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Bohémien: gli hipster non hanno inventato nulla

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bohémien
Pierre-Auguste Renoir, La Bohémienne, dettaglio

Una parola molto interessante, che oggi diventerà il nostro punto di partenza per una riflessione tra arte, letteratura, cultura e stereotipi, è bohémien. Quante volte avremo sentito questa parola che subito ci riporta a un immaginario di vite artistiche vissute in maniera spericolata. Un po’ come canta Vasco Rossi, vite trasgressive, dissolute e fuori dagli schemi. Ed ecco che parte il nostro viaggio che ci porta subito in Boemia, terra d’origine degli zingari e regione storica dell’Europa centrale.

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Bohémien inizialmente stava a indicare uno zingaro, ma di conseguenza si riferiva anche alle persone stravaganti nel comportamento e nell’abbigliamento. Quindi lo stereotipo riguardò poi gli artisti, in grado di vivere delle vite in cui gli ideali erano contrapposti a quelli borghesi. Bohémien finì per accomunare poeti, musicisti e pittori apprendisti, non ancora famosi e di conseguenza squattrinati. Un termine che non si può tradurre in altre lingue e che conobbe una gran fortuna a partire dalla metà dell’Ottocento grazie a un romanzo. Si tratta di Scènes de la vie de Bohème, opera del giovanissimo Henri Murger, pubblicata a puntate sul giornale parigino Le Corsaire e poi raccolta in un unico volume.

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Henri Murger

Ma di che si tratta? È una storia molto vivace e in parte autobiografica in cui Murger racconta le vicende di un gruppo di giovani artisti. Ad accomunare questi ragazzi ci sono sogni di grandezza e difficoltà economiche, tra le soffitte parigine e i caffè del Quartiere Latino. Nell’intreccio del romanzo si sviluppano struggenti storie d’amore. Quella tra il poeta Rodolphe e la sartina Mimi, destinata a morire di consunzione. E quella tra il pittore Marcel e Musette, ragazza dalla vita dissoluta. Verso la fine del XIX secolo l’ininterrotta fortuna del romanzo conobbe un vero e proprio boom grazie alla versione operistica di Giacomo Puccini. La Bohème debuttò con un trionfo nel 1896 al Teatro Regio di Torino, battendo sul tempo l’opera omonima scritta e musicata da Leoncavallo.

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Un manifesto della Bohème

E la celebrazione dei bohémien va avanti nel tempo. Nel 1904 Michel Zamacoïs, scrittore francese, mise questo termine al centro di un poemetto recitato dalla più che sessantenne Sarah Bernhardt. In quest’opera assistiamo alle vicende dei giovani protagonisti della vita artistica parigina, sulla collina di Montmartre. Così con il passare del tempo questo termine si arricchì di sfumature, diventando anche un sinonimo di anticonformismo. Sono bohémien i giovani ed eleganti dandy, capaci di vivere senza regole, seguendo solo l’amore e la gioia d’esistere. Luogo privilegiato per quest’immaginario collettivo è Parigi in quanto centro di
produzione e mercato delle arti figurative nel XIX secolo. La città è lo scenario perfetto per il disagio di una generazione d’artisti di modeste origini sociali, affascinata dal mito dell’arte e costretta a una vita di ristrettezze.

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Zola nel 1875

Ma a condire le giornate di questi bohémien non c’è solo l’arte per l’arte, l’amore, la solidarietà di gruppo e i piccoli scherzi goliardici. C’è molto di più. Uno scontro tra l’artista e il pubblico borghese che nel tempo diventerà ideologico e inconciliabile. L’anticonformismo di questi giovani diventa il simbolo della differenza tra l’artista puro, incompreso e fedele
ai suoi ideali, e la società. Ancora una volta ci viene in soccorso la letteratura: lo scrittore Emile Zola ci racconta tutto ciò nel suo romanzo autobiografico L’Opera. Una gran voglia di andare controcorrente. Contro l’ordine borghese, contro le convenzioni,
contro il lavoro regolato, contro i salotti per bene e contro la politica patinata. Il compromesso tra artista e pubblico borghese non fu più raggiungibile.

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Edgar Degas, l’assenzio

Questa rottura diventò una condizione necessaria, un ingrediente fondamentale che insieme all’indipendenza creativa, all’insuccesso e alla mancanza di denaro crearono il bohèmien perfetto. Da questo punto di vista c’è un quadro formidabile di Edgar Degas. Nell’Assenzio del 1875-76 l’artista ritrae l’incisore Marcellin Desboutin seduto a un tavolo di caffè, al fianco di una donna persa nel guardare appunto un bicchiere d’assenzio. Qui abbiamo un focus preciso sul bohèmien parigino. Un personaggio costretto a superare con alcol o droga la distanza tra ambizioni e realtà. E potremmo aprire una parentesi enorme parlando dei cosiddetti pittori maledetti come Utrillo e Modigliani, ma questa è un’altra storia.

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Thomas Eakins, Il Bohémien

L’atelier diventò la sede privilegiata per il pittore bohèmiene e fu la conseguenza di una lunga tradizione partita da un gruppo di giovani artisti. Di questi contestatori rivoluzionari, cresciuti nell’atelier del grande David e conosciuti come Barbus, vi parlai già in passato. Ma non fu l’unico elemento ad anticipare la venuta dei bohèmien francesi. Troviamo infatti le stesse costanti tra Settecento e Ottocento in altre espressioni artistiche. Identità generazionale, abbigliamento strano, discussioni trasferite nelle trattorie e nei caffè. Tutti elementi che si ritrovano nella confraternita dei Nazareni come nelle comitive degli artisti
danesi a Roma. Oppure ancora negli incontri macchiaioli al Caffè Michelangelo di Firenze così come nell’affollato cabaret El quatre gats di Barcellona.

Insomma, osservando il bohémien dipinto da Thomas Eakins, pare proprio che in fondo gli hipster non abbiano inventato nulla di nuovo.

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Se ti interessa approfondire l’argomento segui i link:
➡ Il Dandy
➡ L’artista maledetto

C.C.

Questo post si avvale di contributi bibliografici vari che potete consultare qui

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L’Autoritratto tra Medioevo e Rinascimento

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L’Autoritratto tra Medioevo e Rinascimento
Parmigianino, Autoritratto

Con l’avvento del Medioevo, il genere autoritrattistico inizia a fare la sua comparsa, sebbene ancora non sia un genere a sé stante ma un inserimento all’interno di componimenti ben più ampi. Si parla infatti di “autoritratti ambientati o situati”. Questa tipologia serviva per porre ulteriormente l’accento sulla paternità dell’opera stessa che adesso non era solo riconducibile al suo creatore dai contemporanei, ma anche dalle generazioni successive che vi riconosceva l’artista.

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Non importava avere una corretta raffigurazione fisiognomica, ma quello che contavano erano le connotazioni sociali e professionali. Nel Medioevo l’artista era ancora visto come un mero artigiano che eseguiva dei lavori che gli venivano commissionati da altri. Senza quindi dover necessariamente avere quella caratura culturale della quale avrebbero goduto i pittori e gli scultori dei secoli a venire. Talvolta vi era anche un accostamento tra la figura dell’artigiano e del donatore, rappresentati insieme in preghiera. È questo il caso della decorazione che lo scultore Ursus realizzo di sé e del duca Ilderico tra il 739 ed il 740, sull’altare dell’Abbazia di San Pietro in Valle nella nostra vicina Ferentillo.

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Altre inserzioni dei volti degli artisti-artigiani ci vengono riportate dallo stesso Giorgio Vasari che riportò la notizia di alcuni autoritratti eseguiti da Giotto a Napoli (presso il cantiere di Castel Nuovo), a Gaeta (ove si sarebbe inserito in alcune scene del Nuovo Testamento) e a Firenze. Qui si sarebbe ritratto accanto a Dante nella Cappella del Podestà, nota anche come Cappella della Maddalena, nel Palazzo del Bargello (1334-1337).
Ma è in epoca Rinascimentale che si sviluppano l’uso e la tecnica del genere dell’autoritratto, che acquisisce sempre più dignità artistica e autonoma oltre che una vasta diffusione.

Sul piano tecnico, infatti, il proliferare di nuovi materiali e di nuove modalità di stesura del colore (si pensi in particolare alla pittura a olio) resero possibili notevoli miglioramenti nella resa sia disegnativa che coloristica e chiaroscurale dei dipinti stessi. Inoltre, il perfezionamento e la notevole diffusione dello specchio facilitarono il compito dei pittori nell’atto di autoritrarsi. Si impose un modello compositivo prevalente, ossia quello caratterizzato dallo sguardo obliquo del soggetto e dalla posa di tre quarti. Va però ricordato che è solo a partire dal 1516 che si iniziano a produrre (a Murano) specchi piatti come quelli che siamo abituati ad avere nelle nostre case.

Sino ad allora erano diffusi specchi convessi che generavano una distorsione ottica dal centro all’esterno del soggetto. Ciò rendeva particolarmente difficile la percezione della propria immagine riflessa e di conseguenza il suo trasferimento sul supporto scelto per autoritrarsi. Pensiamo all’Autoritratto entro uno specchio convesso che il Parmigianino realizzò nel 1524 e che donò a Papa Clemente VII per presentarsi, come fosse un suo biglietto da visita. Quello che cambia è anche la prospettiva culturale dell’uomo che si vede ora al centro del creato. Ciò porta ad un accrescimento dell’interesse nei confronti del suo volto umano. Sia per i suoi tratti fisiognomici che per quelli psicologici visibili attraverso le espressioni facciali, sfumature altamente ricercate e studiate.

L’uomo artista esce dalla sua condizione di mero artigiano, diventando una figura professionale a tutto tondo, fatta di gestualità creativa e culturale. Già sul finire del XIII secolo inizi XIV, l’artista inizia a frequentare i grandi letterati del tempo (vedi l’amicizia tra Simone Martini e Petrarca). Si compie, in circa due secoli, una forte scalata sociale dell’artista, ora in una posizione di assoluto prestigio culturale.

Marco Grilli

Storico e critico d’arte, ho fatto della cultura la mia mission. Ho curato mostre, realizzato pubblicazioni, redatto testi critici e sono entrato nel mondo digitale, qualificandomi come Content Manager 2.0. Il web è, infatti, la nuova “frontiera culturale” e l’arte è sempre più universale. Con questa consapevolezza possiamo diffondere il sapere.

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Ritratto d’uomo, Antonello da Messina

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Ritratto d’uomo
Antonello da Messina, Ritratto d’uomo

Poche personalità nella storia dell’arte hanno saputo creare immagini così magnetiche, espressive e coinvolgenti, come quelle realizzate da Antonello da Messina. L’artista nacque a Messina, in Sicilia, verso il 1430 e divenne il primo vero promotore della pittura a olio in Italia. Antonello affrontò diversi generi, ma la sua influenza fu decisiva nel ritratto. I personaggi rappresentati dall’artista guardano verso di noi, coinvolgendoci in un dialogo inedito. Prima di lui il ritratto dipinto in Italia veniva affrontato di profilo: l’ispirazione principale derivava dalle raffigurazioni degli imperatori romani sulle monete.

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Questo stile però produceva immagini distaccate e solenni che, se da un lato servivano comunque allo scopo di restituirci un ritratto fedele, dall’altro non permetteva allo spettatore di cogliere lo sguardo e le caratteristiche psicologiche del personaggio ritratto. Antonello da Messina quindi, grazie al suo contatto con l’arte fiamminga, introdusse in Italia la novità del ritratto di tre quarti.
Il Ritratto d’uomo risale molto probabilmente al periodo del soggiorno del pittore a Venezia, in un momento in cui era diffuso il gusto per la ritrattistica privata di piccolo formato. Non sappiamo chi sia il committente, ma il lungo cappello nero, che scende a punta sul petto, e la veste di colore rosso, definiscono un costume tipicamente veneziano, forse si tratta di un nobile. Le vicende del quadro ci sono ignote, ma sappiamo che arrivò nella collezione Borghese prima del 1790.

L’opera rappresenta un uomo ben vestito, ruotato di tre quarti e visibile solo fino al petto. Il fondo scuro da cui emerge mette in piena evidenza il suo viso: ha un’espressione intelligente e lo sguardo vivace. I tratti quasi scolpiti del volto, e lo sguardo ammiccante, dal sorriso contenuto, sono una delle caratteristiche nelle descrizioni fisionomiche del pittore siciliano. L’ultimo restauro ha ridato una completa leggibilità alla superficie dove ora possiamo vedere con chiarezza la forma della cuffia nera portata dall’uomo.

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Le striature scure del corpetto non sono un effetto voluto dall’artista, ma il risultato di un’antica pulitura con solventi a base di cloro che hanno cambiato il colore da rosso a nero. L’opera è uno dei capolavori della fase matura di Antonello, un artista che viaggiò molto e che seppe compiere una sintesi fra le due scuole principali dell’arte pittorica del Quattrocento: quella italiana e quella fiamminga.

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→ Il ritratto e la svolta di Antonello
→ Antonello da Messina e il ritratto dell’uomo
→ San Girolamo nello studio

C.C.

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I quattro filoni dell’Autoritratto

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I quattro filoni dell’Autoritratto
Michelangelo, Giudizio Universale, particolare

Si vengono così a delineare ben quattro filoni diversi inerenti il genere dell’autoritratto. L’autoritratto situato o ambientato (unica tipologia praticata nel corso del medioevo) che aprì la strada al “criptoritratto”. L’autoritratto autonomo (in cui la raffigurazione del pittore è unica protagonista dell’opera). Autoritratti delegati o simbolici o allegorici (in cui l’artista è rappresentato nei panni di altri personaggi storici, sacri o mitologici coerente ed integrato nella composizione) e, a partire dal XVII secolo, gli autoritratti di gruppo (di ambientazione sia familiare che professionale).

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Il primo filone, quello degli autoritratti ambientati segue ancora una impostazione tardo-medievale e fu particolarmente in voga sia nel Quattrocento che nei primi anni del Cinquecento. Basti pensare a Piero della Francesca che si ritrasse in preghiera nel Polittico della Misericordia (1444-1464). A Filippo Lippi nell’Incoronazione della Vergine (1441-1447). Ad Andrea Mantegna nella Presentazione al Tempio (1455), a Benozzo Gozzoli che nella Cappella dei Magi (1459) si ritrasse scrivendo il suo nome sul copricapo. A Sandro Botticelli nell’Adorazione dei Magi (1475), a Luca Signorelli che si ritrae vicino al Beato Angelico nella cappella di San Brizio nel Duomo di Orvieto (1499-1502).

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Questi sono solo alcuni degli esempi di autoritratto ambientato, che mostrano come l’artista inizi ad inserirsi nelle opere d’arte in punta di piedi. Inserendo il suo volto, o la sua persona, tra i vari personaggi ma ponendo lo sguardo al di fuori dell’opera, guardando dritto negli occhi lo spettatore. Agli inizi del XVI secolo l’autoritratto ambientato inizia a trasformarsi in autoritratto autonomo tant’è che il Perugino e il Pinturicchio raffigureranno i loro volti a mo’ di trompe-l’œil nei cicli decorativi. Rispettivamente, della Sala delle Udienze del Collegio del Cambio a Perugia (1500 circa) e della Cappella Baglioni nella Collegiata di Santa Maria Maggiore a Spello (1501). Più tardi il loro espediente sarà ripreso anche da Annibale Carracci in un Autoritratto su cavalletto, ma saremo già nel 1605.

I quattro filoni dell’Autoritratto
Pietro Perugino, autoritratto

La seconda metà del Cinquecento vede, allora, il pieno sviluppo dell’autoritratto autonomo, dovuto anche alla piena concezione, ora, dell’artista come intellettuale, figlio del genio creativo. Già nel 1450, però, il precursore Jean Fouquet realizzerà il suo autoritratto oggi conservato al Louvre. Questo sarà considerato il primo autoritratto autonomo della storia dell’arte e non solo. Tuttavia è stato ipotizzato che la persona raffigurata nel celebre Ritratto di uomo con turbante rosso (1433) di Jan Van Eyck sia proprio il pittore stesso. In questo modo la nascita dell’autoritratto come genere autonomo sarebbe anticipata di circa venti anni, e Fouquet ne perderebbe il primato. Queste sono, però, solo delle piccole gocce nel mare dell’autoritratto.

I quattro filoni dell’Autoritratto
Jean Fouquet, autoritratto

Gli autoritratti autonomi furono utilizzati con diverse finalità. Soprattutto ci si avvalse di questo genere per mostrare sia il proprio rango sociale, sia la propria fisionomia. Leonardo e Giorgione, però, sperimentarono la tecnica dell’autoritratto finalizzandola ad effetti volumetrici. L’effetto fu creato accentuando la rotazione del corpo come nel caso dell’Autoritratto di Budapest di Giorgione (1510). La sperimentazione di quest’ultimo fu portata quasi all’estrema conseguenza in ambito veneto. Qui la tridimensionalità fu favorita dalla scomposizione dell’immagine attraverso elaborati giochi di specchi, ulteriormente sviluppata nel corso del Seicento da artisti quali Johannes Gumpp.
Il terzo filone, quello degli autoritratti delegati, vede i massimi esponenti in terra fiamminga.

Già lo stesso Jan van Eyck nel Ritratto dei coniugi Arnolfini (1434) inserisce la sua immagine riflessa nello specchio posto dietro agli sposi, gli stessi che a loro volta vengono ritratti anche di spalle. In Italia sarà il Mantegna a riprendere questa tipologia ritrattistica e lo farà nel cantiere della Camera degli Sposi nel Castello di San Giorgio a Mantova.
Altro grande utilizzatore del genere dell’autoritratto fu il tedesco Albrecht Dürer. Nella sua vita realizzò una cinquantina di opere, rilevando quasi una attenzione ossessiva per la propria immagine e per l’affermazione della propria personalità. Sarà lui che realizzerà anche il primo nudo della storia dell’arte, quando sceglierà una posa innaturale ma fortemente espressiva per realizzare, tra il 1500 e il 1505, l’Autoritratto da nudo.

I quattro filoni dell’Autoritratto
Albrecht Durer, autoritratto da nudo

Celebre autoritratto delegato o simbolico o allegorico è quello di Michelangelo Buonarroti che nascose nel Giudizio Universale nella Cappella Sistina in Vaticano. San Bartolomeo, secondo la tradizione morto scuoiato, viene mostrato con le sembianze di Pietro Aretino e nell’atto di reggere la sua pelle. Evidente è però la differenza di sembianze fra il santo e quest’ultima, che infatti cela l’autoritratto del pittore. Il motivo che spinse Michelangelo a ritrarsi nell’affresco sta forse nel divieto che gli artisti operanti per il Vaticano avevano di firmare le loro opere. La Pietà della Basilica di San Pietro fu, infatti, segretamente firmata successivamente perché scambiata per una scultura classica. I possibili significati sottesi di questa particolare scelta caricano l’autoritratto di implicazioni autobiografiche, che purtroppo non è possibile approfondire in questo spazio.

I quattro filoni dell’Autoritratto
Diego Velázquez, autoritratto in Las Meninas

Nel corso del XVII secolo, invece, l’autoritratto rivede l’affermarsi della propria introspezione psicologica. Il Bernini nel 1623 si ritrarrà con una espressione corrucciata e con un taglio insolito, all’altezza delle spalle. Abbiamo la nascita e lo sviluppo dell’autoritratto di gruppo, il riaffermarsi dell’autoritratto allegorico oltreché la riaffermazione dell’autoraffigurazione in chiave professionale. Velázquez si ritrarrà in Las Meninas nel 1656 in una scenografia nobile, singolare e prodigiosamente elaborata.
Tra gli autoritrattisti di gruppo merita di essere citato Pieter Paul Rubens, considerato il principale esponente di questo filone.

Marco Grilli

Storico e critico d’arte, ho fatto della cultura la mia mission. Ho curato mostre, realizzato pubblicazioni, redatto testi critici e sono entrato nel mondo digitale, qualificandomi come Content Manager 2.0. Il web è, infatti, la nuova “frontiera culturale” e l’arte è sempre più universale. Con questa consapevolezza possiamo diffondere il sapere.

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Cristo alla colonna, Antonello da Messina

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Cristo alla colonna
Antonello da Messina, Cristo alla colonna

Il dipinto, eseguito intorno al 1476, mostra un soggetto religioso caro ad Antonello da Messina di cui sono state eseguite diverse varianti. Cristo alla colonna. Il celebre pittore siciliano, occupa un ruolo chiave nella storia dell’arte italiana per merito del suo stile rivoluzionario, figlio delle molteplici esperienze e dei viaggi dell’artista lungo tutta la penisola italiana che gli permisero, tra l’altro, di entrare in contatto sia con la pittura nord-europea che con quella spagnola. Proprio per questa ragione, Antonello, riuscì a dare vita a quel straordinario mix tra arte italiana, con la sua compostezza formale, e quella fiamminga, dominata dalla luce e da un interesse per il naturalismo.

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Dall’arte fiamminga il pittore siciliano prese anche la tecnica della pittura a olio, ancora sconosciuta in Italia, attraverso la quale riuscì a rendere, in modo così suggestivo e realistico, la lucentezza e la trasparenza delle lacrime del Cristo che possiamo notare nel dipinto. Il Cristo di Antonello, dunque, piange e piange lacrime vere; lacrime che non erano mai state così vere nella pittura italiana, prima di lui.  Insieme a queste, cadono delicatamente sulle carni bianche e rosate del Cristo, anche le gocce di sangue causate dalla corona di spine che, insieme ad altri dettagli, quali la bocca socchiusa e la posizione del volto ravvicinata e di tre quarti, contribuiscono a rendere, questa raffigurazione religiosa, di grande impatto emotivo.

L’artista scelse anche un formato dell’opera molto ridotto che la fa sembrare quasi un semplice ritratto e aiuta a focalizzare l’attenzione dello spettatore sul volto e sull’intensità dell’espressione di Cristo. Il pittore aveva anche una profonda conoscenza delle regole della prospettiva e lo vediamo bene nel dettaglio della corda che sembra poggiare sul bordo della tavola, come sul davanzale di una finestra. L’innovativo Cristo alla colonna di Antonello da Messina ebbe probabilmente un enorme successo, a giudicare dal numero di repliche e copie che sono sopravvissute fino a noi.

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La piccola dimensione indica che si tratta di un dipinto eseguito per la devozione privata che nel XV secolo produsse molte commissioni, invitando alla meditazione. Sicuramente ci troviamo di fronte a un’opera capace di instillare nell’osservatore, una sentita compassione per il dolore dell’uomo. Il Cristo che ci sta davanti non è una figura vuota e lontana, è lacrime e sangue, è sentimento ed emozione. Il Cristo di Antonello è l’uomo.

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→ Antonello da Messina e il ritratto dell’uomo
→ San Girolamo nello studio
Cristo in pietà e un angelo

C.C.

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L’Autoritratto dal XVII secolo ad Oggi

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L’Autoritratto
William Hogarth, Autoritratto con il cane

Al pari di Dürer il Seicento vede la figura di Rembrandt, che si dedicò all’autoraffigurazione con particolare costanza e dedizione, lasciando quarantasei opere, che condensano tutti i filoni tipici della produzione seicentesca. Le sue creazioni possono essere considerate il percorso della sua vita tanto sono intrise di sensazioni, emozioni e pensieri. La terza fase della sua vita, quella segnata dalla morte della moglie e successivamente del figlio, vede la manifestazione del dolore e della sofferenza emotiva nella produzione artistica. Lo vediamo attraverso il disfacimento della pennellata, l’eliminazione della luminosità e il venir meno di quella squillante precisione che caratterizzò la sua produzione giovanile.

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Le ricerche di Rembrandt chiusero idealmente questo lungo periodo di sperimentazione intorno al genere autoritrattistico che interessò i secoli XV, XVI e XVII.
Il XVIII secolo vide il ritorno dell’autoraffigurazione dell’artista come tale, così come fu per Perugino, Pinturicchio e gli altri grandi artisti del Quattrocento. Quello che ora interessa è raccontare se stessi attraverso la propria immagine. È questo il secolo dell’Illuminismo dove la ragione ed il pensiero umano la fanno da padrone, così come la necessaria riaffermazione del proprio io artista e studioso.

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Il XIX secolo, invece, guardò alla riscoperta della introspezione psicologica oltre che alla rappresentazione di sé. Courbet, per esempio, ricercò sempre la propria rivendicazione sociale, basti pensare a L’Atelier (1854-1855), opera che rappresenta simbolicamente la storia della propria carriera di pittore. Anche Corot, Pissarro e Monet prestarono sempre attenzione all’immagine che volevano dare di sé e del proprio ruolo nella società.

Gustave Courbet, L’atelier del pittore

Sul finire del secolo, col progredire degli studi di Sigmund Freud, l’introspezione psicologica si fece sempre più profonda e drammatica. A cambiare è anche la dimensione sociale in cui gli artisti si trovarono a vivere, non più professionisti dalla notevole caratura culturale e dal grande riconoscimento sociale ed economico. Bensì, sempre più spesso, personalità isolate in un mondo borghese da loro giudicato ipocrita e conformista. Esempio lampante fu la produzione artistica di Vincent Van Gogh, che fece un racconto autobiografico attraverso la rappresentazione della propria immagine. Di certo non meno importanti furono anche Gauguin e Munch, ossessionato alla propria immagine il primo, attento all’inconscio il secondo. L’Urlo ne è un chiaro e forte esempio.

Edvard Munch, l’urlo

Il Novecento vide un graduale abbandono dell’autoritratto. Sebbene la sensibilità espressionista diede vita a raffigurazioni in cui il tormento interiore, l’alienazione sociale e il racconto della tragedia bellica sono le vere protagoniste e il futurismo, surrealismo e Nuova Oggettività continuino ad avvalersi in parte di questo genere, è con l’avvento dell’astrattismo che inizia a cessare la sua funzione che lo aveva visto nascere, crescere e svilupparsi. Eccezioni sono le opere di Frida Kahlo, Andy Warhol e Bacon, che non mi è possibile qui approfondire.

Finisce qui questa breve ma assai intensa carrellata sulla storia dell’autoritratto, che non vuole affatto essere esaustiva ma spunto da cui avviare ricerche ed approfondimenti. Ho voluto porre l’accento su quanto un genere così diffuso abbia prodotto e dato vita a significati talvolta completamente diversi tra loro. Significati spesso ispirati al periodo che li ha prodotti.
La sua importanza nella contemporaneità venne meno perché la condizione umana e sociale non sentiva più quella forte necessità della propria autoaffermazione, salda dei propri valori e della propria posizione all’interno dell’Universo.
Oggi, forse, la crisi dei valori sociali e umani e un forte senso di smarrimento hanno riportato in auge la necessità di una riaffermazione della propria individualità e della propria utilità per l’esistenza. E ci pensiamo bene i nostri selfie non sono dei contemporanei autoritratti?

Marco Grilli

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Gabinetto Canova

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Gabinetto Canova
Antonio Canova, Perseo trionfante

Antonio Canova occupa un posto di rilievo nella storia dell’arte, ma soprattutto nel contesto dei Musei Vaticani. L’artista originario di Possagno, piccolo paese del nord-est Italia, ricoprì a Roma l’incarico di Principe dell’Accademia d’arte di San Luca e di Ispettore Generale delle Antichità e delle Arti dello Stato della Chiesa. Nel Gabinetto del Canova sono conservate tre statue commissionate, intorno al 1800, da papa Pio VII al celebre artista per sostituire le sculture trafugate dalle truppe di Napoleone.

La prima al centro raffigura Perseo trionfante con l’elmo di Plutone, la spada di Vulcano, i sandali di Mercurio e in mano la testa di Medusa. La leggenda vuole infatti che l’eroe greco, figlio di Zeus, si procurò tutti gli oggetti per poter uccidere Medusa, essere mitologico con al posto dei capelli un groviglio di serpenti e dallo sguardo pietrificante. L’opera suscitò un immediato entusiasmo da parte dei contemporanei che ammirarono la dolcezza della forma e la plasticità della posa. Perseo appoggia solo con le punte dei piedi a terra mostrando la testa di Medusa come trofeo.

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L’eroe non avrebbe dovuto guardare negli occhi Medusa perché quest’ultima lo avrebbe pietrificato solo attraverso lo sguardo. Nella versione di Canova invece, nonostante Medusa sia priva del corpo, il semidio sta guardando il mostro negli occhi e quindi si narra che l’opera dello scultore fosse effettivamente il corpo pietrificato di Perseo. Notate come l’artista si ispirò nella realizzazione dell’opera all’Apollo del Belvedere, simile per posizione, carica espressiva e proporzioni. Perseo è nudo e ci ricorda proprio la tipica nudità degli dei greci, la cui grandezza e solennità influenzò l’arte occidentale. Dall’antica Roma al Neoclassicismo di Antonio Canova.

Gabinetto Canova
Antonio Canova, Kreugas e Damoxenos

Le altre due statue rappresentano i pugili Kreugas e Damoxenos ritratti nel corso dei Giochi Nemei, simili alle Olimpiadi, quando, essendo stato concesso a ciascuno di loro un solo ultimo colpo per concludere la lotta, Damoxenos di Siracusa trapassò l’avversario nel ventre cavandogli le viscere per ottenere la vittoria. I giudici, inorriditi, squalificarono l’atleta e lo condannarono all’esilio, decretando il successo del morente Kreugas. Il Canova espresse tutta la concentrazione nella rigidità degli arti dei due pugili colti nell’istante prima della tragedia. L’ignaro Kreugas e il folle Damoxenos sono i protagonisti di un improvviso atto di fatale forza drammatica.

Scopri di più …

→ Ritratto di Paolina Borghese, Antonio Canova
→ Amore e Psiche, Antonio Canova

C.C.

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Shopping natalizio? c’è il negozio di Artesplorando

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Shopping natalizio

Shopping natalizio? Come al solito si avvicina il periodo delle feste e non sappiamo mai cosa regalare. Sopratutto come coniugare due aspetti fondamentali: originalità e risparmio. Niente panico, c’è il negozio di Artesplorando. Se avete voglia di fare o farvi un regalo e allo stesso tempo aiutare il blog che esplora l’arte, ecco la soluzione. Potete soddisfare il vostro shopping natalizio andando direttamente al negozio di Artesplorando: shop.spreadshirt.it/artesplorando/. Troverete anche delle simpatiche idee a tema natalizio tra cui anche un curioso Napoleone in versione … Babbo Natale.

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In particolare oggi voglio parlarvi di una serie di gadget che ho deciso di chiamare “silhouette ad arte”. Si tratta di immagini principalmente ispirate ai più grandi capolavori della storia dell’arte semplificati. Potrete così portarvi a casa la silhouette della Gioconda di Leonardo, della Venere del Botticelli o di Golconda di Magritte. Un modo per avere un’opera d’arte con voi, in maniera del tutto originale.

Shopping natalizioShopping natalizio

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Vincenzo Peruggia e il furto del secolo… al Louvre

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Vincenzo Peruggia
Foto segnaletica di Vincenzo Peruggia

Il 21 Agosto del 1911, verso le 7 di mattina, Vincenzo Peruggia entra furtivamente al Louvre nel suo giorno di chiusura. Si direziona verso la Gioconda di Leonardo Da Vinci, libera l’opera dalla cornice, nasconde la tavola di pioppo sotto alla sua giacca, e se la porta via con sé. Ma chi era Vincenzo Peruggia? Noto decoratore italiano, Peruggia nasce a Dumenza (in provincia di Varese) nel 1881. Appreso, in giovane età, il mestiere di imbianchino e verniciatore, segue dapprima il padre a Lione. Emigra poi in cerca di lavoro a Parigi nel 1907, dopo che sei anni prima fu scartato dalla leva obbligatoria a causa del suo corpicino esile.

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Vista la lontananza con l’Italia e l’impossibilità di far visita alla famiglia, egli manterrà con quest’ultima una ricca corrispondenza epistolare, nella quale racconterà sempre la sua quotidianità. Parigi, però, non gli porterà molta fortuna. Dopo poco che la raggiunse si ammalò di saturnismo, malattia dovuta all’intossicazione da piombo, presente nelle vernici utilizzate dagli imbianchini. In seguito al furto del 1911, fu processato, dopo essere rientrato in Italia, il 5 Giugno del 1914 dal Tribunale di Firenze e condannato ad una reclusione di un anno e quindici giorni per furto aggravato. Nell’appello del 29 Luglio la pena fu ridotta a sette mesi e otto giorni di reclusione.

Scarcerato immediatamente, Peruggia partecipò alla Prima Guerra Mondiale e dopo la disfatta di Caporetto finì in un campo di prigionia austriaco. Terminata la Guerra, il 26 Ottobre del 1921 si sposa e fa ritorno in Francia grazie ad un espediente. Sulla carta di espatrio sostituisce il primo nome (Vincenzo) con il secondo (Pietro), potendo così rientrare nel Paese che aveva derubato e che nuovamente ingannò. Nel 1924 gli nasce la sua unica figlia, Celestina (che tutti in Francia chiamavano “Giocondina”), recentemente scomparsa nel Marzo 2011. L’8 Marzo del 1925, Vincenzo Peruggia lascia la sua vita terrena a causa di un infarto.

Vincenzo Peruggia
Leonardo Da Vinci, La Gioconda

Ma come avvenne il furto? Verso le sette di mattina, Peruggia entra nel Louvre, passando per la porta Jean Goujon, solitamente utilizzata dagli operai. Senza che nessuno si accorgesse della sua presenza, raggiunse il Salon Carré, dove era il quadro della Monna Lisa. Dopo averlo staccato dalla parete, si diresse verso la scaletta della Sala dei Sept Maitre dove si disfò della cornice e del vetro. Giunto in un cortile interno poco frequentato, si servì della giacca che indossava per nascondere l’opera.

Uscito dal museo senza essere fermato, salì su di un autobus per farsi portare a casa. Accortosi di aver sbagliato tratta, scese poco dopo e si fece accompagnare da una vettura, nella sua casa in rue de l’Hopital Saint Louis, dove nascose la Gioconda. Dovendo tornare al lavoro, giustificò il suo ritardo dicendo di essersi ubriacato il giorno precedente e di subirne ancora le conseguenze. L’opera fu però presto spostata in quanto Peruggia temeva che l’umidità della sua casa potesse danneggiarla. Per questo motivo l’affidò al connazionale Vincenzo Lancellotti che abitava nel suo stesso stabile. Trascorso un mese, dopo aver costruito un’apposita cassa, lo riprese e lo tenne con sé.

Il furto fu scoperto solo il giorno seguente, martedì 22 Agosto 1911, quando due artisti si diressero al salone Carré per studiare le opere dei grandi maestri, ma non vi trovarono più la Gioconda. Avvisato il capo della sicurezza, in poco tempo nella sala si riunirono il direttore del museo, il sottosegretario di Stato alle Belle Arti, il capo della polizia e il prefetto di Parigi. Tutte le uscite del Museo furono bloccate e ogni visitatore perquisito. Ma del quadro non vi era traccia. Ci si accorse che la porta utilizzata dagli operai era stata forzata, quindi si interrogarono tutti gli operai che lavoravano presso la struttura museale.

La cittadinanza fu mobilitata a fornire informazioni riguardo a qualsiasi anomalia avessero riscontrato. Gli “Amici del Louvre” arrivarono a offrire una ricompensa di venticinquemila franchi per chi avesse dato informazioni valide. Nel frattempo furono erroneamente arrestati anche Guillaume Apollinaire (che diverrà noto critico d’arte) e Pablo Picasso che riuscirono, però, a dimostrare la loro estraneità ai fatti. Escluso anche il personale stabile del museo, ci si rivolse a indagare sui decoratori, imbianchini e muratori che lì lavoravano. La stanza di Peruggia fu perquisita ma l’opera non fu trovata in quanto nascosta in uno scomparto dell’unico tavolo che egli possedeva.

Nel 1913 il collezionista d’arte fiorentino Alfredo Geri, organizzò una mostra nella sua galleria, chiedendo ai privati, tramite un annuncio sui giornali, di prestargli alcune opere. Da Parigi ricevette una lettera con la quale gli veniva proposta la vendita della Gioconda a patto che fosse conservata ed esposta in Italia. Consigliatosi con Giovanni Poggi, direttore della Regia Galleria di Firenze, Alfredo Geri organizzò un incontro con Monsier Léonard V. (come si firmò Vincenzo Peruggia) per l’11 Dicembre 1913 presso un albergo di Firenze. Geri si presentò con Poggi che prese in custodia il quadro per esaminarlo. Il giorno seguente Peruggia fu arrestato dai Carabinieri nella sua stanza d’albergo.

Perchè il furto della Gioconda? Vincenzo Peruggia dichiarò sempre di aver compiuto questo furto per puro spirito di patriottismo, poiché la visione su di un opuscolo dei quadri italiani, portati in Francia da Napoleone, provocò in lui un senso di vendetta. Voleva restituire all’Italia almeno uno di quei dipinti, non gli importava quale. Inizialmente, infatti, aveva pensato alla “Bella Giardiniera” di Raffaello, ma le eccessive dimensioni lo avevano dissuaso. Ironia della sorte, Peruggia rubò l’unica opera che non fu trafugata da Napoleone, in quanto Leonardo, molto probabilmente, la portò in Francia con sé quando fu chiamato alla corte di Francesco I, poiché non riusciva mai a considerarla un’opera finita essendo, la realtà, è in continua mutazione. L’opera risulta, infatti, già attestata e presente nelle collezioni reali sin dal 1625.

L’immediata condanna e l’ottimo lavoro delle autorità italiane, permise un maggior dialogo e amicizia con lo Stato francese, che concesse un lungo periodo di esposizione della Gioconda, presso le principali istituzioni museali italiane (gli Uffizi a Firenze, Palazzo Farnese e Galleria Borghese a Roma) prima del suo definitivo rientro. La Monna Lisa arrivò a Modane (Francia) su un treno speciale delle Ferrovie Italiane, per essere poi portata a Parigi dove nel salone Carré del Musée du Louvre. L’attendeva il Presidente della Repubblica Francese e tutto il Governo al gran completo.

Marco Grilli

Storico e critico d’arte, ho fatto della cultura la mia mission. Ho curato mostre, realizzato pubblicazioni, redatto testi critici e sono entrato nel mondo digitale, qualificandomi come Content Manager 2.0. Il web è, infatti, la nuova “frontiera culturale” e l’arte è sempre più universale. Con questa consapevolezza possiamo diffondere il sapere.

Continua l’esplorazione …

Per scoprire la storia del ritrattismo segui l’etichetta #ritrattieritrattisti

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Buone Feste 2017 da Artesplorando

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Buone Feste 2017

Come ogni anno l’arrivo delle feste natalizie porta con sé la mia cartolina di auguri per voi carissimi Artesploratori, ma anche una serie di riflessioni di fine anno. Intanto la cartolina di quest’anno. Ho pensato a un bel collage ironico selezionando una serie di incursioni improbabili di Babbo Natale nel mondo dell’arte ☺. Quest’anno quindi un tocco di leggerezza e di ironia che in effetti credo contraddistingua da sempre Artesplorando. Dopo tutto l’hashtag #parodieadarte fa proprio parte ormai dei post abituali che ritrovate nei molti social network legati al blog che esplora l’arte.

E parlando di social non posso che ringraziarvi per l’anno ricco di soddisfazioni. È anche un momento per ricordarvi tutti i modi con cui potete interagire con Artesplorando, commentare, conoscere e condividere la vostra passione per l’arte.
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Per non dimenticare la presenza su Google  Plus, Pinterest e Tumblr.

Nel canale Youtube hanno preso il via nuove rubriche-playlist che vi invito a scoprire.
I Quick Art, brevissimi video in cui vi diamo un assaggio di ciò che offre Quick Museum, l’app realizzata da Artesplorando in collaborazione con Arternative. Un prodotto che permette all’appassionato d’arte di portarsi in tasca i principali musei del mondo, per viverli in un modo completamente nuovo.
Al museo con Artesplorando, brevi video in cui cercherò di portarvi con me in visita ai più grandi musei del mondo attraverso 10 opere.
Gli Audioquadri, pillole di storia dell’arte realizzate in collaborazione con Area51editore.
Le Artesplorazioni, approfondimenti su artisti, temi e movimenti nella storia dell’arte.

Ma la vera novità dell’anno è stato il completo restyling del blog. Una vera rivoluzione che grazie a Valentina d’Angelo, graphic e web designer, ha permesso una riorganizzazione dei contenuti e un aggiornamento dell’aspetto grafico del blog. Artesplorando 2.0 ha inoltre integrato nuovi servizi tra cui un negozio con tanti gadget personalizzati e due aree della home page che mensilmente vengono aggiornate proponendovi contenuti in vetrina. Non voglio infine dimenticare la newsletter a cui potete iscrivervi per ricevere una volta al mese gli aggiornamenti dal blog. Oltre a tutto ciò ci saranno ovviamente altre novità in arrivo, per coinvolgervi sempre di più. Quindi non resta che dirvi …

Buone Feste Artesploratori 🎅

Artesplorando si prenderà un paio di settimane di vacanza per riordinare le idee e tornare più carico di prima. Per cui arrivederci al 2018!

C.C.

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I due coretti dipinti nella cappella degli Scrovegni

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I due coretti dipinti nella cappella degli ScrovegniNella storia della natura morta, genere al quale spesso ritorno per piacere personale, c’è un momento cruciale d’evoluzione verso la modernità. Un momento legato a un artista che ha introdotto la modernità dell’arte occidentale: Giotto. Ed è un momento segnato da i due coretti dipinti nella cappella degli Scrovegni a Padova. Siamo nei primi anni del Trecento, un momento di trasformazione e cambiamento nella storia dell’arte e anche nella natura morta. I due coretti dipinti nella cappella degli Scrovegni sono dei riquadri dipinti che cercano di dare l’illusione di uno spazio che non c’è. La vista è dal basso verso l’alto e scorgiamo una balaustra in muratura e parti superiori di due cappelle con volta a crociera, ovvero una specie di X.

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Al centro delle volte pendono due lanterne in ferro battuto, dietro le quali sono collocate delle alte finestre gotiche chiamate “bifore”, perché divise in due da un un elemento centrale. Ma l’illusione non si ferma qui. Giotto sceglie di decorare le pareti dei finti coretti con delle riquadrature monocrome. Insomma siamo di fronte a uno dei primi e forse il primo vero trompe-l’oeil moderno. Certo è vero che la prospettiva non è ancora molto precisa, ma qui la pittura, dopo molti secoli, tenta di riprodurre fedelmente la realtà. Tenta di ingannare lo spettatore.

Lo spazio riconquistato

Grazie a questi due semplici coretti, che quasi passano in secondo piano rispetto alla maestosità della cappella Scrovegni, l’artista riconquista lo spazio. Giotto anche nel campo della natura morta ha aperto la strada verso la modernità.

Scopri di più …

Se ti piace il genere della natura morta, resta ancora nel blog e scopri altri articoli:
→ Mercati e cucine
→ I vasi di fiori di Ludger tom Ring
→ Grottesche e festoni nella bottega di Raffaello
→ Jacopo de’ Barbari e il primo trompe-l’oeil
→ La Brocca di Hans Memling
→ Sebastian Stoskopff: Vanitas
→ Vincenzo Campi
→ Willem Claesz. Heda
→ Nature morte (non morte): fiori fiamminghi
→ Mario dei Fiori
→ Lo Scarabattolo, Domenico Remps
→ Nature morte (non morte) – la brioche
→ Francisco de Zurbaran
→ Luoise Moillon
→ Fede Galizia
→ Nature morte (non morte) – Caravaggio
→ Acqua
→ Pesci
→ La natura morta

Questo post si avvale di contributi bibliografici vari che potete consultare qui

C.C.

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Puppy, Jeff Koons

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Puppy
Jeff Koons, Puppy

Jeff Koons ha raggiunto fama internazionale a metà degli anni Ottanta come parte di una generazione di artisti che hanno esplorato il significato dell’arte in un’epoca di saturazione dei media e conseguente crisi della rappresentazione. Le opere di Koons costituiscono dei veri e propri monumenti al kitsch, cioè al cattivo gusto. Monumenti che celebrano la nostra epoca dell’usa e getta, un’epoca che richiede sempre più spettacolarità per attirare l’attenzione del consumatore.

Attingendo al linguaggio visivo della pubblicità, del marketing e dell’industria dell’intrattenimento e con l’intento dichiarato di “comunicare con le masse”, Koons ha messo alla prova i confini tra la cultura popolare e quella dell’élite. Da bravo ex commerciante, l’artista inserisce spesso dei beni di consumo nelle proprie opere. Possiamo quindi trovarci di fronte a un aspirapolvere o a un pallone da basket al centro di un acquario o chiusi in una lastra di plexiglass.

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Per ottenere i risultati più strabilianti, Koons arriva anche a ricercare nuovi materiali adatti alla singola opera del momento. Tutto ovviamente senza fare caso ai costi. Anche perché le opere di questo artista raggiungono cifre a sei zeri.
Qui possiamo osservare un’opera ideata nel 1992: Puppy. Un gigantesco, morbido e tenero cucciolo. Una scultura fatta per essere installata all’aperto, in cortili o giardini. Ma non si tratta di una scultura qualsiasi. A ben guardare infatti noterete che è interamente composta da piante in rigogliosa fioritura. Tutta l’opera è costruita con terra, legno, acciaio e piante, quindi, come facilmente comprensibile, destinata all’autodistruzione. Ed è per questo motivo che è stata replicata più volte in diverse sedi espositive tra cui lo Schloss Arolsen in Germania e il Museo Guggenheim di Bilbao.

Il Puppy di Bilbao

L’immagine che vedete qui in particolare si riferisce proprio al Puppy presente a Bilbao, a guardia dell’ingresso del museo. Un tenero cucciolo che si erge maestoso, ma che allo stesso tempo ci può far riflettere sulla transitorietà della vita.
Non è un’opera destinata a sopravvivere secoli e secoli come le piramidi in Egitto, ma è frutto della cultura contemporanea. Una cultura che forse si sofferma sempre meno sulle cose, sulla bellezza che inesorabilmente è destinata a sfiorire, proprio come i fiori che ricoprono Puppy.

C.C.

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Ebe, Antonio Canova: movimento e grazia

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Ebe
Antonio Canova, Ebe

Winckelmann, il più importante teorico del neoclassicismo, affermò che le qualità principali che una statua deve racchiudere, per essere chiamata “opera d’arte”, sono movimento, calma e compostezza. Tutte qualità che ritroviamo nell’Ebe di Antonio Canova. Una scultura simbolo della giovinezza che passa. Raffigura una giovane donna mentre accenna un passo, lieve, quasi danzante. Le vesti sono mosse da un lieve vento che le sospinge all’indietro rivelando le forme di un corpo perfetto. Quella che vediamo qui è l’ultima di quattro sculture che Canova eseguì sullo stesso soggetto ed è conservata nella Pinacoteca civica di Forlì.

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Si tratta di Ebe, il corrispettivo femminile di Ganimede, coppiere degli dei nella mitologia classica. È un soggetto rarissimo da ritrovare nella storia dell’arte e quindi non conosce molti precedenti classici. Il tema, le dimensioni medie che vanno poco oltre il metro e mezzo di altezza e il dinamismo di quest’opera, la rendono molto adatta a decorare la sala da pranzo di collezionisti e nobili mecenati. Canova scolpisce e colora il marmo con tocchi di rosso sulle labbra e sulle guance e con una patina dorata mista a cera sulle parti nude che così contrastano con le vesti bianche. Non solo, la coppa, l’anfora, la collana e il nastro che raccoglie i capelli di Ebe, sono tutti dettagli realizzati in bronzo dorato.

In questo modo Canova è molto fedele alle usanze classiche: le statue dell’antica Grecia erano colorate, come si tramanda dello stesso Prassitele e spesso avevano dettagli realizzati con altri materiali. Ma in questa giovane e bellissima Ebe, l’artista infonde una grazia e una purezza che raramente ritroviamo in arte. La materia inerte diventa morbida carne, diventa viva. Qui il detto “freddo come il marmo” non è mai stato più sbagliato, perché sentiamo calore, percepiamo movimento e palpito vitale. Un movimento e una grazia che incarnano la bellezza ideale.

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Ritratto di Paolina Borghese, Antonio Canova
→ Amore e Psiche, Antonio Canova

C.C.

Questo post si avvale di contributi bibliografici vari che potete consultare qui

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Sostieni Artesplorando e fai shopping all’insegna dell’arte

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Quando vogliamo farci un regalo, ma ancor di più quando lo facciamo agli altri, si apre il dilemma di come coniugare due aspetti fondamentali: originalità e risparmio. Beh, oggi potrai farlo e allo stesso tempo aiutare il mio progetto di divulgazione artistica. Come? Sostieni Artesplorando e fai shopping all’insegna dell’arte attraverso il negozio. Puoi darci un’occhiata subito andando all’indirizzo: shop.spreadshirt.it/artesplorando/. Troverai tante simpatiche idee regalo.

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In particolare oggi voglio parlarti di una serie di gadget che ho deciso di chiamare “citazioni ad arte”. Si tratta di una serie di citazioni memorabili sull’arte, fatte dalle più grandi personalità. Dalla letteratura, alla scienza, alla musica, moltissimi geni hanno almeno una volta concentrato i propri pensieri sull’arte. Qual è il suo scopo? cosa deve rappresentare? come la si può definire? quali emozioni deve alimentare? Tutte domande che hanno generato grandi pensieri che potrai portare con te su una maglietta, su un cuscino o su una felpa.

Shopping all’insegna dell’arte

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Rivoluzione Galileo: l’arte incontra la scienza

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Rivoluzione Galileo
Pieter Paul Rubens, l’origine della via lattea

Galileo Galilei. Il suo nome dovrebbe essere noto a tutti. Ma quanti sono quelli che lo conoscono veramente? Chi volesse riscoprire uno dei massimi protagonisti nel campo scientifico e artistico della realtà culturale italiana ed europea, adesso ne ha l’occasione. Andare a Padova. Per immergersi nella mostra Rivoluzione Galileo curata da Giovanni Villa e Stefano Weppelmann. Con Galileo finisce il metodo della non scienza. Perché capovolse il modo di studiare e di relazionarsi con la natura e i suoi fenomeni. Durante i diciotto anni trascorsi nell’Università di Padova, dal 1592 al 1610, applica le leggi della matematica alla decodificazione della natura.

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E quindi l’impostazione del percorso che determina il superamento dell’Umanesimo rinascimentale e l’imporsi della nuova era all’insegna della scienza sperimentale. Percorso che nella prima sala della mostra è individuabile nel ritratto di Galileo dipinto da Santi di Rito intorno al 1601, con lo sguardo curioso e consapevole diretto sull’osservatore. L’immagine incarna lo studioso prima delle sue scoperte negli anni padovani che ne avrebbero consacrato il genio. I responsabili dell’allestimento, Emilio Alberti e Mauro Zocchetta hanno sistemato accanto al dipinto la poesia di Primo Levi, Sidereus Nuncius, del 1984 che fa parlare in prima persona il grande pisano traducendone la tensione emotiva. “Ho visto Venere bicorne/ Navigare soave nel sereno. /Ho visto valli e monti sulla luna / E Saturno trigemino /Io Galileo, primo fra gli umani…”.

Rivoluzione Galileo
Galileo Galilei, le sei fasi lunari, 1609

Galileo allora come Ulisse il polymetis, l’uomo dalle molte menti e dalle molte arti. O come novello Prometeo che svela la vera faccia del cielo e spiana la strada alla scienza moderna. La prima sala comprende anche l’opera di Anish Kapoor sulle teorie contemporanee di un universo in costante contrazione ed espansione. Un blocco geometrico creato nel 2006 che contiene all’interno un’allusiva idea di cosmo che naviga senza meta nel vuoto atmosferico. Sala d’esordio che chiarisce il progetto alla base della mostra: far coesistere le varie articolazioni della conoscenza sotto l’egida dell’arte. Offrire gli strumenti per capire un uomo, la sua storia, la nostra storia.

Un uomo giudicato “la mente più grande di tutti i tempi” da Ugo Grozio. “Il padre della fisica moderna e soprattutto delle scienze naturali moderne” da Einstein. Perché Galileo non ha solo indirizzato il suo cannocchiale in alto, verso il cielo ma lo ha anche rivolto in basso. Ideando un occhialino per vedere da vicino le cose più piccole. E “il più grande scrittore della letteratura italiana di ogni secolo” da Italo Calvino. Credo che il giudizio di quest’ultimo sia motivato anche dalla scelta di Galileo di adottare il volgare nello scrivere le sue opere invece del latino. Per farsi capire da un pubblico più vasto. Usando una terminologia curata e precisa a fondamento della divulgazione del progresso scientifico.

Giacomo Balla, Mercurio che passa davanti al sole

Per documentare la Rivoluzione Galileo il curatore Villa espone nella sede del Palazzo del Monte di Pietà, una serie importante di lavori artistici. A partire da quelli dello stesso fisico pisano. Nel 1609 con il cannocchiale che ha costruito osserva la luna, narrandone in seguito le “catene di monti e di profonde valli”. Capace di illustrarle dimostrando di essere un provetto pittore. Una luna che Galileo impressiona in una serie di bellissimi acquarelli: le sei fasi lunari. Abilissimo nel suggerire la conformazione fisica della luna. Alternando le ombre alle luci. Nella mostra le gigantografie dei disegni, ripresi dal Sidereus Nuncius, sono affiancate alle immagini della Nasa. Ed è strabiliante poter osservare quanto le sue osservazioni fossero pertinenti e corrette. Ma la rassegna vuole sottolineare soprattutto una fase epocale della storia della cultura. E cioè il passaggio dal cielo degli astrologhi al cielo degli astronomi.

Si parte dall’idea di cosmo di Aristotele e Tolomeo per arrivare al cielo di Copernico. Perché è con lui che i matematici iniziano ad occuparsi dello spazio. Troviamo così le rappresentazioni grafiche più famose del Cinquecento. Su tutte la Mappa celeste boreale e la Mappa celeste australe di Albrecht Durer. I disegni di Leonardo. Le raffigurazioni dei Quattro elementi dei Brueghel: il fuoco l’aria l’acqua e la terra, i fondamenti che costituiscono l’universo. Si passa quindi all’origine della Via Lattea di Rubens (1636/38) proveniente dal museo del Prado. Un quadro esuberante con la madre che schizza dal seno latte copioso, stimolato dall’energico morso del piccolo Ercole. E poi la tela di Tintoretto che affronta lo stesso soggetto. Particolare attenzione meritano Atlante del Guercino. Secondo il mito, condannato da Zeus a portare il peso della volta celeste per l’eternità. Il progetto espositivo si conclude offrendo opere contemporanee. Dal magico simbolismo de La danza delle ore di Gaetano Previati, all’opera di Balla Mercurio che passa davanti al sole. Il fenomeno risale al 1914. L’artista appassionato di astronomia lo osserva munito di telescopio e ne trae il quadro dove le forme e i colori si compenetrano.

Fausto Politino

Laureato in filosofia, iscritto all’ordine dei pubblicisti di venezia e già collaboratore del Mastino di Padova. Ora scrivo per la Tribuna di Treviso. Potete seguirmi su Twitter: PolitinoF.

La mostra

RIVOLUZIONE GALILEO. L’arte incontra la scienza. Padova, Palazzo del Monte di Pietà, fino al 18 marzo 2018. Mostra ideata da Giovanni Carlo Federico Villa e da lui curata insieme a Stefano Weppelmann.

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Come si lavorava un vaso nell’Antica Grecia?

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Lavorazione dell’argilla al tornio

In antichità gli artigiani che si occupavano nella lavorazione dell’argilla erano moltissimi. Pensate che ad Atene esisteva un quartiere chiamato “il Ceramico”, da ceramica, prodotta appunto con la lavorazione dell’argilla. Dopotutto di argilla se ne usava tanta perché era un materiale facilmente reperibile, abbondante e semplice da lavorare. Questa importante materia prima si trova diffusamente in natura, in strati del terreno di solito molto superficiali. È molto plastica, malleabile a freddo, ma si consolida dopo un processo di cottura. Tutte queste caratteristiche resero l’argilla il materiale più adatto per fabbricare un gran numero di oggetti: da vasi, a utensili, a parti decorative.

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Prima d’essere usata però l’argilla deve subire un processo di lavorazione e da questo punto di vista le cose non sono cambiate molto. L’argilla viene raffinata e depurata mediante lavaggio e-o setacciatura per eliminare tutte le impurità. Una volta resa plastica con l’aggiunta d’acqua viene poi degassata per eliminare eventuali bollicine d’aria formatesi durante la lavorazione. Il passaggio successivo è la modellazione dell’oggetto, come ad esempio un vaso, che in antichità veniva realizzato al tornio o mediante l’uso di stampi. Il tornio era costituito da un disco piatto e rotondo che ruotava liberamente sopra un asse verticale di sostegno ancorato al terreno. Il vasaio o il suo aiutante con la mano o con il piede faceva ruotare il disco, modellando così l’oggetto.

Exekias, anfora a figure nere, Achille e Aiace

I vasi di piccole dimensioni erano realizzati in un unico pezzo, mentre i più grandi erano costituiti da sezioni lavorate a parte e poi unite tra loro. Per nascondere le giunture a volte erano applicati sulla superficie esterna dei cordoncini di argilla. Anche i manici erano modellati a parte. Una volta completato, il manufatto era messo a essiccare per evitare la formazione di crepe durante la cottura. A questo punto i greci amavano stendere un rivestimento composto di argilla ricca di ferro che conferiva, dopo la cottura, una colorazione rosata. Così il vaso era pronto a ricevere le decorazioni vere e proprie che nell’antica Grecia si dividevano in due stili: a figure nere o rosse.

Pyxis decorata a figure rosse

Lo stile a figure nere, usato tra il VII e il V secolo a.C., come suggerisce il nome, realizzava figure nere sul fondo di argilla priva di decorazione. Sul manufatto venivano dipinti le figure e gli accessori ornamentali con una vernice nera. I dettagli anatomici, i motivi delle vesti e altri particolari venivano eseguiti con sottili incisioni fatte con una punta rigida. Si realizzavano così bei contrasti cromatici tra la vernice nera e il fondo rossastro.

Lo stile a figure rosse, affermatosi a partire dal V secolo a.C., era caratterizzato da un fondo ricoperto dalla vernice nera e da figure lasciate del colore rossastro del vaso. L’esatto opposto di quello che abbiamo detto prima. In questo caso il vasaio disegnava prima i contorni delle figure, quindi riempiva lo sfondo con la vernice nera. I dettagli anatomici erano ottenuti con tratti neri sottilissimi. Questo secondo stile permetteva una maggiore fluidità e naturalezza nella resa dei particolari che erano dipinti con un pennellino e non incisi.
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Finita la decorazione, i vasi venivano sistemati per la cottura nella fornace. Il forno non era altro che una costruzione di mattoni costituita da una parte bassa dove veniva messa la legna, e da una parte alta dove, su un piano forato, trovavano posto gli oggetti da cuocere. La cottura era suddivisa in tre momenti successivi che portavano anche a cambiamenti di colore. Nel primo, con immissione d’aria, il corpo del vaso e la vernice assumevano un colore rossastro. Nel secondo, con limitazione d’aria, il corpo del vaso e la vernice diventavano neri. Col terzo momento l’argilla, ricca di pori, tornava a essere rossa grazie all’ossigeno, mentre la vernice, più densa, rimaneva nera.

Un sistema di lavorazione rimasto nel tempo

Ed ecco tutto. In effetti molti passaggi della lavorazione di un vaso non sono cambiati molto. Oggi usiamo procedimenti e forni industriali, macchine automatizzate e torni elettrici, ma di fatto i principi di partenza sono gli stessi. Saperi antichi giunti intatti fino a noi.

C.C.

 

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Le mostre da non perdere nel 2018

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Le mostre da non perdere

Per chi ama l’arte sono molte le proposte espositive in cantiere per il 2018. Non è facile scegliere. Io mi limito a proporre una selezione che mira ad attirare l’attenzione su mostre di forte richiamo in quanto dislocate in città molto note come Milano Venezia o Treviso, insieme ad altre che richiedono un occhio particolare come Conegliano (TV) o Forlì. Sono convinto che l’appassionato non resterà deluso.
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Il mondo che non c’era. L’arte precolombiana nella collezione Ligabue

Venezia, Palazzo Loredan dal 12 gennaio al 30 giugno 2018.
Oltre 150 opere per introdurre il visitatore nel mondo dei Maya, degli Aztechi, degli Inca e di altri popoli che hanno abitato la Mesoamerica e l’America del Sud prima dell’arrivo di Cristoforo Colombo e dei conquistadores. Davide Domenici, membro del comitato scientifico della mostra, ha approfondito il tema del gioco della palla nelle civiltà precolombiane dimostrando come gli europei siano debitori nei confronti di Maya e Aztechi dell’invenzione del pallone di gomma.

Le mostre da non perdere
Rodin, Il pensatore

Un grande scultore al tempo di Monet

Treviso Museo di Santa Caterina dal 24 febbraio al 23 giugno 2018.
Il 2017 è stato l’anno delle celebrazioni per il centenario della morte del grande scultore Auguste Rodin (1840-1917). Gli sono state dedicate due mostre, al Grand Palais di Parigi nella scorsa primavera e al Metropolitan Museum di New York. L’ultima che conclude idealmente il centenario, si apre a Treviso al Museo di Santa Caterina: Rodin. Un grande scultore al tempo di Monet, curata da Marco Goldin. La mostra si articola in 80 opere, cinquanta sculture comprese le più famose: dal Bacio al Pensatore e trenta lavori su carta.

Le mostre da non perdere
Albrecht Dürer, Lepre, 1502

Dürer e il Rinascimento

Dal 21 febbraio al 24 giugno 2018 al Palazzo reale di Milano.
Pittura disegno e grafica fecero di Albrecht Dürer (1471-1528) il massimo esponente del Rinascimento tedesco. Il percorso espositivo si articola in oltre cento opere, tra cui quelle di Cranach, Bellini, Mantegna e Giorgione, che indagano il suo rapporto con l’Italia e le città d’arte, Venezia, Roma, Ferrara e Mantova.

Le mostre da non perdere
Caravaggio, Mdonna dei pellegrini, 1604-1606

L’eterno e il tempo tra Michelangelo e Caravaggio

Forlì, Musei di San Domenico dal 10 febbraio al 17 giugno 2018.
La mostra vuole idealmente indagare gli anni che vanno dal Sacco di Roma (1527) alla morte di Caravaggio (1610); dal Giudizio universale di Michelangelo (1541) al Sidereus Nuncius (1610) di Galileo. Il periodo storico che vide brillare gli ultimi bagliori del Rinascimento e l’apparizione delle opere fondamentali dl Manierismo. Quando prevale la commissione della pittura sacra, con Caravaggio assoluto protagonista, con i suoi soggetti radicati nel popolare. Tra l’ultimo Michelangelo e Caravaggio sfilano in mostra, tra gli altri: Raffaello, Lorenzo Lotto, Sebastiano del Piombo, i Carracci, Veronese e Tiziano.

Le mostre da non perdere
Osvaldo Licini, Castello in aria, 1933-36

Osvaldo Licini 1894-1958

Venezia, Collezione Guggenheim dal 22 settembre 2018 al 14 gennaio 2019.
Nel 1958 Licini il gran premio internazionale per la pittura alla XXIX Biennale di Venezia. A 60 da quell’anno il museo gli dedica una retrospettiva, con oltre 80 opere. Per testimoniare una pittura intessuta di colori e di segni. Con questi ultimi che rivelano forza volontà magia.

Le mostre da non perdere
Teodoro Wolf Ferrari, Lo spitz di mezzodì da Brusa Adaz a Zolno Alto

Teodoro Wolf Ferrari. La modernità del paesaggio

Palazzo Sarcinelli, Conegliano (TV) dal 2 febbraio al 24 giugno 2018.
Curata da Giandomenico Romanelli la mostra vuole aiutare a riscoprire un autore forse non molto conosciuto dal grande pubblico. Wolf Ferrari è l’artista veneziano che ha interpretato le tendenze dell’arte europea e italiana tra il XIX e il XX secolo. Definito poeta del paesaggio, ha saputo rappresentare, sessanta i lavori selezionati a tale scopo, mediante dipinti, acquarelli, pannelli decorativi, vetrate, le colline che vanno da Asolo a Conegliano fino alle alture del monte Grappa.

Selezione curata da Fausto Politino.

Laureato in filosofia, iscritto all’ordine dei pubblicisti di venezia e già collaboratore del Mastino di Padova. Ora scrivo per la Tribuna di Treviso. Potete seguirmi su Twitter: PolitinoF.

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La bottega dell’artista

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la bottega
Philip Galle, la bottega del pittore

Oggi vi propongo una piccola artesplorazione trasversale, parlando di un luogo fondamentale per la produzione artistica. Mi riferisco alla bottega. Questa parola la vediamo utilizzata tra il Duecento e il Settecento, in Italia, per indicare il luogo in cui il pittore, come qualsiasi altro artigiano, esegue parte del suo lavoro. Nella bottega infatti l’artista realizza polittici, cassoni, gonfaloni e vari altri prodotti mobili che possono essere facilmente ultimati negli ambienti di bottega. Gli affreschi, le vetrate e altre opere simili richiedevano invece una lavorazione in loco da parte del pittore. In questi casi nella bottega veniva elaborato il progetto sotto forma di disegno o di modello a grandezza naturale oppure in scala.

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In questo sistema di produzione la bottega del pittore diventa anche il luogo in cui gestire al meglio i meccanismi della domanda e dell’offerta. Opere come pale d’altare o ritratti dipendevano sempre da una commissione specifica, ma in altri casi l’artista poteva realizzare dipinti e conservali in attesa di un compratore. È il caso dei quadri devozionali, dei paesaggi, delle nature morte e molto altro. Quindi insieme alla principale funzione produttiva, la bottega diventava anche una specie di negozio in cui esporre materiale in vendita. Ecco perché spesso questi ambienti erano collocati al piano terra e in diretto rapporto con la strada o con la piazza, per favorire l’accesso ai clienti.

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Adriaen van Ostade, la bottega del pittore

C’era delle regole ben precise riguardanti la creazione e la gestione di una bottega d’arte. Poteva essere di proprietà del pittore o da lui presa in affitto. Ma aveva diritto di tener bottega solo chi era riconosciuto come “maestro” dall’arte o corporazione competente. Per fare un esempio, a Firenze era l’Arte dei medici e degli speziali a dare questo riconoscimento. Il maestro poteva avere uno o più “compagni”, con i quali condividere vantaggi e svantaggi economici dell’impresa. Quanto al lavoro vero e proprio, il maestro poteva svolgerlo da solo o con allievi e aiutanti stipendiati. I primi chiedevano loro stessi d’essere presi a bottega per imparare il mestiere e poter divenire un giorno maestri a loro volta. I secondi al contrario erano dei veri e propri operai che il maestro assumeva perché particolarmente abili o veloci nell’eseguire certe parti del lavoro.

sostieni artesplorandoGli allievi o discepoli in un arco di tempo che poteva arrivare a dodici anni, dovevano compiere il loro apprendistato. Questo consisteva nel copiare disegni del maestro o di sua proprietà, pitture e sculture famose, modelli nudi o panneggiati. Contemporaneamente si prestavano a svolgere compiti secondari come preparare i colori, stendere la preparazione a tele e tavole o le prime mani di colore. Gli allievi portavano anche a termine le parti meno importanti dei dipinti realizzati in bottega. Il maestro non era tenuto a pagare il discepolo per questa collaborazione, anzi poteva essere pagato per accettarlo nella sua bottega. L’allievo era spesso molto giovane, a volte solo un bambino, il cui potenziale effettivo era un’incognita e un rischio per il maestro.

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Gerrit Dou, il pittore nella sua bottega

La bottega del pittore nel corso dei secoli, e in relazione al luogo e alle capacità del maestro titolare, poteva avere delle caratteristiche diverse. Artisti come Giotto, Raffaello e Rubens davano ampio spazio alla bottega e ai collaboratori. Tra i dipinti che uscivano da una bottega ben avviata, fino al pieno Seicento e oltre, ben pochi appartenevano interamente alla mano del maestro. Anche se non mancarono artisti che preferirono seguire in prima persona le varie fasi dell’elaborazione artistica. È nota ad esempio la diffidenza di Michelangelo per ogni forma di collaborazione che potesse interferire con il suo atto creativo. A parte rare eccezioni, la bottega però rimase per molto tempo il centro principale della vita artistica cittadina.

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La bottega del pittore, ricostruzione

Recentemente gli storici hanno contrapposto la bottega all’accademia, ma molte delle caratteristiche delle accademie pubbliche e private erano presenti già nelle botteghe. Dal Cinquecento in avanti, inoltre, alcune botteghe di punta si autodefinirono “accademie”. Questo per sottolineare come, nel rapporto tra maestro e discepoli, esse prestassero maggiore attenzione all’aspetto didattico rispetto a quello produttivo. In seguito questo termine allargò il proprio significato. Tra Otto e Novecento il concetto di bottega compare soprattutto nelle espressioni “bottega di”, “opera di bottega”. In questo modo si segnò la differenza tra opera autografa e opera di bottega, anche se non sempre fondata dal punto di vista storico. Ad esempio è risultato che Giotto firmasse proprio i dipinti dove è più evidente la presenza di specifici collaboratori. Quindi la sua firma era più un marchio di fabbrica che un certificato di autografia.

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Tamaris, dal manoscritto De Cleres et Nobles Femmes, Francia, 1403

La bottega, fucina di talenti

Ma al di là di queste disquisizioni possiamo dire che la bottega a partire dal Duecento fu un luogo importante per l’artista che vi poteva lavorare in solitudine o circondato da molti aiuti. Nel corso della storia dell’arte infatti non furono poche le botteghe che costituirono delle vere è proprie catene di montaggio per soddisfare committenze sempre più vaste. Ma non solo, la bottega è stato anche il luogo in cui grandi geni artistici hanno superato i propri maestri. Pensiamo a Mantegna allievo di Squarcione, oppure a Leonardo allievo di Verrocchio, oppure ancora a Raffaello allievo del Perugino. Furono quindi delle vere e proprie fucine di talenti dove tra fatiche, sfruttamenti e lunghi apprendistati si scrisse la storia dell’arte.

Questo post si avvale di contributi bibliografici vari che potete consultare qui

C.C.

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Il mondo che non c’era. L’arte precolombiana nella collezione Ligabue

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arte precolombiana

Arriva a Venezia la grande mostra della Collezione Ligabue che racconta in oltre 150 opere la vita, i costumi, le cosmogonie delle culture Meso e Sudamericane prima di Colombo: dagli Olmechi ai Maya, dagli Aztechi agli Inca: Il mondo che non c’era. L’arte precolombiana nella Collezione Ligabue”, importante esposizione dedicata alle civiltà che avevano prosperato per migliaia di anni nel continente americano prima dell’incontro con gli Europei. Il 12 ottobre 1492 Cristoforo Colombo approda sulle coste delle nuove terre, che lui crede siano le Indie. In ogni caso il mondo che non c’era; il contatto con un nuovo continente. Giudicato da Claude Lévi Strauss l’evento spartiacque nella storia dell’umanità.

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Perché sconvolge quella visione culturale fondata sull’asse Roma-Grecia-Oriente. Bisogna attendere le esplorazioni di Amerigo Vespucci per capire che i territori scoperti da Colombo non sono isole indiane al largo di Cipango (Giappone) ma un Nuovo Mondo, un nuovo continente, chiamato in suo onore America. La mostra allora, promossa dalla Fondazione Giancarlo Ligabue, vuole raccontare le antiche culture della cosiddetta Mesoamerica: gran parte del Messico, Guatemala, Belize, una parte dell’Honduras e del Salvador. Il territorio di Panama, le Ande (Colombia, Ecuador, Perù, Bolivia fino al Cile e all’Argentina). Dalla cultura Chavin e Tiahuanaco, fino agli Inca. Una parte della collezione di Ligabue costituisce il centro della mostra, curata da Jaques Blazy, specialista delle arti preispaniche della Mesoamerica e dell’America del Sud.

arte precolombianaCollezione che include molti reperti a dir poco, interessanti. Dalle rare maschere in pietra di Teotihucan, la città più grande della Mesoamerica, primo vero agglomerato urbano del Messico Centrale, ai vasi Maya del periodo classico; le loro decorazioni e le loro iscrizioni forniscono preziose informazioni sulla civiltà e la scrittura di questa popolazione. Dalle statuette antropomorfe della cultura Olmeca: i pittori Diego Rivera, la moglie Frida Kahlo e vari artisti surrealisti la trovarono affascinante, alle sculture Mezcala. Semplici e misteriose nello stesso tempo fino al punto da suggestionare lo scultore Henry Moore.

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E ancora. Le statuette policrome di ceramica cava della cultura di Chupicuaro il cui apogeo si pone tra il 400 e i 100 AC. In mostra si può ammirare la Grande Venere con le mani congiunte sul ventre. Urne cinerarie della Zapoteca. Oggetti inca. Straordinari manufatti in oro. Siamo in presenza di culture ignorate se non annientate dai Conquistadores che uccisero e razziarono desiderosi solo di accumulare ricchezze materiali.

Sono molti gli spunti tematici che la rassegna offre. Compresi i debiti che l’Europa ha nei confronti del Nuovo Mondo. Basti pensare ad alcuni alimenti, le patate il pomodoro il cacao, per citarne alcuni, che arrivano sulle nostre tavole attraverso la mediazione della cucina spagnola. Senza tralasciare il gioco con il pallone di gomma. Le opere in mostra e le raffigurazioni sul tema ci fanno scoprire come fosse profondamente radicato nella ritualità mesoamericana.

Fausto Politino

Laureato in filosofia, iscritto all’ordine dei pubblicisti di venezia e già collaboratore del Mastino di Padova. Ora scrivo per la Tribuna di Treviso. Potete seguirmi su Twitter: PolitinoF.

La mostra

VENEZIA. ARTE PRECOLOMBIANA. Fino al 30 giugno 2018. Venezia Palazzo Loredan. Sede dell’Istituto Veneto di Scienze Lettere e Arti.

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La porta dell’inferno, Auguste Rodin

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porta dell'inferno
Auguste Rodin, la porta dell’inferno

Oggi, per parlare della porta dell’inferno di Rodin, partiamo raccontando un po’ di storia. Nel 1871, durante la guerra civile, a Parigi venne distrutto un edificio del governo francese, sul terreno in cui nel 1900 fu inaugurata la stazione D’Orsay poi diventata museo. Prima della stazione però prese vita nel 1880 il progetto per un museo di arti decorative. Destinata a questa nuova struttura, lo stato francese commissionò ad Auguste Rodin una porta monumentale. A seguito di studi e ricerche, nel 1883, l’artista giunse a una bozza finale, ma il progetto del museo si arenò definitivamente e la bozza rimase nello studio dell’artista. Questa bozza era proprio la porta dell’inferno.

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Nonostante Rodin sia ritenuto da molti il padre della scultura moderna, questi non si ribellò agli stili precedenti. Usò sempre un approccio di studio e ispirazione nei confronti dei maestri del passato. Anche in questo caso l’artista prese spunto da un celebre precedente: le porte del battistero di Firenze di Lorenzo Ghiberti. L’opera fu mostrata in una versione incompleta solo in occasione dell’Esposizione Universale di Parigi del 1900. La porta è decorata con undici bassorilievi con scene prese dal poema Divina Commedia del poeta Dante Alighieri. Essendo rimasto un lavoro senza collocazione, per Rodin diventò una sorta di magazzino in cui riversare tutta la sua creatività ed è per questo che vi troviamo rappresentati gruppi scultorei diventati celebri come opere indipendenti quali il Pensatore e il Bacio.

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Dal turbine di corpi in movimento emergono alcuni dettagli particolarmente interessanti. In cima alla porta vediamo tre figure chiamate Ombre, in cui si ripete tre volte lo stesso soggetto. In cima alla porta è collocato anche il Pensatore che incarna Dante sovrastante l’abisso. Sui battenti vediamo figure prese dall’Inferno della Divina Commedia: a destra il Conte Ugolino, comandante e politico, mentre a sinistra, gli amanti Paolo e Francesca, inseriti in un groviglio di corpi.

porta dell'inferno
Un dettaglio della porta

Al centro della ricerca dell’artista c’è la vitalità del corpo umano che qui emerge da lave bollenti per invadere lo spazio architettonico e in alcuni casi sovrastarlo. È innegabile un’ispirazione a quell’architettura di muscoli e membra che è il Giudizio Universale di Michelangelo. Quella che vedete qui è la versione in gesso dell’opera conservata al d’Orsay. Fu ricomposta dagli studiosi del Museo Rodin nel 1917, e nel 1928 fu possibile realizzarne la fusione in bronzo. Ed è così che oggi una copia in bronzo si trova a Filadelfia e una al Museo Rodin di Parigi.

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Fatevi trasportare dall’immaginazione e soffermatevi sui dettagli di questo capolavoro in cui è al potere l’espressività del corpo umano.

Continua l’esplorazione

Auguste Rodin, scultore rivoluzionario

C.C.

Questo post si avvale di contributi bibliografici vari che potete consultare qui

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