Oggi vi metto al corrente di una grande novità che riguarda Artesplorando e Patreon, una piattaforma on-line che consente ai creatori di contenuti come me di finanziarsi. Chi mi segue da tempo sa che il mio obiettivo fin da subito è stato quello di diffondere la conoscenza della storia dell’arte, facendolo a modo mio, in maniera libera e indipendente. Non ho mai realizzato un post o un video commissionato da musei, istituzioni o mostre, a fini commerciali o pubblicitari. Questo perché voglio avere le mani libere per scrivere e affrontare gli argomenti che credo possano aiutare meglio a diffondere la conoscenza dell’arte. Argomenti che possano piacere e soddisfare la vostra voglia di conoscenza.
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Un mezzo per continuare a diffondere arte
Perciò Patreon non è altro che un mezzo per continuare a diffondere e a divulgare la conoscenza dell’arte e della sua storia in rete.
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Teodoro Wolf Ferrari. La modernità del paesaggio è la protagonista della mostra di Palazzo Sarcinelli a Conegliano. La rassegna curata da Giandomenico Romanelli con Franca Lugato, vuole indagare alcuni ambiti e quindi alcuni autori, meno noti della storia dell’arte italiana. E lo fa a partire da Wolf Ferrari. Le opere scelte, settanta in tutto, vogliono quindi metterci a contatto con l’intero percorso creativo dell’autore. Inizia i suoi studi all’Accademia delle Belle Arti di Venezia, dal 1891 al 1895 con Guglielmo Ciardi e Pietro Fragiacomo, assorbendo specialmente dal primo, l’importanza riconosciuta all’equilibrio formale e strutturale dell’opera.
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Si trasferisce poi a Monaco di Baviera dove fa propria la cultura delle Secessioni confrontandosi con le tendenze mitteleuropee; una particolare sezione della mostra è dedicata al tema della tempesta, tra cui Paesaggio notturno, Bufera, Notte, Danza macabra. La rassegna testimonia anche il ritorno di Wolf Ferrari a Venezia, con l’assimilazione delle sue novità, fino alle delicate passeggiate autunnali dal Grappa al Piave. Ci sono pittori che hanno bisogno di un territorio vitale. Una zona del bello che si materializza in una patria estetica, raggiungendo quella densità di senso svincolata dal semplice percepire. I poeti, “api dell’invisibile” li definisce Rilke, e gli artisti alludono a qualcosa di non scontato.
A significati emozioni visioni non focalizzabili una volta per tutte. Così Gino Rossi riesce a percepire lo stato di beatitudine nell’isola di Burano. Monet deve costantemente confrontarsi con gli agglomerati lungo le rive della Senna: Vétheil, Vernon, Giverny. Teodoro Wolf Ferrari, ha rinominato la realtà di quel paesaggio che ne ha accompagnato l’esistenza e la crescita culturale. In particolare, San Zenone degli Ezzelini, la cittadina trevigiana dove trascorre le vacanze. Il legame intenso che si viene a creare motiva la sua scelta definitiva. Vi rimarrà fino alla morte.
Mario de Maria: Bremen 1904
Volendo entrare nel merito di alcune sue opere, se ne possono scegliere due, confrontandole con quelle dei pittori con i quali ha dialogato. Si può iniziare con la tela Bremen del 1904 di Mario De Maria. E accostarla alle Betulle di W. Ferrari del 1913. In entrambe c’è una chiara propensione per il vero. Il voler catturare la natura senza erosioni formali che ne sgretolino la connotazione. Però l’immagine che l’occhio percepisce come sensazione, viene rielaborata. Si trasforma in un’immagine mentale. Perché il vedere dell’artista è sempre un vedere intellettuale. Le consonanze finiscono qui. In De Maria sono due i protagonisti del paesaggio che si dividono la scena: i tronchi in primo piano e le case, campanile compreso, sullo sfondo.
Bocklin: Isola dei morti
Senza che fra loro ci sia contrapposizione. Immersi in un’atmosfera sicuramente autunnale con chiari rimandi impressionistici. Specialmente nei tocchi di pennello non sovrapposti che disegnano le foglie e gli arbusti che circondano la base degli alberi. Le Betulle di W. Ferrari dominano incontrastate lo spazio innestate saldamente sulla cima di una collinetta. Per un effetto voluto dall’artista i quattro alberi in risalto, resi mediante colori perlacei intersecati da tonalità più scure, vogliono condividere l’orizzonte con un cielo striato di grigio/azzurro che sembra vicinissimo. Sono forme naturali che significano più di quanto letteralmente rappresentano. Il paesaggio diventa il canale privilegiato per convogliare messaggi esistenziali e onirici. Uno potrebbe essere il senso di gelida solitudine che emerge dal dipinto. Accettata senza rimpianti.
T. Wolf Ferrari: L’isola misteriosa 1917
Una considerazione, la latenza del messaggio, che acquista maggiore rilievo nell’olio su tela del 1917 L’isola misteriosa. L’opera potrebbe essere accostata ad una delle cinque versioni de L’isola dei morti di Böcklin, la misteriosa e affascinate isola sospesa nell’acqua, entrata a far parte dell’immaginario collettivo. Fonte di ispirazione per molti artisti, da De Chirico a Dalì, non ha lasciato indifferente Wolf Ferrari. Nelle due opere è predominante la verticalità del bosco dei cipressi simbolicamente associati al cimitero e al lutto. E l’atmosfera misteriosa e ipnotica in cui sono immerse. Ma se lo specchio d’acqua che circonda l’isola di Böcklin è rigido e livido, quasi fosse una lastra tombale, quello di Wolf Ferrari è più mosso. Più “naturale” nel riflettere i grumi rosati della nuvola che cattura gli ultimi raggi di un sole al tramonto. Se di cimitero si tratta, è meno angosciante di quello mistico di Böcklin.
Fausto Politino
Laureato in filosofia, iscritto all’ordine dei pubblicisti di venezia e già collaboratore del Mastino di Padova. Ora scrivo per la Tribuna di Treviso. Potete seguirmi su Twitter: PolitinoF.
La mostra
Palazzo Sarcinelli Conegliano (TV). Dal 2 febbraio al 24 giugno 2018 Orari: martedì-giovedì 9/18. Venerdì-domenica 10/19.
Per chi ama la scultura e le sue molte facce, in questo periodo il territorio articola proposte davvero interessanti. Dalla torsione dei corpi di Bernini all’estetica del singolo di Rodin. Dalla sintesi formale di Arturo Martini alla pura ricerca spaziale di Marino Marini.
Galleria Borghese
Per festeggiare i vent’anni di vita della romana Galleria Borghese, è stata realizzata la mostra dedicata a Gian Lorenzo Bernini, (1598-1680) grande scultore del Barocco. Tra i molti meriti che la rassegna può accampare vale la pena segnalare la presenza della prima santa prodotta dall’autore, Santa Bibiana. Patrona degli epilettici e dei malati psichiatrici. Realizzata in marmo bianco, tra il 1624 e il 1626, su commissione di Urbano VIII. Opera giovanile dunque ma dove già si nota, insieme al virtuosismo degli abiti e dei capelli, il rapimento estatico del volto e del gesto. Uno dei curatori della mostra Andrea Bacchi (l’altra è Anna Coliva) sottolinea “le dita della mano destra, allargate sospese in aria, un vero miracolo tecnico”.
Museo di Santa Caterina
Chi ha tempo e passione Treviso, al Museo di Santa Caterina, dal 24 febbraio al 23 giugno 2018, suggerisce al visitatore i capolavori di Auguste Rodin (1840-1917). Per chi vuole saperne di più il blog propone “La porta dell’inferno” dello stesso Rodin. Sono state selezionate cinquanta sculture e venticinque opere su carta. Tra le prime saranno presenti tutti i capolavori più noti dello scultore. Dal Bacio al Pensatore, al Monumento a Balzac, all’Uomo dal naso rotto, all’età del bronzo, sino alle maquette, spesso comunque di vasto formato, delle opere monumentali. Il Bacio del 1885 è una delle immagini più note d’amore nella storia dell’arte. Il gruppo scultoreo è realizzato ricorrendo al fare artistico del non finito di Michelangelo.
Auguste Rodin, il pensatore
I due innamorati, probabilmente Paolo e Francesca, emergono da una ruvida massa marmorea. I protagonisti nudi sembrano cercare la fusione. Come se si appartenessero da sempre. Muscoli protesi. Mani che si inabissano nella carne. Braccia che avvolgono i corpi. Nel Pensatore del 1880 non è difficile individuare il modello di riferimento: la figura del Pensieroso scolpita da Michelangelo per la tomba di Lorenzo dei Medici collocata nella Sagrestia Nuova della basilica fiorentina di San Lorenzo. Ancora un soggetto nudo che dovrebbe essere il simbolo dell’uomo che riflette sul proprio destino. Credo che Rodin abbia voluto manifestare lo sforzo anche fisico che il pensare implica. L’opera è spesso usata per incarnare la filosofia.
Arturo Martini, fanciulla piena d’amore
Museo Civico Bailo
Treviso offre ancora, sempre dal 24 febbraio al 23 giugno, al Museo Civico Bailo l’occasione per accostarsi o rivedere i lavori di Arturo Martini (1889-1947). Giudicato uno dei più grandi scultori del 900. Il museo ospita in permanenza 140 opere tra terracotte gessi sculture in pietra, bronzi, opere grafiche, pitture e ceramiche. La sua poetica si può riassumere in quattro punti:
Rivalorizzare la figura nella scultura moderna.
Affiancare a quella tradizionalmente eretta, la scultura che assume posizioni diverse. Fino a distenderla nel vuoto.
Semplificarla la scultura, cercando l’essenzialità prossima al sasso, propria dell’arte primitiva.
Ridarle volume lavorando su impostazioni naturali e semplici.
Ce l’ha fatta l’artista trevigiano a passare dalla potenza all’atto? A creare secondo le proprie intenzioni? Vediamo se è riuscito a sconvolgere i canoni della tradizione plastica. Martini scolpisce la testa della Fanciulla piena d’amore nel 1913.
Arturo Martini, donna che nuota sott’acqua
Il suo scopo è ridare solennità alla struttura della statua eliminando eccessivi ingombri veristi. A favore di una certa eleganza liberty. Nell’impostazione cilindrica del collo e nella riduzione all’essenziale dei tratti fisionomici, realizza un’originale rielaborazione della scultura greco/arcaica. Ora attraversiamo velocemente il tempo a arriviamo al 1942 e ci fermiamo davanti alla Donna che nuota sott’acqua. Secondo Nico Strinca “la scultura più importante del secolo”. Dell’opera abbiamo un bozzetto in bronzo che poi Martini trasferisce nel marmo bianco di Carrara. Quando finisce la scultura elimina la testa dal tronco. Per vari motivi. Allontanarsi da ogni forma di naturalismo. Esaltare la pura compatta scansione delle masse che denotano la scultura. Confrontarsi con la statuaria classica le cui opere ci sono spesso giunte acefale o mutilate.
Marino Marini, l’angelo della città
Collezione Peggy Guggenheim
A questo punto se non siamo stanchi e la voglia di guardare scultura è sempre viva, non ci rimane che andare a Venezia. Alla Collezione Peggy Guggenheim. Fino al primo maggio è aperta la mostra “Passioni visive”. L’obiettivo dichiarato è assegnare a Marino Marini (1901-1980) la collocazione che gli compete all’interno della scultura italiana. La rassegna prevede più di cinquanta creazioni accostate a diverse opera, dall’antichità al 900, che ne hanno accompagnato il processo artistico. Un soggetto molto noto affrontato da Marini è il gruppo equestre. Lo scultore è convinto che le figure del cavaliere e del cavallo implichino da sempre la storia dell’umanità. E lui se ne serve per materializzare la passione dell’uomo. E i suoi drammi. Fino a rendere precario l’equilibrio cavaliere/cavallo. Facendone qualcosa di irriconoscibile, disconnesso. Una superficie affilata che vuole tagliare lo spazio.
Selezione curata da Fausto Politino.
Laureato in filosofia, iscritto all’ordine dei pubblicisti di venezia e già collaboratore del Mattino di Padova. Ora scrivo per la Tribuna di Treviso. Potete seguirmi su Twitter: PolitinoF.
Ed eccoci a una nuova opera, La danse, che voi stessi avete votato di più tra quelle dell’artista francese, Henri Matisse, in occasione del sondaggio realizzato nella →community di Artesplorando su Facebook. Come forse già saprete, Matisse fu la personalità più complessa e significati nel gruppo dei fauves. La conferma di una sua maturità stilistica è data proprio da opere come questa che voi avete scelto. Si tratta della versione de La danse, realizzata nel 1910 e oggi conservata al museo dell’Ermitage, a San Pietroburgo. L’opera è un olio su tela ed è grande 259 cm per 390 cm e rappresenta cinque figure intente a danzare quasi in punta di piedi.
La superficie mattone delle figure che si tengono per mano, contornate da grosse linee scure, diventa un tutt’uno. Il vorticoso girotondo generato è irrefrenabile e inarrestabile come il ritmo stesso della vita. I corpi sono inseriti in uno spazio diviso a metà tra il cielo blu oltremare e il verde della terra. Nonostante siano monumentali e ridotti a pura superficie di colore, risultano insolitamente lievi. Tutta la tensione di questo capolavoro, realizzato in poche pennellate, è quindi affidata a tre note di colore improbabili: il blu, il verde e il mattone. Mancano i dettagli, manca la profondità e la resa dei volumi. Noncuranze per cui Matisse sembra aver capito che i destini dell’arte non sarebbero stati segnati dai bravi pittori diligenti, ma dagli audaci e dagli sperimentatori.
Tre colori, tre elementi: uomo, cielo e terra. Le fonti di quest’opera si trovano nelle danze popolari che ancora oggi conservano qualcosa della natura rituale dei tempi antichi. La frenesia del baccanale pagano è perfettamente incarnata nel potente e sbalorditivo accordo di colori e forme. Matisse qui ha saputo cogliere il senso inconscio di coinvolgimento dell’uomo nei ritmi della natura e del cosmo. Guardando con attenzione il dipinto sentiamo un potente ritmo che consuma tutto, una forza vitale e selvaggia, ma allo stesso tempo percepiamo l’equilibrio. Un equilibrio, forse perduto per sempre, tra l’uomo e il cosmo.
Una curiosità. Questa versione de La danse venne acquistata da Sergei Shchukin, collezionista, mercante e viaggiatore russo, cliente delle più importanti gallerie di Parigi, come Druet, Durand-Ruel, Kahnweiler, Vollard. Shchukin sarà molto importante per Matisse: il collezionista infatti gli acquisterà ben 37 dipinti in 8 anni. L’opera finirà a Mosca dove nel 1917 sarà sequestrata per approdare infine all’Ermitage di San Pietroburgo.
Nel 1919 Matisse scrisse riguardo alla sua ricerca artistica:
Come impressionista ho dipinto direttamente la natura, poi ho aspirato a una maggiore concentrazione e a un’espressività più intensa nelle linee e nei colori. Per raggiungere questo obiettivo ho dovuto sacrificare altri valori, la materia, la tridimensionalità, la ricchezza di dettagli. Ora voglio riconciliare questi valori.
La mostra ai Musei San Domenico di Forlì: L’eterno e il Tempo. Tra Michelangelo e Caravaggio si propone di indagare il rapporto tra l’infinito e il finito. Tra Dio e l’uomo nel Cinquecento. Il progetto espositivo, come spiega una delle curatrici Paola Refice, poggia sull’affermazione degli storici che da tempo contestano il pregiudizio che vuole la chiesa cattolica del 500 portatrice di scelte e di iconografie reazionarie. Chiesa che per difendersi dalle minacce della Riforma protestante ai propri dogmi e simboli vigila sospettosa per scoprire le possibili opere contaminate da influssi eterodossi.
Gli studi di Hubert Jedin, di Paolo Prodi e di altri, continua la Refice, sono convinti che nella Chiesa si manifestino intenti riformistici, avvertibili molto prima dell’avvento dell’età moderna. Senza dimenticare Federico Zeri che colloca le origini del cambiamento molto prima dl Concilio di Trento. Con la produzione di immagini il cui significato anticipa di almeno un secolo le tematiche barocche. Entrando nel vivo della grande rassegna, invece di fare l’elenco della spesa, il copyright appartiene al mio primo redattore culturale, elencando tutti gli artisti presenti in mostra, mi limiterei quindi a segnalare alcune opere a mio parere degne di particolare attenzione.
Michelangelo, Bacco
A partire dal bellissimo Cristo risorto di Michelangelo proveniente dalla chiesa di San Vincenzo Martire di Bassano Romano (Viterbo). Riscoperto poco tempo fa. Dovrebbe rappresentare l’attuazione più antica del soggetto, sviluppato nel 1521 nella statua oggi a Roma in Santa Maria sopra Minerva. L’attribuzione michelangiolesca della scultura la si può condividere accostandola sia al David dell’Accademia di Firenze, per la stessa posizione delle braccia e delle gambe. Sia al Bacco del Museo del Bargello. La mano sinistra che Cristo preme sulla coscia per non far scivolare la veste, ha molte analogie con quella del Bacco che trattiene delicatamente un morbido panno.
Giorgio Vasari, Deposizione dalla Croce
Si può continuare con la Deposizione dalla croce di Giorgio Vasari (1539-1549), della chiesa del monastero di Camaldoli. L’opera attrae per l’eleganza della pittura. La ricchezza dei particolari. Per lo stile elegante, che rivisita i colori di Rosso Fiorentino. Nell’imponente pala d’altare c’è una perfetta armonia tra disegno e colore. Se accostiamo la Deposizione del Vasari a quella di Federico Barocci (1567-69) della cattedrale di San Lorenzo di Perugia, appare evidente come il giovane maestro si rifaccia alle esperienze di Michelangelo, di Raffaello e della maniera fiorentina. Rilevante il tema della Vergine Maria svenuta ai piedi della croce, soccorsa da un gruppo di donne. Rispetto ai volumi compatti del Vasari, in Barocci le forme tendono a sfaldarsi. Diventano più emotive. I personaggi sono più vulnerabili nella loro sofferenza.
Ludovico Carracci, Conversione di Saul
Un’attenta osservazione merita la Conversione di Saul (1587-88) della Pinacoteca nazionale di Bologna di Ludovico Carracci, che rende alla perfezione la drammaticità dell’evento. Attraverso l’intervento divino che si rivela in tutta la sua forza. Nell’utilizzazione della luce e nella strutturazione dello spazio si delinea lo schema che sarà adottato dalla pittura barocca.
Caravaggio, Madonna dei pellegrini
E si arriva alla Madonna dei pellegrini (1604-1606) proveniente dalla basilica di Sant’Agostino in Campo Marzio a Roma che irrompe “nella storia dell’arte e nella storia sacra come un evento epocale”. Caravaggio abbandona la raffigurazione consolidata della Vergine. La Madonna non è più in trono. È ritratta al naturale. Sulla soglia della casa di Nazareth. Senza corona. Senza abiti ricercati. Vestita da popolana. Nessuna trasfigurazione. Tutto è reale. Il suo bellissimo volto è illuminato da una luce compatta mentre rivolge lo sguardo ai due pellegrini inginocchiati con i piedi gonfi e sporchi.
Sebastiano del Piombo, Pietà
Vorrei chiudere con la Pietà di Sebastiano del Piombo del 1515. Da notare la separazione dei due personaggi che occupano la scena. Cristo è sdraiato a terra in linea retta, a rappresentare la morte. Invece il triangolo formato dalla Madonna seduta con lo sguardo rivolto in alto, verso il cielo, a significare la resurrezione e la vita eterna.
Fausto Politino
Laureato in filosofia, iscritto all’ordine dei pubblicisti di venezia e già collaboratore del Mattino di Padova. Ora scrivo per la Tribuna di Treviso. Potete seguirmi anche su Twitter: PolitinoF.
La mostra
L’ETERNO E IL TEMPO. TRA MICHELANGELO E CARAVAGGIO. Dal 10 febbraio fino al 17 giugno 2018. Musei San Domenico di Forlì.
Quando si parla di simbolismo e di Arnold Bocklin sono sempre al settimo cielo. Sia perché mi piace l’artista, sia perché mi affascina il simbolismo. Qui vi parlerò dell’opera intitolata Lotta di centauri, ma prima due parole per ricordare cos’è il simbolismo e chi è Bocklin. Il simbolismo è un movimento artistico-culturale che, come dice la parola stessa, si concentrò su una rappresentazione delle cose filtrata da potenti simboli. In Europa tra gli anni Ottanta e Novanta del’Ottocento le tendenze simboliste erano presenti un po’ ovunque. Bocklin giocò un ruolo molto importante nella cultura figurativa simbolista tedesca. Di formazione classicista, cercò di mescolare il paesaggio con una pittura simbolica servendosi di composizioni d’ispirazione mitologica. Come avviene proprio in questo dipinto.
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Lotta di centauri è un’opera del 1873, realizzata a olio su tela e conservata oggi al Kunstmuseum di Basilea. Il tema ha radici lontane e già lo ritroviamo nella Grecia antica in opere monumentali e significative come il tempio di Zeus a Olimpia o il Partenone ad Atene. Queste creature infatti sono spesso protagoniste di un episodio mitologico che vide lo scontro fra centauri e Lapiti, un popolo leggendario che abitava la vallata del Peneo in Tessaglia. Una lotta che simboleggia lo scontro tra la ragione e l’umanità dei Lapiti con la barbarie e l’aggressività animalesca dei centauri. In questo caso però abbiamo solo dei centauri che incarnano una sensazione d’orrore e violenza allo stato puro.
Sullo sfondo di un paesaggio quasi completamente occupato da un cielo nuvoloso e minaccioso, dominano la scena le eroiche figure dei centauri con la loro drammatica coreografia. In gran parte la tensione di questo dipinto deriva proprio dalle pose contorte e dalle espressioni terribili dei centauri. La pennellata è ricca di colore ma il tracciato è semplice e non dettagliato, facendo emergere uno spiccato senso di dramma. Gli scenari surreali, i toni minacciosi e una strisciante sensazione di paura resero i dipinti di Bocklin molto famosi già quando l’artista era in vita. Più tardi avrebbero influenzato l’espressionismo tedesco diventando un punto di riferimento per l’intensità del loro impatto e per la forte partecipazione emotiva che ispiravano. E ancora oggi forse è così.
Riprendo dopo un bel po’ di tempo una rubrica nella quale recensisco la presenza delle istituzioni museali sul web. Questa volta vi guiderò alla scoperta delle Gallerie Estensi, un ampio Polo Museale che racchiude al suo interno ben cinque sedi: la Biblioteca Estense Universitaria, la Galleria Estense di Modena, il Museo Lapidario Estense, il Palazzo Ducale di Sassuolo e la Pinacoteca Nazionale di Ferrara.
Un patrimonio molto ricco quindi che comprende al suo interno collezioni preziose e diverse tra loro. Le sedi di questo Polo Museale inoltre abbracciano un’area che racchiude due province dell’Emilia Romagna: Modena e Ferrara. Si tratta di territorio unito in passato proprio dal governo degli Estensi, un’antica dinastia che sostenne la cultura e le arti. Partiamo quindi con la nostra piccola esplorazione alla scoperta del sito e dei profili social di questa importante istituzione museale. Il portale, realizzato dal Ministero dei Beni Culturali, lo trovate a questo indirizzo: www.gallerie-estensi.beniculturali.it/
Si apre davanti a noi un sito moderno, dalla grafica semplice ma molto funzionale. Vediamo subito una cosa importante per qualsiasi istituzione museale che voglia rendersi riconoscibile a un grande pubblico: il logo. In questo caso si tratta di un logo realizzato partendo dallo stemma della casata degli Estensi che caratterizza tutte le sedi del Polo. Potete esplorare il sito principalmente seguendo due strade. Una è quella segnata dalla barra di navigazione posta in cima al portale. Da qui potete accedere a varie pagine che vi parleranno delle Gallerie Estensi, dell’amministrazione, dello staff, dei servizi educativi, dell’archivio fotografico, dell’ufficio stampa e delle news. Al momento della redazione di questo post lo “Store” delle Gallerie è ancora in lavorazione.
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La seconda strada d’esplorazione è quella che potete intraprendere scorrendo la pagina principale e trovando varie informazioni. Da questa home page potete organizzare la vostra visita, cercare nel database e visitare le singole sedi museali a cui sono dedicate delle pagine informative a parte. Infine nella parte bassa della pagina trovate il calendario eventi e gli argomenti in evidenza. Un sito quindi ben strutturato, con qualche mancanza (ad esempio una newsletter) o parte ancora incompleta (Store), ma tutto sommato funzionale per avere un primo approccio con le Gallerie e organizzare una visita.
Passando ai social network la questione si complica un po’. Come Polo Museale le Gallerie sono presenti su Vimeo, Instagram e Pinterest, ma i profili rivelano una presenza appena avviata, con l’esclusione di Instagram, in cui le Gallerie hanno oltre 1.500 follower. Nel complesso quindi da questo punto di vista c’è un ampio margine di miglioramento. Poi però anche i singoli musei sono presenti in alcuni social, principalmente Twitter, Instagram e Facebook, in cui troviamo la Pinacoteca di Ferrara, il Palazzo Ducale di Sassuolo e la Galleria Estense di Modena. Questi profili social rivelano una buona presenza: i post, le foto e i tweet sono frequenti e diversificati anche se non c’è una grandissima interazione con il pubblico.
I voti
Ma veniamo ai voti che, come saprete, vanno da una a cinque stelline (*****)!
Presenza sul web **** Voto alto d’incoraggiamento.
Funzionalità ed utilità effettiva ***** Qui mi sento di dare il massimo perché il sito è veramente ben strutturato e organizzato.
Dialogo e coinvolgimento del pubblico *** Sul coinvolgimento del pubblico c’è un ampio margine di miglioramento.
Voi cosa ne pensate? che voti dareste?
Intanto vi invito ad andare a visitare il sito delle Gallerie Estensi per conoscerne la storia e le straordinarie opere d’arte custodite.
Alla prossima recensione!
Per scoprire gli altri musei, segui l’etichetta #HelloMuseo!
Da pochi mesi Artesplorando si è dotato di un piccolo negozio online, appoggiandosi alla piattaforma Spreadshirt. È stata una scelta dettata dall’esigenza di creare un modo per metterti nella condizione di sostenere il blog e allo stesso tempo regalarti dei begli oggetti che ti possano ricordare l’arte, i suoi protagonisti e i suoi capolavori. Ecco quindi che il negozio di Artesplorando è diventato uno spazio in cui fare acquisti intelligenti e finalizzati al sostegno del progetto che esplora l’arte. Puoi darci un’occhiata subito andando all’indirizzo: shop.spreadshirt.it/artesplorando/. Troverai tante simpatiche idee regalo.
In particolare oggi voglio parlarti di una serie di gadget che ho deciso di chiamare “silhouette ad arte”. Si tratta di immagini che stilizzano e semplificano grandi capolavori della storia dell’arte, più o meno conosciuti. Troverai quindi la Gioconda, la venere di Milo, il David di Michelangelo e molto altro ancora. Questi disegni puoi tu stesso scegliere dove applicarli: su una maglietta, una tazza, un cuscino o un berretto. Inoltre puoi cambiarne il colore scegliendo tra una gamma messa a disposizione dal portale che ci ospita.
Grazie per il sostegno!
Grazie in anticipo per tutto il sostegno che mi vorrai dare e per scoprire di più ti invito a seguire questo link.
Albert Dürer (1471-1528) il grande artista di Norimberga, è in mostra al palazzo reale di Milano fino al 24 giugno 2018 nella rassegna “Dürer e il Rinascimento tra Germania e Italia”. 130 opere per conoscere le sue qualità nelle diverse tecniche praticate: pittura, disegno, grafica. Opere che geograficamente si inseriscono sia nella cultura iconica dell’Italia settentrionale sia in quella dei Paesi Bassi. E storicamente tra la fine del 400 e gli inizi del 500. Ma non ci sono solo creazioni dell’autore tedesco. È affiancato da pittori a lui contemporanei come Lucas Cranach e da pittori italiani. Giorgione, Mantegna, Leonardo da Vinci, Giovani Bellini e Lorenzo Lotto.
La mostra è articolata in sezioni tematiche. Si inizia con i rapporti che Dürer ha avuto, a partire dal 1490, con Venezia in particolare. “Geometri misura e architettura” sono i temi della seconda parte. Si continua con “Scoprire la natura, scoprire il mondo”. La mostra prosegue con “La scoperta dell’individuo”, si passa poi a “Dürer l’incisore: l’apocalisse e i cicli cristologici”. Per concludersi ne “Il classicismo e le sue alternative”. Come già per le proposte precedenti, vorrei approfondire che mi ha sempre colpito. L’incisone a bulino su lastra di rame del 1513, Il cavaliere, la morte e il diavolo, a cui si ispira esplicitamente Sciascia nel 1989 nel suo romanzo Il cavaliere e la morte pubblicato da Adelphi.
Albert Dürer, Gesù tra i dottori
L’incisione è stato oggetto di varie interpretazioni. Anche se pare non ci siano dubbi nel decodificare l’immagine del cavaliere: il miles christianus. Il coraggioso soldato cristiano, con il cane dalle lunghe orecchie forse simbolo della fede e lo sguardo che sembra imitare quello del padrone, avanza fiero e impassibile verso la sua meta. Incurante della solitudine. Affiancato dalla Morte che cavalca un ronzino e agita una clessidra, correlato oggettivo del brevissimo tempo della vita, lungo il percorso della virtù. Seguito dal Diavolo. Dürer lo vede come una figura animalesca orrenda, inguardabile.
Con una lunga picca. A testimonianza del male che l’uomo può fare. Fierezza accentuata dall’elmo, che non gli permette di straniare lo sguardo e dall’accurata perfezione e maestosità del cavallo. Poderoso, vitale e insieme elegante nei movimenti. Pronto nell’assecondare ogni gesto, ogni sollecitazione di chi lo cavalca e lo guida dritto alla fine del viaggio, mediante le redini. La mitologia nordica associa il cavallo al sole. La cui luce esprime virtù guerriere e spirituali.
Quale meta? Dovrebbe essere la città fortificata che occupa la parte superiore dell’incisione. Che cosa dovrebbe rappresentare? La patria celeste. La nuova Gerusalemme. La fortezza della cultura che va conquistata e difesa dalla barbarie. O la cittadella della giustizia secondo Sciascia. Il percorso è raffigurato arduo, difficile. Lo sfondo rimanda a rocce violentate. Ad alberi scheletrici con le radici divelte. Se non ci fosse lo sfondo, è il parere di Panosfky, incisione di Dürer sarebbe simile ad “una fredda e scolastica imitazione di una statua equestre alla maniera di Pollaiolo, Verrocchio e Leonardo da Vinci”.
Fausto Politino
Laureato in filosofia, iscritto all’ordine dei pubblicisti di venezia e già collaboratore del Mattino di Padova. Ora scrivo per la Tribuna di Treviso. Potete seguirmi anche su Twitter: PolitinoF.
La mostra
Dürer e il Rinascimento tra Germania e Italia, palazzo reale di Milano, fino al 24 giugno 2018 www.mostradurer.it
Nuovo post della rubrica “Art si gira!!!” in cui ogni volta scopriamo un film dedicato a qualche artista. Oggi vi propongo un film del 1999 dedicato al grande Goya. Si tratta di un lungometraggio realizzato dal regista spagnolo Carlos Saura che ripercorre la vita e le opere del celebre pittore, partendo dai suoi ultimi anni. C’è anche un pezzo d’Italia nel film dato che il regista si è avvalso della splendida fotografia di Vittorio Storaro. Ma partiamo con una sintesi della trama.
Francisco Goya (1746-1828), sordo e malato, vive gli ultimi anni della sua vita in esilio volontario a Bordeaux. Un esilio autoimposto per protestare contro il regime spagnolo oppressivo di Ferdinando VII. Nella città francese vive con la sua giovane moglie Leocadia e la loro figlia Rosario. Nel film il pittore dipinge giorno e notte in un costante bisogno di fissare impressioni, ricordi, incubi e molto altro. Durante i flashback innescati dalle conversazioni con sua figlia, e da mal di testa terribili, il pittore rivive momenti chiave della sua vita. In particolare Goya rivive il suo rapporto con la duchessa d’Alba, che il film dà per scontato si tratti della donna raffigurata nelle due Maja, quella desnuda e quella vestida. Anche se non ci sono documenti certi che lo testimonino e ancora oggi la questione è aperta. In tutto il film le fantasticherie del pittore prendono forma attraverso scene che riprendono i suoi dipinti più celebri e in questo modo il racconto prende forma.
Quello che vediamo quindi è un Goya malato in esilio a Bordeaux. Ne emerge la figura di un anziano artista che si tuffa fra le passioni e i travagli della propria esistenza, rievocando i retroscena dei suoi quadri più famosi. Tormentato da innumerevoli rimpianti per una vita vissuta sempre al servizio dei potenti e la volontà di denuncia delle miserie morali del mondo aristocratico. Senz’altro è un film molto evocativo, in grado di ricreare, sopratutto grazie alla fotografia di Storaro, i colori, le atmosfere, le luci e le ombre dei dipinti di Goya. Ciò che ne risulta è un affresco cupo e ricco di riferimenti che mette in luce la personalità turbolenta dell’artista e alcuni degli avvenimenti storici che dovette, suo malgrado, subire.
Tutto sommato, nonostante il ritmo narrativo non sia sempre brillante, è un film che mi sento di consigliarvi per un motivo principalmente estetico. È un modo per avvicinarsi alle opere di Goya e al suo mondo interiore. Forse riuscirete a comprendere meglio l’oscurità, la drammaticità e la crudezza che caratterizzano i dipinti più emozionanti di questo grandissimo artista.
Il MAMbo, il Museo d’Arte Moderna di Bologna in collaborazione con il Museo di Stato Russo di San Pietroburgo, ospita fino al 13 maggio 2108: Revolutija. Da Chagall a Malevich, da Repin a Kandinsky. Il focus della rassegna (oltre settanta opere) è nell’arte delle avanguardie russe. I curatori vogliono approfondire il periodo che va dai primi del 900 alla fine degli anni Trenta. E nello stesso tempo proporre al pubblico italiano, addetti ai lavori e non, artisti poco noti, come Repin, Serov, Goncharova e Altman. In parte oscurati dal grande successo ottenuto da Chagall, Malevic e Kandinsky, comunque presenti in mostra.
Kandinsky, su bianco (I), 1920
Iniziamo da Chagall. Molte sue opere sprigionano la gioia di vivere matissiana. Sono immerse in una dimensione onirica, lontane però dall’impostazione scientifica del sogno surrealista. In mostra troviamo la Promenade. Un quadro che sfida la forza di gravità per raccontare la felicità trovata dall’artista vicino alla moglie Bella. Una fantastica visione ambientata nel verde delle campagne di Vitebsk. Al centro della composizione prevale lo stesso Chagall, con le scarpe nere e lucide che sta per sollevarsi da terra tirato verso il cielo dalla sua amata, che gli afferra dolcemente la mano.
Malevic, quadrato nero. La prima versione risale al 1915
Il dipinto di Kandinsky esposto riflette il periodo in cui l’artista sente il bisogno di riorganizzare, o se si vuole, “razionalizzare” gli aspetti formali e cromatici di alcuni lavori precedenti. Troviamo il motivo razionalista geometrico dei quadratini neri come e fossero le parti di una scacchiera che pullulano verso la parte destra del quadro, in alto. Le altre strisce conservano ancora una certa vitalità anche se più ovattata. Il Quadrato, il Cerchio e la Croce rigorosamente neri di Malevic sono i primi tre monocromi all’origine di tutto. All’origine di quella visione suprema, passando per una assoluta semplificazione geometrica, considerate icone del XX secolo per quel drastico ed estremo atto di rottura definitiva dell’idea dell’arte come rappresentazione e imitazione naturalistica.
Malevic, la testa di contadino
Di Malevic in mostra è documentata anche la fase del graduale ritorno al figurativo. Ne “La testa di contadino” prevale l’impostazione netta alla Leger. Una testa squadrata, dalla sintassi primitiva. Quasi una maschera, disegnata per superfici rosse che la sezionano. Esaurita per quanto mi riguarda l’analisi di alcune opere dei nomi più noti, vorrei attirare l’attenzione su un quadro che mi ha colpito.
Nathan Altman, ritratto della poetessa Anna Akmatova, 1924
Il ritratto della poetessa Anna Akmatova (1924) di Nathan Altman. Seduta come in un trono, elegante misurata raffinata, nel blu dell’abito, nella teatralità dello scialle giallo che scivola dalle spalle, nel nero dei capelli che coprono la fronte e incorniciano il volto appuntito, la possiamo immaginare in sorridente attesa prima di declamare i suoi versi. “Bevo ad una casa distrutta, alla mia vita sciagurata, a solitudini vissute in due”, nei salotti letterari di San Pietroburgo. Valentin Serov, noto per i suoi ritratti all’insegna del realismo, nel “Ritratto della ballerina Ida Rubinstein” (1910), adotta invece lo stile simbolista.
Valentin Serov, ritratto della ballerina Ida Rubinstein, 1910
Il corpo della donna magrissimo androgino asessuato raffigurato a tre quarti, dipinto nello stesso colore dello sfondo, ci guarda di sottecchi. Sottolinea che solo lei conosce cosa si nasconde dietro i passi misteriosi di una danza che sta per iniziare. Voglio chiudere questa breve rassegna con il “Ciclista” del 1913 di Anna Goncharova. Appare evidente osservando il dipinto i punti di riferimento dell’artista: il cubismo il futurismo e i canoni dell’avanguardia russa, nell’inserimento dei caratteri cirillici e dei numeri. Quindi la scomposizione dei movimenti del protagonista ricalca sia le tecniche pittoriche di Braque e Picasso sia il dinamismo tipico di Giacomo Balla.
Anna Goncharova, ciclista, 1913
La mostra
Revolutija. Da Chagall a Malevich, da Repin a Kandinsky. Museo d’Arte Moderna di Bologna (MAMbo) Fino al 13 maggio 2018.
Fausto Politino.
Laureato in filosofia, iscritto all’ordine dei pubblicisti di venezia e già collaboratore del Mattino di Padova. Ora scrivo per la Tribuna di Treviso. Potete seguirmi su Twitter: PolitinoF.
Breve biografia della vita e delle opere di Auguste Rodin, il padre della scultura moderna. Nuovo video della serie l’ #artein10punti realizzata con lo scopo di farvi conoscere i protagonisti dell’arte.
François-Auguste Rodin nacque a Parigi il 12 novembre 1840 in una famiglia della piccola borghesia. Si formò all’Ecole National des Arts Decoratifs tra il 1854 e il 1857, seguendo gli insegnamenti di Lecoq de Boisbaudran per il disegno e Carpeaux per la modellazione. Fu in seguito obbligato, per necessità economiche, a lavorare come decoratore. Questo dopo tre rifiuti dall’Ecole des Beaux-Arts.
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Artesplorando in collaborazione con Area51editore, vi presenta un assaggio degli audioquadri. Pillole d’approfondimento di storia dell’arte. Qui parliamo di Man Ray e della suo opera simbolo Le violon d’Ingres. Questa è una versione demo, per maggiori info e per acquistare l’audioquadro completo: Audioquadro www.area51editore.com
Le donne per Man Ray hanno sempre rappresentato la luminosità della vita diventano di volta in volta ombre, luci realtà e fantasia le donne furono passione che alimentò la
sua ispirazione. E di passioni e ispirazioni Ray ne ebbe molte. Ma quando si parla di Le violon d’Ingres si parla di Kiki de Montparnasse vero nome Alice Prin cantante e cabarettista dal carattere impulsivo e impetuoso.
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Diego è un dipinto a olio, firmato dallo scultore e pittore svizzero Alberto Giacometti. L’opera è un ritratto del fratello minore di Giacometti, Diego, anch’egli artista e per tutta la vita assistente di Alberto. Diego è un tema ricorrente nell’opera dell’artista che qui lo ha rappresentato da solo su uno sfondo grigio appena accennato. Il dipinto è costruito a strati, in modo che verso i bordi della tela vediamo solo macchie di colore appena accennate, mentre il centro è più denso e particolareggiato, facendo così emergere al meglio la figura di Diego. In contrasto con le grandi e ampie pennellate che compongono lo sfondo dell’opera, la figura centrale è formata da tratti sottili e lineari di colore nero, bianco e grigio.
Nel 1960 Giacometti disse che realizzò questo dipinto in sole due sedute di posa e in effetti la varietà e il movimento della pennellata all’interno del lavoro ci danno l’impressione di energia e velocità. Il contorno del busto è leggermente abbozzato, mentre la testa è ricca di particolari e all’apparenza tridimensionale, come fosse una scultura. Il volto di Diego affronta direttamente chi gli sta davanti, guardandoci negli occhi, assumendo il realismo di una vera e propria testa umana. Quando osserviamo da lontano il dipinto le caratteristiche del soggetto appaiono distinte e chiare.
Le linee che compongono il volto sembrano delle incisioni fatte nel gesso o nell’argilla, creando l’impressione delle orbite e delle guance scavate. Tuttavia, quando il dipinto è visto da vicino, le caratteristiche definite si disperdono in un turbinio astratto di linee e segni. Questa doppia visione è tipica di Giacometti: l’artista realizzò spesso i suoi ritratti in piedi a più di due metri di distanza dal modello. Quindi opere come questa non ci permettono di entrare in contatto intimo con il soggetto, rimanendo irraggiungibili e potendo essere comprese solo dalla distanza da cui sono state modellate o dipinte.
I soggetti di Giacometti sembrano circondati da una nuvola pesante simile a nebbia, spesso dipinta con tonalità grigie come vediamo qui. Un commento fatto dallo stesso artista nel 1945, quattordici anni prima di questo dipinto, sembra spiegare l’alone grigio in questione.
Ho spesso percepito davanti agli esseri viventi, soprattutto davanti ai volti umani, il senso di uno spazio-ambiente che circonda immediatamente queste persone, le compenetra e fa parte dell’essere stesso.
Questa affermazione racchiude la visione dell’artista che nelle sue opere condensò i riferimenti all’irraggiungibilità degli oggetti e alle distanze profonde esistenti tra gli esseri umani.
Dieci opere d’arte per avvicinarci al tema del ritratto. Un genere che ci restituisce volti dal passato e che ha attraversato tutta la storia dell’arte. Nuovo video della serie “10 momenti di …”, realizzato da Artesplorando con lo scopo di offrirvi dei punti di vista originali sull’arte. In questo caso parleremo di magia. L’arte stessa a volte può sembrarci quasi un incantesimo.
Fin dalla preistoria l’uomo ha prodotto rituali magici che servivano di volta in volta ad assicurare salute, prosperità o fortuna. La magia ha da sempre una forte attrattiva sull’essere umano e ha portato alla produzione di opere e oggetti che ancora oggi ci affascinano e seducono.
Troverai un breve commento delle seguenti opere: Kenneth Anger – L’Invocazione del mio fratello demone (1969). Robert Mapplethorpe – Autoritratto (1983). Sandro Botticelli – Venere e Marte (1485 ca.). Hew Draper – Graffiti magici nella Salt Tower, Torre di Londra (1561). Messico – Lo specchio del Dott. Dee (XV-XVI sec.). Picasso – La Celestine (1904). Congo –Kozo il cane a due teste (fine XIX – inizio XX sec.). Egitto – Ceramica di Faenza shabti di Sety I (1290ca. A.C.). Germania – Reliquiario di San Sebastiano (1497). Firenze – Il miracolo dell’Annunziata (XIV secolo).
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C’è tempo fino al 31 maggio, quando l’aria sa di primavera. L’atmosfera propizia per andare a Parigi, alla Galerie Ropac, e visitare Für Andrea Emo. Con gli ultimi lavori del pittore e scultore Anselm Kiefer, fra i maggiori artisti contemporanei. Lavori infiltrati dalla filosofia di Andrea Emo, pensatore irregolare, antiaccademico, scomparso nel 1983. È stato scoperto da Massimo Cacciari che favorì la pubblicazione dei suoi numerosi appunti, delle sue quotidiane riflessioni, nel volume del 1989, Il dio negativo, Marsilio editore. Kiefer lo incontra nel 2015 leggendo l’opera. Si riconosce nei frammenti e negli aforismi che contiene. Si sente affine a Emo il cui pensiero è stato definito nichilismo radicale. Anche se il suo Nulla non vuol dire sottovalutare la tragicità dei fatti storici. Semmai riconoscerne la sacralità. È un Nulla che evoca l’Assoluto nella sua totalità.
In mostra ci sono venti dipinti di varie dimensioni e tre sculture gabbia. Opere che riflettono la prospettiva teoretica di Emo. L’arte come esercizio metafisico. Cioè non rispecchia il reale e non è contenitore di simboli. Ma l’ultimo tentativo per rivelare l’Assoluto, che tuttavia può mostrarsi solo eclissandosi. Come traduce Kiefer queste considerazioni nei suoi lavori? Identificando l’artista nell’iconoclasta “impegnato a mettere in scena un ordine prossimo a naufragare nel nulla”. Eppure, solo l’arte può riedificare un contesto. Rispetto all’estrema specializzazione degli scienziati e alla separazione dei loro saperi.
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La mostra di Parigi la si può definire una mostra spartiacque. Fino a questo momento nel paesaggio iconografico di Kiefer, dove coesistono la concettualità dell’arte contemporanea insieme ad una grande qualità tecnica, si poteva leggera la tragedia del nostro tempo. Resa mediante l’utilizzo di materiali poveri. Rottami di motori, il piombo, la cenere, il vetro, la sabbia, i libri consumati. Senza tralasciare i motivi archeologici. Si ricordano ancora I sette palazzi celesti installati a Milano all’HangarBicocca nel 2004.
Sette solenni architetture alte fino a diciotto metri. Che riprendono motivi di antiche civiltà. Dagli ziggurat assiro-babilonesi alla leggendaria torre di Babele. Dalla cima alle fondamenta Kiefer ha inserito una nave, scritte al neon, pile di libri di piombo. L’unico materiale in grado di “sostenere il peso della storia”. Niente di tutto questo nelle opere esposte a Parigi. Niente rimandi politici. Rinvii mistico/religiosi. Rispecchiano uno stile diverso. Un modo di lavorare altro. Le sculture possono essere solo gabbie dove sono riprodotti reperti e fossili sfuggiti ad un’apocalisse che nessuno vede. I quadri veicolano visioni. Che Kiefer copre parzialmente o cancella integralmente.
Può arrivare a distruggerle riversandoci sopra colate di piombo fuso. Non ci può essere immagine senza iconoclastia. Bisogna fare affiorare parvenze, apparizioni. Come se fossero tracce di affreschi inabissati sotto colate di lava. Ciò che conta non è il risultato del lavoro. La salvezza è nel lavoro stesso. Il compito dell’artista è decostruire. Non contemplare l’opera d’arte ma maltrattarla, aggredirla.
Fausto Politino
Laureato in filosofia, iscritto all’ordine dei pubblicisti di venezia e già collaboratore del Mattino di Padova. Ora scrivo per la Tribuna di Treviso. Potete seguirmi anche su Twitter: PolitinoF.
Stella nel vasto firmamento artistico, Albrecht Dürer ha dedicato un’attenzione particolare al ritratto, diventandone uno dei più appassionati specialisti d’ogni tempo. Per tutta la sua vita insisterà nella ricerca sul ritratto, soprattutto maschile, sviluppando e confermando doti di impeccabile precisione nella resa dei dettagli e spiccate capacità di calarsi nel profondo della psiche umana, anche quando si trattò della rappresentazione di sé stesso.
La vita di Dürer fu caratterizzata da un costante intreccio tra un’attività e un’immagine di grande successo e, all’opposto, una realtà interiore sofferta. In diversi momenti della sua vita, il pittore sembrò in bilico tra una compiaciuta consapevolezza del proprio successo e una triste depressione. Questa ambiguità rende molto affascinante la figura dell’artista, aggiungendo ai suoi autoritratti una componente psicologica molto importante. Il Dürer che vedete qui è un giovane uomo, molto elegante, il cui abbigliamento e la cura del proprio aspetto confermano una certa sicurezza di sé e anche un po’ di vanità. Dopotutto il pittore ha solo ventisei anni, ma ha già un gran successo. Non a caso l’età viene sottolineata nella firma in basso a destra: “Ho dipinto secondo le mie sembianze quando avevo ventisei anni. Albrecht Dürer”.
Ecco quindi il perché di abiti così eleganti: l’artista indossa una bella giacca bianca e nera con un copricapo che riprende gli stessi colori. Sotto la giacca porta una camicia con un bordo ricamato in oro, mentre sulla spalla sinistra vediamo un mantello marrone trattenuto da un cordoncino blu e bianco di seta. La capigliatura bionda e riccia è molto curata e la barba ben definita. Il pittore inoltre copre i preziosi strumenti del suo lavoro, le mani, con un paio di guanti grigi alla moda. Durante un viaggio in Italia, Dürer vide con i propri occhi la grande importanza assunta dagli artisti rispetto alla Germania da cui proveniva. In Italia pittori, scultori e architetti dialogavano direttamente con nobili, papi e letterati. L’autore volle così sottolineare il proprio status sociale di intellettuale artista per non essere più considerato un semplice artigiano come succedeva ai pittori nel medioevo.
Del dipinto ci colpisce l’espressione fiera e glaciale in contrasto con la grande sensualità sottolineata dall’ampia scollatura della camicia. Il suo sguardo penetrante sembra voler sottolineare l’importanza e la soddisfazione del pittore, ma un velo di malinconia traspare: in fondo Dürer sapeva bene che tutta la bellezza o il successo di questo mondo sono inevitabilmente destinati a finire prima o poi.
Ed eccoci a una nuova opera, Nudo sul divano (Almaisa),che voi stessi avete votato di più tra quelle dell’artista livornese, Amedeo Modigliani, in occasione del sondaggio realizzato nella →community di Artesplorando su Facebook. L’opera in questione è un dipinto autografo, realizzato con tecnica a olio su tela nel 1916. Misura 81 x 116 cm ed è custodito in una collezione privata a Cleveland, negli Stati Uniti. Pittore, scultore e disegnatore, Modigliani fu attivo sopratutto a Parigi, dove realizzò anche quest’opera. Va sottolineato però che, nonostante la carriera francese, le radici del suo stile affondano in Italia. In effetti Amedeo studiò attentamente i maestri del rinascimento, in particolare Sandro Botticelli.
Ma i suoi nudi sdraiati, come quello raffigurato in questo dipinto, continuano la tradizione iniziata da Giorgione e Tiziano, di cui ricordiamo bene le veneri sdraiate. Nudi come questo, sensuale e prorompente nel suo esplicito erotismo, furono spesso censurati. Pensate che l’unica personale dedicata a Modigliani quando ancora era in vita, alla Galleria Berthe Weill a Parigi, nel 1917, venne chiusa dalla polizia. La causa fu proprio l'”oscenità” delle opere esposte.
La donna ritratta era una modella algerina, Almaisa. Ciò siamo riusciti a capirlo confrontando il dipinto con “L’Algerina Almaisa seduta”, dove l’artista scrisse il nome direttamente sulla tela. Abitudine che ritroviamo spesso in Modigliani. La donna è morbidamente adagiata su un divano. Il corpo offerto alla vista del pubblico, un braccio steso e l’altro piegato a sostenere il volto dalla chioma corvina. La donna indossa solamente una collana. I colori dominanti sono i toni del marrone, terre e ocre che rendono quasi monocroma l’opera.
Pittore e sculture ossessivo, Modigliani era un incallito donnaiolo, vittima della droga e dell’alcol. Archetipo del genio maledetto, l’artista anche qui ci trasmette un senso d’erotismo bohemien che ci riporta subito alla frizzante vita parigina d’inizio Novecento.
Esce oggi un nuovo trimestrale dell’art-magazineAre You Art che scandisce i tre anni esatti dalla sua nascita. Molti di voi sapranno già di che si tratta, ma per tutti gli altri è giusto fare un piccolo riepilogo. Tre anni fa mi venne l’idea di creare un notiziario o un magazine, se preferite, che raccogliesse al suo interno tanti art-blogger. Un prodotto completamente inedito in Italia, gratuito e disponibile esclusivamente on-line. È nato quindi, dopo varie riflessioni, Are You Art il primo art-magazine in Italia realizzato da blogger.
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In effetti sono stati subito molti i blog che hanno aderito al progetto dando vita a un magazine fresco, dinamico, vario e alla portata di tutti. Poi nel corso di questi anni si sono avvicendati molti blogger: alcuni hanno lasciato, altri si sono aggiunti, altri ancora sono nella squadra fin dal primo numero. E Are You Art si è affermato non solo come strumento di divulgazione artistica. Infatti è diventato anche una vera e propria community in cui si sono incontrati e confrontati molti appassionati d’arte. Un modo nuovo per far rete tra art-blogger, una categoria forse ancora poco apprezzata dal grande pubblico.
Ecco quindi l’elenco di tutti i blog che partecipano ad oggi al progetto. Una lista che nel tempo sicuramente subirà delle variazioni.
Se volete seguire Are You Art da veri affezionati, lo potete trovare, leggere e scaricare al link issuu.com/areyouart che prevede una semplice iscrizione anche tramite Google+, Linkedin o Facebbok.
Potete inoltre unirvi alla pagina Facebook https://www.facebook.com/areyouart e a quella di Google+ oppure iscrivervi alla newsletter per avere tutti le anticipazione e le novità in tempo reale! Invece per tutte le info e i messaggi che ci vorrete inviare usate la mail info.areyouart@gmail.com, abbiamo bisogno di voi per migliorare e crescere!
Desidero quindi infine ringraziare i molti lettori e appassionati che ci hanno seguito in questi anni e tutti i blogger che hanno reso possibile questo progetto!
La mostra su Gaetano Previati organizzata dal Museo diocesano di Milano insieme ai musei vaticani, si apre con La via al Calvario entrata da poco a far parte delle collezioni dello stesso Museo per lascito testamentario. Da oltre cento anni non appariva in una pubblica esposizione. Siamo in presenza di un lungo corteo, ma non se ne vede né l’inizio né la fine. Sta salendo verso il Golgota lentamente, faticosamente. Il corpo della Madonna, sul punto di stramazzare al suolo, e quello delle pie donne che la sorreggono sono inclinati. Per l’asperità del luogo, per il dolore che le squassa e per ciò che fra poco vedranno. La scena trasmette una sofferenza corale non gridata ma non per questo meno intensa.
Il movimento ondoso delle figure è dovuto alle pennellate allungate, com’è nello stile di Previati. Le nuvole basse, striate a coprire l’azzurro del cielo. Gli alberi scheletrici messi in fila sembrano la degna cornice all’incedere appesantito, prostrato, delle protagoniste. Nelle sale successive appare l’intera Via Crucis, dai profondi rossi creata tra il 1901 e il 1902 proveniente dai Musei vaticani. Visibile al pubblico dopo cinquant’anni. Vorrei ora mettere a confronto la Prima stazione di Previati con altri celebri quadri che affrontano lo stesso soggetto: Cristo alla colonna. Iniziamo da Antonello da Messina. L’ opera è datata 1476. Riflette la sua maturità. Ha saputo leggere e reinterpretare i dettami dell’arte veneziana e di quella fiamminga. La testa di Cristo è riversa all’indietro.
Gaetano Previati, via Crucis, prima stazione
Raffigurata da sotto in su. Un volto drammatico e insieme iperrealistico: i capelli sudati, la bocca semiaperta per il respiro spezzato, lo sprigionarsi delle prime gocce di sangue, le lacrime che raccontano la disperazione. Dettagli fondamentali che non deturpano la bellezza fisica dei tratti fisiognomici. Ancora monumentalità e massimo realismo nel Cristo prima della flagellazione del Bramante del 1490. Nelle carni serrate dalle corde e nell’altra corda che gli pende dal collo. Anche in questa immagine il Salvatore mantiene il proprio vigore fisico nel corpo ben modellato. La Flagellazione del Caravaggio risale al 1607-8. La struttura carnale muscolosa di Cristo circondato dagli aguzzini sembra accennare ad un manieristico movimento danzante. Tutti i corpi in tensione sia fisica sia emotiva sono definiti e delineati dalla luce.
Antonello da Messina, Cristo alla colonna
In Previati, osservando la sua prima stazione nell’ambito delle altre tredici, intuiamo subito che nella raffigurazione del Cristo, si leggono tra le righe Ensor e l’Espressionismo. Cioè di un’arte che non teme di essere brutta. Sgradevole. Per l’artista di Ferrara, unica protagonista della Via Crucis, senza attenuanti, è la straziante sofferenza del corpo di un uomo. I polsi stretti dalle corde. Lo scherno del bastone incuneato che rimanda allo scettro regale. Gli occhi chiusi, la testa leggermente reclinata, la seminudità indifesa, sono gli elementi di un essere prostrato, vinto.
Donato Bramante, Cristo alla colonna
Tutte le stazioni di Previati possono essere viste come fotogrammi in sequenza con un ritmo che non è narrativo ma rappresentativo. Siamo di fronte ad un testo, ad un contenuto iconografico profondamente immerso nella tradizione della chiesa cattolica. L’artista elimina orpelli e dettagli fuorvianti. Ciò che ci vuol mostrare è il corpo del Cristo che diventa sempre più deforme. Con gli occhi che escono dalle orbite e quasi non vedono più. La bellezza statuaria del Bramante è un lontanissimo ricordo.
Fausto Politino
Laureato in filosofia, iscritto all’ordine dei pubblicisti di venezia e già collaboratore del Mattino di Padova. Ora scrivo per la Tribuna di Treviso. Potete seguirmi anche su Twitter: PolitinoF.
La mostra
GAETANO PREVIATI 1852-1920. LA PASSIONE. Fino al 20 maggio 2018. Milano, Museo diocesano Carlo Maria Martini, Chiostri di Sant’Eustorgio.