell’espressionismo astratto evitò ogni ridondanza e insistette sulla semplicità fondamentale dei mezzi visivi. Le ricerche principali riguardarono l’azione percettiva del colore steso piatto sulla superficie della tela. Tale posizione limite dell’astrattismo, dove la nozione stessa di forma sfuma, non manca di ricordare alcune esperienze di Malevic, in particolare le forme bianche su fondo bianco.

    Victor Vasarely, Zebra

    Astrattismo geometrico 

    Benché l’elemento geometrico sia stato parte integrante della maggior parte delle prime manifestazioni dell’arte astratta, e abbia persino costituito il principio essenziale di alcune concezioni estetiche, come il neoplasticismo di Mondrian e dei suoi emuli di De Stijl o il costruttivismo russo, l’espressione distintiva "astrattismo geometrico" fu impiegata soltanto quando la giovane scuola di Parigi, dopo il 1945, rifiutando le costrizioni della geometria, se ne distaccò per abbandonarsi alle licenze dell’espressione lirica, compresi i facili approdi di un naturalismo astratto. Eclissata per un istante, l’arte astratta geometrica trovò presto nuove giustificazioni e altri sviluppi nelle varie proposte dell’arte cinetica, per influsso di Vasarely, e nelle ricerche spaziodinamiche orientate da Nicolas Schöffer, sfociando nei prolungamenti internazionali dell’Art visuel, del luminocinetismo e dell’OpArt. Tutte queste realizzazioni riguardano più il volume, la spazialità e i fenomeni ambientali che la superficie, e non è quasi permesso, nei loro riguardi, parlare di pittura. Parallelamente si affermarono negli Stati Uniti, durante gli anni ’60, le nuove forme e strutture della Minimal Art.

    Hans Hartung, senza titolo

    Astrattismo lirico 

    Espressione impiegata per definire in contrapposizione all’astrattismo geometrico o costruttivista, la tendenza all’espressione diretta dell’emozione individuale. Tale libertà del linguaggio visivo si era già manifestata in Kandinsky con le "improvvisazioni" e "composizioni" del suo primo periodo drammatico. La volontà dell’espressione pura e libera si affermò pure in Hartung, sin dai suoi esordi nel 1920-21. Ma fu verso il 1947, nella giovane generazione della scuola di Parigi del dopoguerra,
    che l’opposizione alle costrizioni geometriche si generalizzò; si sviluppò allora, con diversi aspetti, una forte corrente di astrattismo lirico. Vi si possono riallacciare l’itinerario amorfico dell’informale, l’espressione calligrafica della pittura gestuale e soprattutto la grande voga, del tachisme, esplosa poi nel 1954.

    Italia 

    La tendenza astratta si affermò in Italia nel corso degli anni ’30, anche se la sua prima apparizione si può scorgere nelle opere dei futuristi. Infatti già Boccioni nel 1910 formula in una lettera per la prima volta l’ipotesi di "arte astratta italiana" e, più decisamente nel Manifesto della Ricostruzione Plastica dell’Universo del 1915, Balla e Depero parlarono di stile futurista come "astrattismo complesso plastico-rumorista". Intorno al 1913 Boccioni tentò di realizzare le proprie ipotesi di resa dinamica ed emozionale dell’immagine in quadri quasi interamente non figurativi; Balla nelle Compenetrazioni iridescenti del 1912-13 raggiunse il massimo approdo in senso astratto del futurismo.
    Coeva a queste è l’esperienza di A. Magnelli che, a Parigi, iniziò una coerente ricerca non-figurativa. A partire dagli anni ’20, gli artisti del Secondo futurismo ricercarono soluzioni vicine alle tendenze astratte soprattutto nell’ambito dell’arredo e della decorazione mentre la pubblicazione di numerose riviste del movimento contribuì alla diffusione in Italia delle opere degli artisti delle avanguardie astratte.

    Giacomo Balla, compenetrazione iridescente n°4

    Ma fu soprattutto in Lombardia negli anni ’30 che maturò la tradizione astratta italiana attraverso due gruppi di artisti operanti a Como e a Milano. A Como, in sintonia con le ricerche razionaliste degli architetti Terragni, Lingeri e Cattaneo, lavorarono pittori come Rho e Radice che giunsero a notevoli risultati soprattutto nelle decorazioni di edifici. A Milano la Galleria Il Milione, dopo la prima personale astratta di Soldati, presentò nel 1934 una collettiva con opere di Bogliardi, Ghiringhelli e Reggiani che fornì l’occasione per pubblicare una Dichiarazione degli espositori considerata il primo manifesto dell’astrattismo italiano. A queste due seguirono una serie di mostre di Licini, Soldati, Veronesi, Melotti. Il Milione diventò in breve il centro delle esperienze astratte italiane, che continuarono sulla linea di ricerca del Bauhaus e del costruttivismo russo.

    La generale aspirazione a realizzare un’arte intesa come simbolo di un nuovo ordine e di una nuova razionalità senza fini illustrativi e cronachistici fu teorizzata da Carlo Belli, autore nel 1935 di KN, il primo testo teorico sull’astrattismo italiano. Intanto gli artisti operanti nell’ambito di questa tendenza trovarono sempre maggiore spazio nelle manifestazioni della cultura ufficiale e sullo scorcio del decennio riuscirono a superare la polemica esistenzialista che li oppose agli espressionisti di Corrente. Dopo il 1945 la questione dell’astrattismo si pose come questione centrale dell’arte contemporanea diventando, in breve, una componente che si oppose al discorso antitetico del realismo. Dalla fondazione del Fronte Nuovo delle Arti alla polemica suscitata dalla mostra all’Alleanza della Cultura di Bologna attraverso il manifesto di Forma 1, è un susseguirsi di eventi in cui l’alternativa astratto-figurativo investe il problema più vasto dei rapporti tra arte e società, e arte e politica.

    Il gruppo Forma 1 con:  Pietro Consagra, Mino Guerrini, Ugo Attardi,
    Carla Accardi, Achille Perilli, Antonio Sanfilippo e Piero Dorazio
    Intanto la fondazione a Roma dell’Art Club, guidata da Prampolini e indirizzata tanto sul fronte della divulgazione che della formazione dei giovani astrattisti romani, e la grande mostra Arte astratta e concreta, allestita a Milano nelle sale di Palazzo reale, furono le tappe fondamentali
    per l’articolazione della poetica astratta che risultò ancora in questa fase fortemente legata alle esperienze geometrico-razionaliste degli anni ’30. L’Art Club nel 1948 organizzò la mostra Arte astratta in Italia dove esposero insieme ad alcuni maestri degli anni ’30 i giovani astrattisti romani che andavano riscoprendo e rivalutando il futurismo. In parallelo a questi avvenimenti la capillare estensione della tendenza astratta in Italia è testimoniata dalla fondazione di numerosi gruppi operanti in diverse città e dalla ripresa a Milano, con l’appoggio del critico Gillo Dorfles, del gruppo astratto tramite la fondazione del Mac, che estende ben presto la sua influenza a diverse città italiane.

    Sul piano critico, mentre si moltiplicano gli interventi, a vari livelli, sulla polemica astratto-figurativo, Lionello Venturi nel presentare alla Biennale di Venezia del 1952 il Gruppo degli Otto parla di astratto-concreto, indicando così il superamento dell’estetica di origine neoplastica. Sullo scorcio del decennio, particolarmente significative sono le esperienze degli spazialisti a Milano, mentre a Roma venne fondato il Gruppo Origine formato da Capogrossi, Ballocco, Burri e Cagli. Questi ultimi aprirono la porta alle ricerche informali degli anni ’50, ma questa è un'altra storia.

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    Chiara Fancelli

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    Oggi vi racconto la storia di Chiara Fancelli, una donna originaria di Firenze di cui forse molti di voi non avranno mai sentito parlare. Eppure molte volte in visita a un museo o a una mostra vi sarà capitato di vederla perché lei fu prima modella poi moglie del "Divin Pittore", Pietro Perugino. Non si conosce con precisione né la data né il luogo di nascita della musa, ma si presuppone Firenze o Fiesole,  nel 1470 circa. Altro dato fondamentale è che era la figlia di Luca Fancelli, architetto e scultore, allievo e assistente del Brunelleschi e quindi è probabile che fu sempre a stretto contatto con il mondo degli artisti di fine Quattrocento.

    E non è quindi un caso che la sua bella fisionomia divenne effige per tante Madonne realizzate dal Perugino, ma anche da altri artisti, compresi suoi allievi, primo fra tutti Raffaello. E così la giovane donna sposò Perugino il 1º settembre 1493, dando alla luce negli anni successivi cinque figli, di cui tre maschi e due femmine, donando al marito una dote di ben 500 fiorini d'oro.

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    Dopo il matrimonio si trasferì a Firenze e l'immagine del suo volto, rotondo, dalla bocca stretta e dal mento che si assottigliava gradualmente divenne, dal 1494, una vera icona per l'arte del periodo. Chiara raggiunse una tale popolarità iconografica da diventare, a cavallo tra Quattro e Cinquecento, uno dei modelli di riferimento più diffusi per raffigurare la Vergine e altri personaggi femminili. E fu così che nell'arte del Rinascimento centro-italiano, sostituì l'ideale botticelliano di Simonetta Vespucci, di cui vi parlai già in questa rubrica.


    La donna rimase vedova nel 1523, dopo trent'anni esatti di matrimonio, ritrovandosi quindi a gestire la collocazione e la vendita degli ultimi dipinti di Perugino.
    Mandò una lettera a Isabella d'Este il 6 ottobre 1524, per proporre alla grande collezionista un dipinto del suo defunto marito: Marte e Venere sorpresi da Vulcano.  Ma la marchesa di Mantova declinò l'offerta, forse perché non interessata all'arte di Perugino, ormai surclassato da altri giovani e promettenti artisti.

    Pietro Perugino, Maria Maddalena
    Una delle immagini di lei che più preferisco è questo dipinto, raffigurante Maria Maddalena, realizzato da Pietro Perugino intorno al 1500 e conservato nella Galleria Palatina di Firenze. L'immagine della santa ricalca fedelmente la fisionomia di Chiara che ci restituisce una donna elegante, raffinata, ma anche semplice e severa con quel suo sguardo dalle palpebre leggermente abbassate.
    Chiara Fancelli si spense a Firenze il 21 maggio 1541 e venne sepolta nella basilica della Santissima Annunziata all'interno del chiostro dei morti, nella città che la trasformò in un'icona del Rinascimento.

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    Guillaume Apollinaire

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    Un ritratto fotografico di Guillaume Apollinaire
    Riprendo oggi la rubrica #uominiedonneillustri parlandovi di un uomo che con i suoi scritti sostenne molti artisti a lui contemporanei e che seppe rivoluzionare la poesia del XX secolo. Andiamo a vedere di chi si tratta.
    Wilhelm Apollinaris de Kostrowitsky, meglio conosciuto come Guillaume Apollinaire, nacque a Roma nel 1880. Il padre era un ufficiale italiano e la madre una nobile polacca. Inizialmente portò il nome della madre con la quale viaggiò per tutta l'infanzia, dopo aver abbandonato l'Italia, per poi stabilirsi a Parigi. Non fece studi regolari, ma fin da giovane amò la letteratura e la poesia, accumulando conoscenze e imparando benissimo alcune lingue, come un esemplare cittadino del mondo. Iniziò a lavorare come precettore in ricche famiglie, sfruttando il suo bagaglio culturale e a ventidue anni cominciò a scrivere novelle e poesie.


    Fervido ammiratore di Seurat e di Cézanne, Apollinaire si dedicò, nei numerosi articoli che scrisse a partire dal 1902, ad analizzare l’arte contemporanea in tutte le sue forme, a definire il linguaggio dei fauves, a difendere, malgrado i rischi e gli insuccessi, quello dei cubisti. Nel 1908, in occasione di una mostra di pittura moderna a Le Havre, scrisse la prefazione del catalogo: tale studio, nel quale enunciò le "tre virtù plastiche" dell’arte pittorica, verrà ripreso come introduzione al suo Pittori cubisti.

    Guillaume Apollinaire, da Calligrammes, 1915
    Da allora l’attività di Apollinaire come critico d’arte aumentò. Affascinato dall’opera di Picasso, cui sin dal 1905 dedicò un’analisi poetica del suo periodo azzurro, lodò la prima mostra di Braque, presso Kahnweiler, nel novembre 1908. Diresse lui stesso le Soirées de Paris e, attraverso l’amico André Salomon, ottenne nel 1910 la rubrica di "vita artistica" sull’Intransigeant, che perdette nel
    1914 a causa di uno screzio con Delaunay. Dopo il successo della conferenza pronunciata nel 1912 alla Section d’or, nel corso della quale battezzò e celebrò l’"orfismo" di Delaunay, l’editore E. Figuière gli affidò la direzione di una nuova collezione, Tutte le arti, dove il poeta fece apparire nel
    1913 Peintres cubistes, méditations esthétiques. Nello stesso anno scrisse per Mannetti un provocatorio manifesto-sintesi: l’Antitradition futuriste. Del 1913 è il fondamentale Alcools, raccolta delle migliori poesie composte fra il 1898 e il 1912, che rappresenta uno dei testi di poesia più importanti del secolo scorso. Quest'opera rinnovò profondamente la letteratura francese ed è oggi considerata, insieme a Calligrammes il capolavoro del poeta.


    Presentando nel 1917 Parade di Cocteau, pronunciò per primo la parola surréalisme, ripresa nello stesso anno per Le mammelle di Tiresia. Scrisse prefazioni al catalogo di una mostra del suo amico Derain, poi a un libro sull’arte negra, di Paul Guillaume, per il quale s’incaricò per breve tempo della redazione di una nuova rivista, Les Arts à Paris, e collaborò a 391, la rivista dada di Picabia. Questa abbondante attività, che la guerra e la ferita del 1916 appena rallentarono, riflette con maggiori sfumature e humor di quanto si creda, un giudizio spesso eclettico e illustra la fede che Apollinaire nutriva nell’arte, nella sua modernità e nella sua permanenza. Come scrisse ad André Breton: "Sono del parere che l’arte non muti affatto, e che quanto fa credere che muti sono gli sforzi che gli uomini compiono per mantenerla all’altezza cui non potrebbe non stare".
    Alla fine del 1918 si ammalò di influenza spagnola; venne trovato in stato d'incoscienza, e probabilmente già morto, il 9 novembre dello stesso anno.

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    Apparati, addobbi e ornamenti. Tutto quello che serve per una festa!

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    Vincenzo Borghini, apparato per le nozze di Francesco de’ Medici e Anna d’Austria
    No, non sono impazzito, oggi vi voglio parlare degli "apparati". Perché? vi chiederete voi, di che si tratta? Gli apparati sono molti frequenti nella storia italiana soprattutto a partire dal XVI secolo e stanno a significare, addobbi, ornamenti, paramenti e in generale tutto ciò che serve ad abbellire una festa, uno spettacolo e simili. In anni recenti, le grandi decorazioni effimere che intorno al XVI secolo si diffusero nelle principali città europee hanno suscitato sempre più l’interesse di storici dell’arte e del teatro. Si sono potuti così identificare varie funzioni, una tipologia, un repertorio iconografico, uno sviluppo proprio degli apparati festivi nella storia delle città: dalle primitive semplici decorazioni tardomedievali, alle elaboratissime invenzioni manieristiche e barocche, dalle più ridondanti soluzioni rococò e neoclassiche, alla progressiva e inesorabile involuzione, fra Otto e Novecento, quando la rivoluzione industriale affermò nuovi e più diffusi sistemi di comunicazione stravolgendo l'uso dello spazio e del tempo nelle città.

    Gli apparati si manifestarono tramite un linguaggio proprio, una serie di moduli architettonici, figurativi e plastici, realizzati in materiali provvisori, sovrapposti ai monumenti della città reale, animati da una serie di eventi gestuali, sonori, d’ingegneria meccanica o pirotecnica, illustrati da un apparato verbale che dai cartelli scritti, ai discorsi, alle successive relazioni a stampa spiegò e divulgò forme e significati, ben oltre lo spazio e il tempo della festa. Ecco allora che una città irreale e fantastica viene componendosi nel tempo, di apparato in apparato, di festa in festa, sopra la città reale, disegnando topografie ideali e utopie progettuali, di fatto condizionando e segnando lo sviluppo effettivo dello spazio urbano e del suo arredo.

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    Il modello originario e più divulgato di celebrazione è la processione, il corteo, che in occasione di eventi religiosi o civili percorre la città descrivendo un circuito simbolico dentro le mura. Certo è da questo prototipo cerimoniale e dai primi addobbi con drappi preziosi e con baldacchino liturgico, che si svilupparono le principali tipologie di apparati. Elementi architettonici posticci sovrapposti agli edifici in pietra illustrarono i principali nodi urbani, apparati fissi o semoventi si schierarono lungo il percorso. Nel modello più antico, gruppi umani in costume animano le strutture con quadri viventi o improvvise apparizioni volanti. furono in particolare gli ingressi in città dei sovrani a stimolare una sempre più elaborata organizzazione di addobbi e un insieme sempre più articolato di apparati. Tutte le arti e i mestieri parteciparono all’impresa, il programma fu spesso di un uomo di lettere, la regia di un grande artista di corte.

    Un pageant utilizzato nel Ciclo di Chester

    Nel Cinquecento il modello è ormai sviluppato e nel 1565 Vincenzo Borghini, letterato fiorentino esperto di feste, in occasione delle nozze di Francesco de’ Medici e Anna d’Austria analizzò tutte le diverse tipologie creando il modello classico che da quel momento verrà usato in Italia. L’arco trionfale è per Borghini l’apparato preferito, del tutto bandita è la presenza di "persone vive e vestite e abbigliate in abito di virtù etc. che pàr magra invenzione". La fissità di tele dipinte e statue di gesso prevale sulla combinazione di quadri viventi e azioni mimiche che nei paesi del Nord segnalava un più vivace scambio d’interessi fra autonomie cittadine e poteri sovrani (i pageants inglesi per le incoronazioni, i palchi, le fontane, i castelli animati in Francia e Paesi Bassi).

    Andrea Mantegna, particolare con arco di trionfo degli affreschi
    della cappella Ovetari
    Il ricordo dell’antico trionfo romano è presente in Italia già dal XIV secolo (1326, Ingresso di Castruccio Castracane a Lucca); splendidi archi e carri trionfali compaiono in opere letterarie (Boccaccio, Petrarca), figurative (Laurana, Mantegna, Piero della Francesca) e dell’effimero urbano secondo un tipico processo di propagazione culturale e di scambio. Fra Roma e Firenze ai primi del Cinquecento si afferma il modello del corteo principesco, come Possesso della città, Ingresso (famoso quello di Leone X a Firenze nel 1515 con apparati di Andrea del Sarto, Jacopo Sansovino, Piero di Cosimo, Antonio da Sangallo e Pontormo), anche come Mascherata in costume che evoca le vittorie degli antichi imperatori o le Genealogie degli Dei Gentili (ideatore a Firenze ancora il Borghini insieme con Vasari nel 1565).

    Anonimo, corteo papale a piazza del Campidoglio
    per il possesso di Alessandro VII
    Il primo grande monarca dell’epoca moderna, Carlo V sovrano del Sacro Romano Impero, nei numerosissimi viaggi propaga e impone questo modello in ogni nazione.
    A Roma l’imperatore giunse nel 1536 e Paolo II gli offrì in omaggio l’antico percorso stesso della Via Triumphalis: apparati sono i monumenti stessi, i ruderi dell’antichità, per l’occasione liberati dalle sovrastrutture medievali (ordinatore degli allestimenti è Antonio da Sangallo). Più di duecentocinquant’anni dopo, ai tempi della repubblica romana, la città offrì un simile omaggio a rivoluzionari capitolini e truppe francesi rinnovando nel Foro Boario e nelle grandi piazze i fasti consolari: gli apparati neoclassici di Bargigli e Camporesi tendono allora ad occultare le architetture cattoliche e barocche. Il modello questa volta si è perfezionato a Parigi, con gli altari della patria e le figurazioni classiche che Louis David ha inventato per le prime feste della rivoluzione.

    Dominique Barrière, addobbo in piazza Navona per la Pasqua del 1650
    Roma antica e i suoi monumenti s’impongono quindi all’immaginario collettivo in tutta Europa, alimentando i nuovi sogni imperiali dei Valois (nel 1548 l’Entrée di Enrico II a Lione è già classicheggiante), degli Stuart, dei Borboni, degli Asburgo, di Napoleone, della Restaurazione. L’epoca barocca segnò il trionfo dell’effimero urbano. Stupefacenti e ben noti a Roma gli apparati allestiti da artisti come Bernini, Schor, Rainaldi, Fontana. A Parigi, le feste pubbliche del Re Sole hanno per coordinatori Vigarani, Bérain, Le Brun. Anche le occasioni si moltiplicarono: esequie, nascite regali, canonizzazioni e vittorie. Spesso un evento risuonò di città in città, di nazione in nazione, di festa in festa. E ovunque, in ogni stile e per ogni fine ideologico, la macchina festiva inscena un repertorio quasi stabile di figurazioni mitologiche o religiose, di emblemi e personificazioni. Sopra supporti stabili o posticci in grandi spazi aperti, con tecniche di assemblaggio vicine a quelle dell’oreficeria, dell’arte del mobile e del giardino, si accumulano piramidi, obelischi, gradini, colonne, statue, cartelli, fregi, quadri, pitture monocrome, finti marmi, montati a comporre una gigantesca scenografia urbana.

    Giovanni Niccolò Servandoni, macchina per i fuochi d'artificio
    È una "città regia" quella che nei disegni, nei quadri, nelle incisioni rimasteci appare, una visione illusionistica molto vicina a quella che nel chiuso dei teatri presenta la scena tragica, nella versione mutevole e fantastica propria del melodramma. Anche l’apparato urbano sempre più si drammatizza
    con l’apporto della musica e del fuoco: nel Settecento il gioco pirotecnico trionfa e la macchina architettonica splendente è destinata spesso ad animarsi bruciando, unendo le due scene (la festa e il teatro) come in un gioco di scatole cinesi. Esemplari le macchine di Servandoni per Luigi XV e gli apparati annuali a Roma per le feste della Chinea disegnati da artisti come Valvassori, Specchi, Le Lorrain, e Posi.

    Ippolito Caffi, la girandola a Castel Sant'Angelo
    Fra neoclassicismo, eclettismo e accademismo si consuma l’arte dell’addobbo, dell’apparato scenografico, delle architetture pirotecniche nell’Ottocento. A Roma operano Valadier, P. Camporesi il Giovane, Poletti, Vespignani, Erzoch e Moretti. Scenari operistici s’innalzano per le "Girandole"
    al Pincio, a Castel Sant’Angelo (di volta in volta restituito alla sua forma antica o camuffato da tempio cristiano, cinese, ecc.), al Gianicolo. Poi, anche in Italia la tradizione si estinse. Ma ancora nel nostro secolo un ultimo programma imperialistico ricorre al mito di Roma antica, si richiama alla tradizione degli apparati civili con la pretesa di reinventare un’arte perduta. Nel 1942 l’VIII Triennale delle arti decorative dedicò una sezione alle Architetture delle cerimonie per una "rievocazione documentaria e spettacolare del modo di apparare italiano" (curata da Rava, Ulrich e Vaj). Vi si predicò il nuovo stile razionalistico e, dichiarato obsoleto il repertorio visivo della festa, si progettarono puri ritmi di forme e di colori in grado di vibrare all’unisono con il cuore oceanico delle folle. Ma gli autori stessi riconobbero che l’architettura delle cerimonie trovò in epoca moderna un rifugio estremo nell’allestimento di padiglioni espositivi, di apparati per mostre, di scenari pubblicitari. Se in anni recentissimi poi, una pratica dell’effimero ha percorso le nostre città, nuovi supporti cinematografici ed elettronici hanno definitivamente sostituito l’antico decoro degli apparati. Ma ancora a Roma, nel 1979, il gigantesco schermo per il Napoléon di Gance s’innalza fra il Colosseo e l’arco trionfale di Costantino, in un evento culturale entrato nella storia della città.

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    La tomba di Tutankhamon, testimonianza unica dell'arte egizia

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    Oggetti e suppellettili trovati accatastati nella camera della tomba già visitata dai ladri
    La scoperta della tomba del faraone Tutankhamon si dovette a un archeologo inglese, Howard Carter, sostenuto da un mecenate intelligente e paziente, lord Carnarvon. Molti archeologi prima di Carter avevano setacciato palmo a palmo la Valle dei Re, una gola rocciosa non lontana da Luxor, inaugurata come sepolcreto da Tuthmosi I (morto nel 1518 a.C.), trovando una sessantina di tombe saccheggiatissime.
    Carter continuò a scavare per sei inverni, sgomberando una quantità impressionante di detriti. Nel novembre del 1922, quando stava ormai per abbandonare le speranze e l'impresa, anche perché il finanziatore si era stancato di spenderci soldi, ebbe finalmente successo.

    La tomba era già astata visitata dai ladri, che però, forse disturbati, erano scappati a gambe levate lasciando molte cose sottosopra. Le autorità della necropoli avevano poi rimesso i sigilli alle porte che davano accesso ai vari locali.
    Carter descrisse il grande evento con parole esaltanti. Nessuno nella storia degli scavi aveva mai visto uno spettacolo meraviglioso come quello che gli si era offerto. Una quantità incredibile di oggetti, il cui sono inventario richiese un tempo lunghissimo, che dovettero essere in parte sottoposti a un trattamento conservativo sul posto, prima di poter essere trasportati.

    trono in legno intagliato e rivestito in oro
    C'erano letti, catafalchi, sarcofagi, carri, cofani, un trono, statue divine, umane, animali, armi, arnesi, gioielli e via dicendo. In breve, di che colmare un'ala su un piano del Museo del Cairo. Una parte degli oggetti erano in un ottimo stato di conservazione, una parte ridotti molto peggio. Grande la varietà degli stili: accanto a pezzo sobri e lineari, altri sfarzosi e sovraccarichi di ornamenti. Nonostante questa diversità stilistica, il corredo della tomba di Tutankhamon contribuì a testimoniare che la restaurazione politica e religiosa di Akhenaton non implicò un ritorno dell'arte ai modi del passato. L'esperienza amarniana non andò perduta, ma continuò anzi a dare i suoi frutti.
    Presente nel corredo anche il ferro, di lavorazione locale ma di provenienza quasi sicuramente ittita, sotto forma di una daga e di due amuleti. Il ferro era conosciuto in Egitto già sul finire del quarto millennio, ma lo si era usato pochissimo, solo per oggetti ornamentali. Si cominciò a utilizzarlo di più proprio con Tutankhamon.
    Una descrizione anche sintetica del contenuto della tomba richiederebbe molte pagine. Limitiamoci a un paio di oggetti famosissimi.

    sarcofago interno di Tutankhamon
    Uno è il trono di legno scolpito rivestito in oro, le cui gambe sono in basso zampe leonine e in alto recano due musi di leoni. Cobra alati decorano i pannelli dei braccioli. Ma l'elemento che più attrae è lo schienale, la cui parte interna reca intagliata la figura del re e della regina in vesti da cerimonia sormontati da un sole rappresentato secondo l'iconografia amarniana, un disco da cui partono raggi che terminano come mani. Il manufatto risale dunque a un momento in cui non era ancora operante la censura alla dottrina di Akhenaton. Il re è seduto e la regina lo sta aspergendo con un unguento, che attinge da un vaso sorretto dalla mano sinistra.

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    Un altro oggetto di grande suggestione è il sarcofago del re, o meglio, il sarcofago più interno di una serie di quattro incastrati l'uno nell'altro. Lungo 1,85 metri e spesso 8 millimetri, era d'oro massiccio. La mummia era avvolta da resina profumata e da un sudario di lino. Il sarcofago raffigurava il faraone come Osiride, con nelle mani gli emblemi del dio, il pastorale e il flagello. La mummia regale si presentò agli archeologi con il volto e le spalle coperte da una magnifica maschera d'oro con intarsi blu. Sul sarcofago e addosso alla mummia, fra le bende che la stringevano, fu ritrovata una serie di oggetti preziosi: oggetti d'uso personale, collari, collane, pendagli, braccialetti, anelli e amuleti. Per esempio, i braccialetti erano trenta, gli anelli quindici.
    Uno straordinario campionario d'arte che testimonia il livello raggiunto dagli egizi nella produzione di manufatti artistici.

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    Alla scoperta dello splendore millenario dell’Antico Egitto a Bologna

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    Al Museo Civico Archeologico di Bologna fino al 17 luglio 2016 c’è la possibilità di godersi uno splendido viaggio attraverso tre millenni di cultura egizia. La mostra “Egitto. Splendore millenario” ci accompagna infatti, attraverso le sue stanze colorate, dal Periodo Predinastico all’Epoca Romana di questa antica e grandiosa civiltà. Ogni singolo reperto ci trasporta al di là del tempo e ci fa rivivere un pezzetto della vita quotidiana di uomini e donne di allora; non solo faraoni, ma anche scribi, funzionari, condottieri, sacerdoti, cantori.

    La maggior parte degli oggetti esposti proviene da corredi funerari. Come mai quelli degli Antichi Egizi erano così ben forniti? Questo popolo credeva che nell’Oltretomba cominciasse, per il defunto, una nuova vita, del tutto simile a quella vissuta sulla Terra. Dopo la morte, il defunto avrebbe dunque avuto bisogno di utensili, cibo, capi di abbigliamento e arredamento uguali a quelli che aveva usato in vita: tutti questi elementi venivano così deposti nella tomba, e sono giunti fino a noi.
    Vediamo ora nel dettaglio dieci di questi oggetti, alcuni tipici della vita quotidiana, altri più strettamente correlati al rito funebre.


    1 – le tavolozze per i cosmetici. Queste deliziose tavolozze servivano per poter miscelare le sostanze coloranti da applicare sul volto, in modo da delineare con colori scuri gli occhi e le sopracciglia e colorare di rosso le gote e le labbra. Come vediamo, possono essere zoomorfe (troviamo ad esempio una tartaruga o un pesce) oppure… scutiformi, ovvero a forma di scudo. Come mai uno scudo tra questi strumenti di impiego, all’apparenza, solo femminile? La risposta è semplice: mentre oggi il make-up è perlopiù un affare da donne, nell’Antico Egitto anche gli uomini si truccavano (o meglio, si facevano truccare, specie se altolocati) per migliorare e rendere più altero e autorevole il proprio aspetto. I make-up più elaborati e magnificenti spettavano, ovviamente, ai faraoni.


    2 – le extension. Proseguendo nel settore bellezza & cosmesi troviamo anche… delle extension. Ebbene sì, gli Antichi Egizi non se le facevano mancare, e, per realizzare acconciature ricche e sontuose, aggiungevano ciocche di capelli veri, come questa, ai propri capelli. Negli anni, gli archeologi hanno rinvenuto numerosi corpi mummificati con ciocche di capelli posticce ancora sulla testa, spesso annodate in treccine. Per comprendere meglio l’importanza dei capelli per gli Egizi non dimentichiamo che, per ottenere un’acconciatura ancora più voluminosa, ricorrevano frequentemente alle parrucche.


    3 – la tavola per le offerte. Questa splendida tavola è in alabastro. È riccamente decorata e ricoperta di disegni e scritte: sono vere e proprie istruzioni su come effettuare le offerte rituali di cui ha bisogno il defunto. Notiamo in particolare, al centro, una forma di pane stilizzata posata su un tavolo, simbolo del concetto stesso di “offrire”; in basso, una brocca e due ciotole, rappresentate come viste dall’alto. Nei riti sacri nulla doveva essere lasciato al caso.


    4 – il gioco del serpente arrotolato. A che giochi giocavano gli Antichi Egizi? Uno dei loro preferiti era quello qui riprodotto: il Mehen, ovvero il “gioco del serpente arrotolato”. Sembra un gioco da tavolo molto carino ma, a differenza della tavola per le offerte, per questo non sono rimaste istruzioni per l’uso. Tuttavia, viste le scanalature che foggiano le spire del serpente, si è ipotizzato che i giocatori facessero rotolare delle biglie lungo la spirale; il vincitore era chi faceva arrivare per primo la propria biglia al centro, vicino alla testa del rettile.


    5 – i poggiatesta. In Paesi caldi e umidi come quelli africani un morbido cuscino non è il supporto migliore per agevolare il sonno. Gli Antichi Egizi avevano risolto il problema progettando questi raffinati poggiatesta, abbelliti da profili di colonne. La mezzaluna del poggiatesta era posta tra nuca e spalle, in modo da sostenere il capo durante il sonno, senza accaldarlo. Troppo scomodi? Per garantire un minimo di comfort, gli Egizi li rivestivano con più giri di stoffa.


    6 – la falsa porta. A cosa poteva mai servire una porta finta? Questo oggetto ci riporta nella sfera del sacro: era infatti un elemento architettonico delle tombe egizie, con funzione simbolica. La falsa porta rappresentava il passaggio dell’anima del defunto dal regno dei vivi a quello dei morti, o comunque il punto di congiunzione tra i due regni, che restavano sempre comunicanti.


    7 – l’Ushabti. L’Ushabti è “colui che risponde”. Queste statuette, indispensabili in ogni corredo funerario, rappresentavano gli individui che avrebbero sostituito il defunto nel lavoro dei campi dell’Oltretomba. L’Oltretomba, infatti, era immaginato come una distesa di campi coltivati ricchi di messi. Il defunto doveva impegnarsi a coltivarli: se non in prima persona, attraverso i suoi sostituti Ushabti. Ecco perché i faraoni e i defunti più ricchi possedevano corredi funerari contenenti decine, se non centinaia, di Ushabti: il loro lavoro sarebbe stato ancora più produttivo e si sarebbero così assicurati la benevolenza degli dèi. Per dare vita agli Ushabti, si dovevano recitare le formule magiche contenute nel “Libro dei morti”: una volta attivi, avrebbero potuto rispondere prontamente alla chiamata al lavoro.


    8 – lo Scarabeo. Questo monile, che sembra solo un raffinato gioiello, era, in realtà, un potente amuleto. Infatti, lo Scarabeo costituiva per gli Egizi una rappresentazione della divinità solare, denominata Khepri e rappresentata con corpo di uomo e testa di scarabeo. Qui ci troviamo in presenza di uno Scarabeo del cuore, ovvero un amuleto di uso funerario che veniva posto sul petto del defunto imbalsamato. La potenza dell’amuleto dava al defunto la forza di superare le insidie dell’Oltretomba.


    9 – i vasi canopi. Questi vasi, i cui sigilli possiedono il volto di divinità, servivano a contenere gli organi estratti dal defunto durante il processo dell’imbalsamazione. I vasi canopi erano quattro, uno per ogni organo estratto: fegato, polmoni, intestino e stomaco. Il cuore, invece, era lasciato al suo posto, poiché considerato sede della forza vitale dell’individuo. Infine, il cervello non veniva conservato, in quanto considerato privo di funzioni vitali.


    10 – gli strumenti musicali. Gli Antichi Egizi possedevano vari tipi di strumenti musicali: a corde (lira, liuto, arpa), a fiato (flauto), a percussione (crotali). In figura vediamo a sinistra una coppia di crotali, ovvero uno strumento a percussione dal funzionamento simile alle nostre nacchere o castagnette. Questi crotali sono foggiati con protome hathorica, ovvero con un’estremità che riproduce le sembianze della primigenia Hathor, dea dell’amore e delle arti, della musica, del canto. A destra vediamo invece due sottili flauti, uno a quattro e l’altro a tre fori.

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    Potete vedere da vicino tutti questi affascinanti oggetti, insieme a tantissimi altri, nell’esclusiva esposizione temporanea al Museo Civico Archeologico di Bologna, che ha unito la propria collezione egizia alle meraviglie del Museo Nazionale di Antichità di Leiden, del Museo Egizio di Torino e del Museo Egizio di Firenze. Avete ancora circa due mesi di tempo per visitarla! Il percorso è ricco e ben articolato, accompagnato dall’audioguida compresa nel biglietto, e adatto anche per i bambini, che possono usufruire di un’audioguida apposita. Insomma, mostra caldamente consigliata! E voi, l’avete già vista? Quali oggetti vi hanno colpito di più? Fateci sapere!

    Arianna Capirossi per Artesplorando

    Mi chiamo Arianna Capirossi, ho studiato Lettere all'Università di Bologna e sono attualmente iscritta al Dottorato di Letteratura italiana del Rinascimento all'Università di Firenze. Da sempre appassionata di arte e letteratura, mi interesso di divulgazione culturale e per questo mi adopero per garantire la promozione del nostro patrimonio artistico soprattutto (ma non solo) online.

    Facce da Blogger 2.0

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    A marzo 2015 Artesplorando partecipò a un bellissimo progetto fotografico, di cui vi parlai QUI, che oggi trova una sua interessantissima continuazione in Facce da Blogger 2.0.
    E così sabato 21 maggio alle ore 18.00 inaugura nella settecentesca dimora di Casa Toesca a Rivarolo Canavese in provincia di Torino la nuova mostra di fotografie di Elena Datrino presso la galleria Areacreativa42.

    La mostra, che si svolgerà fino al 26 giugno, nasce da un'idea di Elena Datrino, artista e fotografa e di Tiziano M. Todi, gallerista, per dare un volto ai molti blogger che animano il web. E proprio le facce di 62 noti blogger italiani, tra cui anche il sottoscritto, sono i protagonisti del percorso espositivo. Per ogni blogger Elena Datrina ha creato un set fotografico capace di catturare la personalità e le peculiarità di ciascun personaggio.
    Il progetto è stato presentato per la prima volta lo scorso anno alla Galleria Vittoria di Roma, con una prima selezione di 30 blogger. Il grande successo dell’esposizione romana gli è valsa, per le ultime due edizioni, la partecipazione ad Affordable Art Fair a Milano con il supporto di Warsteiner, sponsor tecnico.

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    Arricchendosi di nuovi ritratti, la mostra che inaugura a Casa Toesca avrà un forte richiamo nazionale incrementato attraverso il web, luogo di interazione per eccellenza dei blogger. Durante il periodo di apertura della mostra saranno inoltre organizzati eventi paralleli che coinvolgeranno i blogger e gli sponsor del progetto.
    Le fotografie, che sono state raccolte in un catalogo con traduzione in inglese edito da Lizea Arte Editore, sono accompagnate da didascalie che raccontano attraverso le parole dei blogger o quelle da essi riferite, il loro ambito di specializzazione o il loro modo di essere.
    Un evento da non perdere!

    Per maggiori info

    www.facebook.com/faccedablogger/
    www.areacreativa42.com
    www.galleriavittoria.com
    www.elenadatrino.it





    La Danae di Correggio

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    Correggio, Danae, 1530
    L’opera fu dipinta da Antonio Allegri, meglio conosciuto come Correggio, dal nome del paese della pianura Padana, nel nord Italia, dove nacque nel 1489. Il dipinto prima di giungere a Galleria Borghese conobbe traversie molto interessanti da ripercorrere. Il quadro fu commissionato da Federico II Gonzaga, signore di Mantova e doveva far parte di una serie dedicata agli amori di Giove da donare a Carlo V in occasione della sua incoronazione come imperatore a Bologna, nel 1530.

    L’opera rimase a Mantova fino alla metà del XVI secolo, poi fu venduta nel 1603 all'ambasciatore dell’imperatore Rodolfo II; passò a Stoccolma come bottino di guerra nel 1652 e in seguito fu portata a Roma da Cristina, regina di Svezia; infine arrivò a Parigi nel 1721 dove fu comperata sul mercato antiquario da Camillo Borghese. C’è da stupirsi che sia ancora tutta intera.
    Il dipinto rappresenta un episodio del poema le Metamorfosi del poeta romano Ovidio: Danae, figlia di Acrisio re di Argo, venne rinchiusa dal padre in una torre di bronzo perché un oracolo aveva predetto che Acrisio sarebbe stato ucciso da un suo nipote. Correggio coglie il momento in cui la giovane donna si congiunge a Giove trasformato in pioggia d'oro per raggiungerla nella torre. Dalla loro unione nascerà Perseo.

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    L’artista pone al centro della scena il letto su cui è languidamente adagiata Danae, dalle forme burrose e dalla pelle candida. Un giovane cupido scosta delicatamente il lenzuolo per permettere alla pioggia dorata, proveniente dalla nuvola nel centro della stanza, di fecondare Danae. Ai piedi del letto due amorini, uno con le ali e l’altro senza, testano la resistenza di due frecce, che rappresentano l’amore, su una pietra. I due amori che simbolicamente mettono alla prova sono quello fisico e quello spirituale. Quale dei due resisterà di più?


    Tutto è ambientato in una stanza che potrebbe tranquillamente essere una camera da letto di un palazzo rinascimentale italiano. L’ambiente si apre a sinistra con un’ampia finestra dalla quale scorgiamo un paesaggio nel quale spunta un edificio non finito. L'atmosfera della scena è intima e serena, i colori sono caldi e vibranti, le ombre leggere e sfumate. Lasciatevi quindi trasportare nella morbida sensualità dell’opera di uno dei più grandi artisti del Cinquecento.

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