L‘audioquadro è un nuovo modo per conoscere i più grandi capolavori della storia dell’arte. In maniera semplice e in pochi minuti. Qui vi parlerò della Vergine delle rocce di Leonardo. Un’opera che nasconde molti significati, alcuni ancora tutti da svelare, oltre che splendida testimonianza di un grandissimo artista-intellettuale-scienziato.
L’opera che vedete qui è frutto del genio artistico di Leonardo da Vinci, un condensato di conoscenza e figura chiave del rinascimento. La “Vergine delle Rocce”, iniziata da Leonardo nel 1483, di cui esiste anche un’altra versione conservata presso la National Gallery di Londra, rappresenta la svolta della sua carriera artistica, consacrandolo come il pittore più importante della scena milanese di quel tempo. L’opera, dipinta per la confraternita de “L’Immacolata Concezione”, raffigura la Vergine Maria inginocchiata, mentre allunga la mano verso Gesù bambino, sostenuto da un elegante angelo. Una lunga controversia divise il pittore con la confraternita, ed è forse per questo che venne realizzata la seconda versione, per accontentare le richieste dei committenti.
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Breve biografia della vita e delle opere di Fra’ Filippo Lippi, esponente tra i più importanti del primo rinascimento. Nuovo video della serie artisti in 10 punti realizzato con lo scopo di farvi conoscere i protagonisti dell’arte. In questi brevi video avrete modo di conoscere in pochi minuti le caratteristiche principali, le curiosità e alcuni aspetti meno noti di molti artisti.
Quando penso a una possibile immagine della Madonna (io non sono credente) sicuramente mi vengono alla mente le giovani donne di Filippo Lippi, dolci e materne. Fra’ Filippo Lippi, nato a Firenze attorno al 1406, è un esponente tra i più importanti del primo rinascimento. Non si sa con chi e dove si formò, ma le influenze di Masaccio, Donatello e Beato Angelico sono evidenti. Dapprima formatosi in un ambiente ancora permeato dal gusto gotico, Filippo seppe cogliere quanto si compiva sotto i suoi occhi nella cappella Brancacci all’interno della chiesa di Santa Maria del Carmine di Firenze. Qui, accanto alle ultime raffinatezze gotiche di Masolino, si affermava il nuovo stile di Masaccio.
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Caravaggio, Flagellazione (1607-1608), versione Museo e Real Bosco di Capodimonte
Il Museo di Capodimonte ospita la mostra, Caravaggio Napoli, fino al 14 luglio 2019. Sei opere del Merisi messe a confronto con 19 quadri di artisti napoletani che riprendono soggetti ricorrenti nei dipinti del Maestro. C’è sempre una mostra in Italia su Caravaggio (1571-1610). Ma l’interesse che suscita non muore mai. Perché? I motivi sono tanti. Per la sua vita tumultuosa scandita da duelli, fughe, invidie. Costretto a fuggire dagli altri e da sé stesso. Per il suo irrompere sulla scena artistica come un rivoluzionario. Pronto a sfidare autorità e collaudate impostazioni figurative. Per la sua non dissonanza di ombre e di luci. Una lotta costante tra luminosità e oscurità che condiziona il suo metodo di lavoro.
Le due flagellazioni
Caravaggio dipinge di nero le pareti dello studio. Oscura le finestre per creare quel fascio di luce che rende le sue storie senza tempo. Per il suo servirsi di modelli presi dalla strada. Fino al punto di scegliere una ex prostituta e farla diventare la Madonna dei Pellegrini. La mostra merita la segnalazione perché permette la visione ravvicinata e in parallelo della Flagellazione conservata a Capodimonte e di quella del Musée des Beaux-Arts di Rouen. Nella prima Flagellazione indicata, ma successiva come creazione, Caravaggio raffigura Cristo al centro della composizione, legato alla colonna. Colpisce la contorsione del suo corpo luminoso. Un intrecciato panno bianchissimo gli copre il basso ventre. Una postura innaturale, non voluta, causata dai due aguzzini.
Caravaggio, Flagellazione, versione di Rouen
Uno, a sinistra, tiene nella mano destra il flagello. E insieme gli afferra i capelli e lo spinge con violenza in avanti. Facendogli sfiorare il petto e la spalla. L’altro nella parte opposta, parzialmente illuminato. Vigoroso corpo da scaricatore di porto. Reggendosi sulla gamba destra, sferra un calcio ad un polpaccio del Cristo. Caravaggio mette in risalto i muscoli dello stomaco mentre sta incatenando le mani del prigioniero dietro la schiena. Ma c’è anche la figura di un terzo torturatore. Nell’atto di raccogliere altre verghe per formare un’altra frusta. Gli ha illuminato il braccio destro. La testa è appena visibile.
Per come la vedo io, la violenta drammaticità della scena non è gridata. Scaturisce dall’agire distaccato degli aguzzini. Indifferenti allo strazio che infliggono. Fanno di tutto per acuirlo. Perché è ciò che impone il lavoro che hanno scelto. Nella Flagellazione di Rouen, Caravaggio imposta la scena asimmetricamente. Sposta a sinistra Cristo e la colonna. Abbandona la raffigurazione intera dei personaggi. Il suo corpo scolpito, in tensione, contrasta con il suo sguardo sconfitto, vinto. Anche se appare rassegnato alla propria sorte, dà l’impressione di volersi allontanare, fisicamente, dai suoi torturatori. Eluderne il contatto. E quindi l’origine del dolore.
La mostra
Caravaggio Napoli, Museo Capodimonte, fino al 14 luglio 2019.
Fausto Politino
Laureato in filosofia, iscritto all’ordine dei pubblicisti di venezia e già collaboratore del Mattino di Padova. Ora scrivo per la Tribuna di Treviso. Potete seguirmi anche su Twitter: PolitinoF.
Il pittore impressionista Renoir considerava questo capolavoro, acquisito dal Louvre nel 1870, come il più bel quadro del mondo insieme allo Sbarco a Citera di Antoine Watteau. L’opera rappresenta una giovane merlettaia appartenente alla classe media olandese di Delft, curva sul tavolo di lavoro, intenta a ricamare. Il tema del pizzo e del ricamo, più volte raffigurato nei dipinti olandesi, incarna tradizionalmente le virtù domestiche femminili. Il piccolo libro che vediamo in primo piano è sicuramente una Bibbia, sottolineando l’interpretazione morale e religiosa del lavoro. Ma questo dipinto, come la famosa Lattaiasempre di Vermeer, è anche un tuffo nel mondo della quotidianità olandese dell’epoca. Perché al pittore piaceva osservare gli oggetti familiari che lo circondavano, combinandoli nelle sue composizioni.
La capacità fotografica di Vermeer
La sensazione d’intimità che ci trasmette quest’opera è dovuta alle sue ridotte dimensioni, le più piccole mai utilizzate da Vermeer e dall’inquadratura centrata sul personaggio. Però nonostante il legame stretto che l’opera crea con noi osservatori, non possiamo realmente entrare nel suo mondo di pizzi e ricami. Questo perché il cuscino e il tavolino ci separano dalla merlettaia. E non riusciamo a vedere il suo lavoro che risulta nascosto dalla mano destra della giovane donna. Il genio del maestro di Delft sta anche nella capacità di riprodurre nelle sue opere ciò che un occhio umano osserverebbe, creando più profondità. Come se l’artista utilizzasse il teleobiettivo di una macchina fotografica. Così il centro della nostra attenzione e cioè il lavoro meticoloso della merlettaia rappresentato dal filo bianco teso tra le dita della giovane donna, è messo perfettamente a fuoco dall’artista.
Tuttavia, quando ci si allontana da questo punto focale della nostra visione, le forme diventano sempre più sfumate anche se poste in primo piano. I fili bianchi e rossi che escono dal cuscino, ad esempio, non sono realizzati con precisione, ma appaiono come flussi di colore sovrapposti e astratti. I colori armoniosi di questo gioiello pittorico, affascinarono Van Gogh che nel 1888, in una lettera all’amico pittore Emile Bernard, descrisse la bellezza del dipinto di Vermeer come “un’armonia di giallo, azzurro e grigio perla”. Le opere di Vermeer racchiudono una sorta di “poesia del silenzio“, capace di restituire personaggi di un mondo che sembra estraneo al nostro. Attraverso la luce delicata e morbida che cade sugli oggetti, il pittore riesce a creare momenti di un’intimità impalpabile.
Continua l’esplorazione …
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Questo pannello era la sezione centrale di un polittico e cioè di un’opera composta da più tavole, realizzata per essere esposta su di un altare all’interno di una chiesa. Il Battesimo di Cristo. I pannelli laterali e quello alla base, chiamato predella, furono dipinti verso il 1460, dall’artista Matteo di Giovanni. L’opera era collocata nella cappella di San Giovanni Battista dell’odierna cattedrale della città natale di Piero, Borgo Sansepolcro, nel centro Italia. La città visibile nel dipinto, in lontananza, alla destra di Cristo, probabilmente è proprio una rappresentazione di Borgo Sansepolcro. Tutto il paesaggio circostante evoca le morbide colline che circondano la cittadina. Dopo secoli di oblio, l’opera venne riscoperta verso il 1858 dall’inviato della Regina Vittoria sir Charles Lock Eastlake. Lui si trovava in Italia a caccia di dipinti con i quali riempire i neonati musei inglesi.
Ma, ironia della sorte, non venne preso in considerazione perché troppo danneggiato e giunse alla National Gallery seguendo un altro percorso. Venne acquistato da un altro inglese, il giovane sir John Charles Robinson, per l’industriale delle ferrovie Matteo Uzielli. Alla morte di Uzielli, Eastlake, forse rimproverandosi di non aver compreso subito di trovarsi davanti a un capolavoro, acquistò l’opera. La vendette poi alla National Gallery nel 1861. In questo straordinario dipinto, considerato da molti storici una delle prime opere conosciute di Piero della Francesca, la ricchezza di dettagli si mescola a un’insolita interpretazione del battesimo di Cristo. I tre angeli di sinistra anziché tenere le vesti che Cristo si è tolto per entrare nel fiume Giordano, assistono all’evento tenendosi per mano con un gesto d’amicizia.
L’analisi del dipinto
Secondo alcuni storici sarebbe un riferimento al concilio del 1439 che cercò di riunire lo strappo avvenuto tra le Chiese d’Oriente e Occidente. Cristo, frontale, occupa alla perfezione l’asse centrale dell’opera lungo il quale sono allineati, più in alto, l’ampolla tenuta dal Battista e la colomba che scende dal cielo. Attorno a questo asse sta in equilibrio tutta la composizione, perfettamente bilanciata. Da questo punto di vista il tronco dell’albero compensa la figura del Battista, mentre ai tre angeli corrispondono il battezzando che si spoglia e i pagani in abiti orientali nello sfondo a destra. Come accade spesso con Piero della Francesca, l’artista usa espedienti geometrici e prospettici per dare risalto alla sacralità del tema religioso. È per questo che il volto di Cristo è il centro focale di tutta la tavola.
Le Artesplorazioni sono una serie di video che vi guideranno tra i movimenti e i temi della storia dell’arte, rispondendo alle 5 domande: cosa, chi, dove, quando e perché. Oggi parliamo di … informale!
L‘arte informale, più o meno consapevolmente fu la risposta artistica che l’Europa diede alla profonda crisi morale, politica e ideologica conseguente agli orrori messi in luce dalla Seconda guerra mondiale. Per sua stessa natura non fu un movimento omogeneo, ma raccolse tendenze svariate e a volte opposte. Si sviluppò nel decennio tra gli anni Cinquanta e Sessanta e si pose in contrapposizione con qualsiasi cosa avesse una forma, sia figurativa che puramente astratta. L’informale negò ogni tipo forma e con essa la conoscenza razionale che ne deriva. Il termine informale è stato coniato dal critico francese Michel Tapié per descrivere un tipo di pittura astratta spontanea diffusa tra gli artisti europei.
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L‘audioquadro è un nuovo modo per conoscere i più grandi capolavori della storia dell’arte. In maniera semplice e in pochi minuti. Qui vi parlerò del Laocoonte. Un capolavoro della Grecia ellenistica che ha avuto un impatto straordinario sugli artisti del rinascimento, condizionando l’evoluzione della storia dell’arte.
Il Laocoonte è un gruppo marmoreo ritrovato nel 1506 nei pressi della Domus Aurea a Roma ed è molto probabilmente opera di un gruppo di artisti dell’isola greca di Rodi. Alla scoperta di questo straordinario gruppo scultoreo parteciparono Michelangelo e Giuliano da Sangallo che ne consigliarono l’acquisto a papa Giulio II. Immaginatevi lo stupore di questi artisti mentre emergevano dalla terra i molti frammenti in cui l’opera era divisa. Il suo stato di conservazione richiese pesanti interventi di restauro e integrazioni che restituirono completezza al gruppo scultoreo. La statua fu sequestrata e portata a Parigi da Napoleone nel 1798 e collocata nel posto d’onore nel Museo del Louvre diventando una delle fonti d’ispirazione del movimento neoclassico in Francia. Dopo la caduta di Napoleone, fu riportata in Vaticano nel 1815 e sottoposta a un nuovo restauro da Antonio Canova.
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L’arte può sconvolgerci? Può turbarci o farci sorridere con le sue stranezze? Nel corso della storia dell’arte di stranezze ce ne sono state veramente tante. Qui ne vedremo solo 10 opere strane, ma basteranno a stupirvi. O almeno è ciò che ha pensato Jonathan Jones che ha scritto la versione originale dell’articolo in inglese. Dalle scarpe col tacco presentate su un piatto d’argento allo squalo in formaldeide di Damien Hirst, un tour attraverso l’arte più strana, stravagante e sconvolgente.
Salvador Dalí, Telefono aragosta (1936)
Il movimento surrealista negli anni ’20 e ’30 del Novecento credeva che le rivoluzioni iniziassero nei sogni. Prendendo ispirazione in parte dal padre della psicoanalisi, Sigmund Freud, questi artisti hanno deciso di creare arte partendo dall’inconscio. Il Telefono aragosta di Dalí è un esempio iconico di una delle loro scoperte più ossessionanti: l’oggetto surrealista. Si tratta di una cosa o una combinazione di cose che parla in modo ossessivo e inesplicabile all’artista. Per Dalí i telefoni sono messaggeri sinistri, mentre l’aragosta ha un che di sessuale. Con un telefono aragosta, puoi comporre un sogno.
Damien Hirst, L’impossibilità fisica dell’idea di morte nella mente di colui che vive (1991)
L’oggetto surrealista sopravvive, come squalo conservato in formaldeide che sembra nuotare inesorabilmente attraverso lo spazio bianco di una galleria d’arte. C’è solo una parola per descrivere lo squalo tigre di Damien Hirst, che sembra scivolare verso di te: strano. Questo esemplare di animale, con la bocca spalancata, sembra muoversi grazie alle prospettive rifrangenti dei vetri che lo contengono. Con il suo decadimento graduale, lo squalo è diventato ancora più bizzarro.
Il Colosso di Costantino (IV secolo)
I giganteschi resti di una statua dell’imperatore Costantino, conservati nel Museo Capitolino di Roma, hanno ossessionato gli artisti per secoli. Nel XVIII secolo, Fussli disegnò un artista “disperato” dallo strano spettacolo dell’enorme mano di marmo di Costantino. Negli anni ’50, l’artista Robert Rauschenberg fotografò il suo compagno Cy Twombly accanto alle stesse gigantesche reliquie. Questi frammenti così “fuori scala”, ma così realistici, sono completamente surreali.
Joan Miró, Object (1936)
Il visionario catalano Joan Miró ha creato l’oggetto strano per eccellenza quando ha unito quello che sembrerebbe il curioso tesoro di un pirata. Un pappagallo, una gamba di donna, una mappa, un cappello e una palla. Questo insieme di oggetti presi dalla vita di tutti i giorni crea un senso di magia e mistero che apre la mente.
Robert Rauschenberg, Monogram (1955-59)
Quando Robert Rauschenberg trovò una capra impagliata mentre esplorava le discariche di New York e i negozi di antiquariato, non riuscì a ignorare la carica sessuale dei suoi corni fallici e le associazioni mitologiche. Nell’antica Grecia i satiri dalle zampe di capra inseguivano le ninfe attraverso le colline. Nell’arte cristiana il diavolo stesso è caprino. Rausenberg completò questo lavoro spingendo l’animale attraverso un pneumatico, come in un atto sessuale cosmico. Il risultato è uno dei readymades più strani e memorabili.
Méret Oppenheim, La mia governante (1936)
La surrealista Méret Oppenheim aveva occhio nel trasformare gli oggetti presi dal mondo che la circondava. Per esempio, è famosa per aver coperto una tazza e un piattino con la pelliccia, creando un’immagine di piacere orale. Il sesso e il cibo si mescolano allo stesso modo in La mia governante. Oppenheim presenta un paio di scarpe bianche con i tacchi alti su un piatto d’argento come il delizioso pasto per un feticista.
Giorgio de Chirico, Canto d’amore (1914)
Probabilmente, i primi oggetti surrealisti sono apparsi nei dipinti che Giorgio de Chirico realizzò alla vigilia della prima guerra mondiale. In Canto d’amore, un guanto di gomma è appeso accanto a una testa di marmo. Il poeta Guillaume Apollinaire, che ha coniato la parola surreale, scrisse che de Chirico uscì a comprare questo guanto di gomma. In altre parole, non è solo una fantasia dipinta ma anche un oggetto surreale del mondo reale.
Max Klinger, Il guanto (1881-1898)
In questa stupefacente serie di stampe della fine del XIX secolo un uomo, l’artista, vede che una donna ha lasciato cadere un guanto. In una serie di fantasie sempre più stravaganti l’artista riversa la sua passione e il desiderio per la donna sconosciuta in un rapporto intenso con il guanto. Il capolavoro di Klinger dimostra che molte idee surrealiste, incluso il culto degli oggetti, furono anticipate nell’era della decadenza fin de siecle.
Robert Mapplethorpe, Louise Bourgeois (1982)
In questa accattivante fotografia, la sorridente Louis Bourgeois custodisce un oggetto davvero strano. Si tratta di una delle sue sculture provocatorie la cui forma fallica è ampiamente sottolineata dalla fotografia in bianco e nero di Mapplethorpe. Nella sua lunga vita creativa, Bourgeois ha collegato direttamente l’era del surrealismo con il nostro tempo. Questa immagine trasmette la carica stravagante della donna e delle sue opere.
Marcel Duchamp, Anticipo di un braccio rotto (1915)
Prima che i surrealisti fossero posseduti da oggetti trovati nei mercatini delle pulci di Parigi, Marcel Duchamp creò i suoi readymades. La differenza tra un readymade duchampiano e un oggetto surrealista è la stessa che c’è tra l’ironia di Duchamp e le ossessioni di Dalí. Gli oggetti di Duchamp, tuttavia, evocano le stesse forze irrazionali che dovevano apparire grandi nel surrealismo. Questo readymade del 1915 è costituito da una pala da neve con un titolo che avverte di una ferita imminente: il braccio di chi sta per essere rotto? Il mio? Questa pala è un portento umoristico.
Las meninas di Velazquez (1656-7) è un quadro famoso. Molto bello. Visitabile al museo del Prado a Madrid. Un’opera complessa che ha fatto discutere. Un’occasione per riflettere sulle arti figurative.
L’analisi
Quasi al centro della tela c’è una bambina di cinque anni. Margherita, l’infanta di Spagna. Destinata a sposare Leopoldo I d’Austria. Morirà giovanissima, lasciando di sé soprattutto questa immagine. È chiaro che non si può identificare l’opera solo in Margherita. Siamo di fronte ad un frammento della vita di corte. Ai suoi piedi si inchina Maria Augustina de Sarmiento, le porge dell’acqua in un bucchero rosso. Quasi da contrappunto, Velazquez colloca la figura di un’altra giovane, Isabel de Velasco. Dai movimenti e dai gesti s’intuisce che sta parlando. Dietro di lei una donna vestita da monaca. E ancora, la scena si complica se ci allontaniamo lentamente dal suo nucleo tematico. Spostando la nostra visuale, scorgiamo la raffigurazione di due Velazquez: il primo è lo stesso pittore che sta dipingendo una grande tela il cui soggetto ci è negato, in apparenza. Il secondo, un maresciallo di palazzo, Josè Nieto Velazquez. Prima di lasciare la scena, incorniciato nella porta, volge lo sguardo verso di noi. Chi o cosa sta guardando?
Las Meninas, Diego Velazquez
Lo specchio
Fra i due, uno specchio riflette Filippo IV di Spagna con la moglie Marianna d’Austria. Sulla destra, i personaggi minori, due nani. Il più giovane stuzzica un grosso e tranquillo cane. Sullo sfondo due servitori che stanno conversando. Anche se uno ha deciso di guardarci. Quasi celate nell’oscurità, sulla parete che delimita la stanza, Velazquez ha inserito alcune grandi tele. Il soggetto è mitologico: Atena che punisce Aracne, di Rubens e una copia della Contesa di Apollo e Pan di Jordaens.
Appena sopra ho usato la locuzione, in apparenza e c’è un motivo. Non è vero che non possiamo vedere ciò a cui Velasquez sta lavorando. Con una trovata ingegnosa, ricorre alla luce di uno specchio dipinto sulla parete di fondo della stanza. Di fronte alla tela. Che riflette le immagini del re Filippo e della regina Marianna. Ma non tutti condividono questa interpretazione.
Foucault
A partire da 1966 anche i filosofi studiano Las meninas. Voglio ricordare Michel Foucault. Il libro Le parole e le cose contiene il saggio Le damigelle d’onore. La sua attenzione, nell’opera di Velasquez, è rivolta proprio allo specchio. Cosa ne pensa? È “uno sguardo che esce dal quadro per mostrarci ciò che sta al di là del quadro, nel nostro spazio”. Ora, ciò che lo specchio rimanda e che si deve trovare proprio di fronte ad esso, la coppia reale, è a sua volta l’oggetto di due differenti sguardi che dal quadro le vengono rivolti: la guardano infatti sia Velazquez pittore che la dipinge sulla tela, e sia l’altro Velazquez che fa da spettatore poiché, scrive Foucault, è chiaro che egli si volga ad osservare il modello che il suo omonimo dipinge: il re e la regina. Quindi lo specchio riflette qualcosa di esterno allo spazio del quadro. I sovrani in carne e ossa. Qualcosa che comprende non solo la famiglia reale “che il Velasquez dipinto a sua volta dipinge”, ma anche il punto in cui l’osservatore deve collocarsi per inquadrare la scena così come l’artista l’ha vista.
Il punto di fuga
Altri studiosi però, rispettando le regole della prospettiva, si sono accorti che il punto di fuga non si trova nello specchio, ma sopra il gomito di Iosè Nieto. Cosa ne deriva? Che l’immagine dello specchio è l’immagine di un immagine. Perché lo specchio riflette l’immagine del dipinto. Sconfessando così l’interpretazione di Foucault. Quindi Velàsquez sta dipingendo un doppio ritratto dei re di Spagna. Un bel rompicapo, se vogliamo. Ne vale la pena però. Un invito a riflettere, in pittura, sull’enigma della rappresentazione.
Fausto Politino
Laureato in filosofia, iscritto all’ordine dei pubblicisti di venezia e già collaboratore del Mattino di Padova. Ora scrivo per la Tribuna di Treviso. Potete seguirmi anche su Twitter: PolitinoF.
Giovanni Battista Gaulli, ritratto di Fabio Chigi-papa Alessandro VII
Nuovo appuntamento con l’imperdibile post dedicato alle persone che, pur non essendo artisti, hanno contribuito alla storia dell’arte. Collezionisti critici e mercanti. Si tratta di uomini e donne che hanno collezionato, commerciato, investito sull’arte e sugli artisti. Badate bene che, a differenza d’oggi, spesso queste persone lo facevano inseguendo un gusto o un progetto personale. Oppure semplicemente per una smania incontenibile di collezionismo. Senza pensare alle opere come mero investimento in grado di rendere nel tempo. A volte queste persone si trovarono a sostenere artisti su cui pochi avrebbero scommesso. Insomma troverete come al solito molte storie interessanti. Gli altri post li potete leggere seguendo il link Collezionisti, critici e mercanti.
Agostino Chigi detto il Magnifico
Personaggio centrale per la storia dell’arte. Giunto a Roma da Siena nel 1485, divenne ricco grazie allo sfruttamento dell’allume di Tolfa e alla gestione delle finanze papali. Tanto bravo che si aggiudicò il titolo di “gran mercante della cristianità”. Fu un grande mecenate e in particolare lo ricordiamo per aver fatto costruire, nel 1509 a Baldassarre Peruzzi, la villa della Farnesina. Villa romana che porta il nome del suo secondo proprietario, il cardinal Farnese e che oggi è sede dell’Accademia Nazionale dei Lincei. La sua decorazione coinvolse i massimi artisti del suo tempo. Giulio Romano, Sebastiano del Piombo, Daniele da Volterra, Peruzzi e soprattutto Raffaello, che vi dipinse il Trionfo di Galatea e il ciclo di Amore e Psiche. Agostino in effetti fu uno dei grandi patroni di Raffaello, dopo Giulio II e Leone X. Gli commissionò gli affreschi della chiesa di Santa Maria della Pace, e gli affidò l’intera ideazione, architettonica e decorativa, della sua cappella funeraria in Santa Maria del Popolo. Fu solo il primo di una famiglia che nell’arte avrà un certo peso.
Fabio Chigi
Nel 1655 il cardinal Fabio Chigi divenne papa col nome di Alessandro VII. Colto, letterato, appassionato d’arte e grande costruttore, Fabio Chigi fu protettore di Pietro da Cortona e, soprattutto, di Bernini, che sotto il suo pontificato produsse le proprie opere più importanti. Ricordiamo infatti il colonnato di San Pietro, la Scala Regia, la cattedra di San Pietro, la chiesa di Ariccia ed infine la tomba del pontefice nella basilica vaticana. Quest’uomo riunì a palazzo Chigi in piazza Colonna a Roma le sue raccolte di pittura, comprendenti quadri di Garofalo, Guercino, Caravaggio, Mazzolino, Dosso Dossi e Sodoma. Una collezione straordinaria in parte passata dal 1918 alla Galleria Barberini di Roma. Ma un altro membro della famiglia diede il suo contributo all’arte. Il nipote di Fabio, il cardinal Flavio Chigi, fece ristrutturare il palazzo di piazza Santi Apostoli (oggi palazzo Odescalchi), che acquistò, con tutto quanto conteneva, dalla famiglia Colonna.
Guido Chigi Saracini della Rovere
Guido Chigi Saracini della Rovere
Nel suo bel palazzo, costruito per i Marescotti nel 1260, acquisito dai Piccolomini, poi ancora dai Saracini, il conte Guido, discendente dalle più illustri famiglie di Siena, fondò un’accademia di musica nel 1932. Il palazzo Chigi-Saracini inoltre raccoglie un’importante collezione di pittura, iniziata tra Settecento e Ottocento da Galgano Saracini. Questa collezione comprende soprattutto opere senesi dal XIV al XVI secolo, tra cui pezzi del Sassetta, di Neroccio e di Beccafumi. Dopo la morte del proprietario, la collezione è passata nelle mani del celeberrimo Monte dei Paschi di Siena.
Paul Cezanne, ritratto di Victor Chocquet
Victor Chocquet
Una storia curiosa quella di questo collezionista borghese. Victor Chocquet era impiegato al ministero delle Finanze, dopo un inizio a Dunkerque nell’amministrazione delle dogane. Collezionò prima opere di Delacroix, in seguito divenne amico di Renoir, poi di Cézanne, e fu tra i primi protettori dei pittori impressionisti. Questi pittori li conobbe alla vendita pubblica del 24 marzo 1875. Tra il 1874 e il 1880 costituì così una bella collezione, dispersa nel luglio 1899 presso la galleria Georges-Petit. Una raccolta straordinaria che comprendeva trentadue Cézanne, cinque Manet, undici Monet, undici Renoir, un Pissarro, un Sisley. Ispirò a Emile Zola, in L’OEuvre, il personaggio di Monsieur Hue. Divenne anche modello per Renoir e Cézanne che ne eseguirono il ritratto.
Etienne-François conte di Stainville e duca di Choiseul, ritratto da Charles-Amédée-Philippe van Loo
Etienne-François conte di Stainville e duca di Choiseul
Ambasciatore a Roma, poi a Vienna, e ministro degli Esteri dal 1758 al 1770. Già al tempo
del suo soggiorno a Roma il conte s’interessò agli artisti, che venivano ricevuti all’ambasciata e quando partì nel 1754 condusse con sé Hubert Robert, pittore francese. Per tutta la vita protesse Greuze e Boucher, cui commissionò opere per il suo castello di Chanteloup in Turenna. Nel 1750 aveva sposato Louise-Honorine du Châtel, pronipote
di Pierre Crozat, che ereditò il palazzo in rue de Richelieu a Parigi e una piccola parte dei quadri dell’illustre collezionista. Tali dipinti, probabilmente italiani, costituivano il fulcro della sua collezione. Tornato in Francia, il conte cominciò ad arricchire questo primo fondo con acquisti considerevoli.
I suoi agenti seguivano le vendite dell’epoca, con un occhio particolare soprattutto alle opere olandesi e fiamminghe, allora molto in voga.
Caduto in disgrazia nel 1770, la sua situazione finanziaria peggiorò tanto da costringerlo a rinunciare a una parte della collezione, la cui vendita, il 6 aprile 1772, suscitò enorme interesse e fu un successo economico. Tuttavia non bastò a pagare i debiti: un anno dopo la sua morte, nel 1786, la sua vedova vendette il resto.
Vittorio Cini
Vittorio Cini
Tra 1910 e il 1915 Vittorio Cini cominciò a raccogliere nella sua residenza di Ferrara opere di artisti locali del XVI secolo. Da allora la sua collezione non ha fermato di arricchirsi con artisti italiani di tutte le scuole. Le opere sono oggi conservate negli ambienti residenziali al castello di Monselice e in palazzo Loredan a Venezia. Tra i capolavori segnaliamo un importante complesso di opere ferraresi, pittori toscani e marchigiani.
Anche la pittura veneziana del XV e del XVI secolo è ben rappresentata. Oggi la Fondazione Cini, con sede negli edifici del convento di San Giorgio a Venezia, è centro attivissimo di studi di storia dell’arte, e organizza mostre e conferenze.
C.C.
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Dieci opere d’arte per avvicinarci ai fiori, al loro profumo, ai loro colori. Spesso i fiori sono stati al centro di dipinti, disegni e incisioni. Nuovo video della serie “10 momenti di …”, realizzato da Artesplorando con lo scopo di offrirvi dei punti di vista originali sull’arte.
I fiori nel corso della storia dell’arte sono stati i protagonisti di splendide nature morte. Rappresentati per la loro bellezza, ma anche per il significato simbolico che spesso incarnano. Sono stati d’ispirazione per moltissimi artisti e qui vedremo 10 opere che contengono fiori e che per vari motivi vi ho selezionato. Seguendo anche il mio gusto personale.
Troverai un breve commento delle seguenti opere: Francisco de Zurbaran, tazza con acqua e rosa su un piatto d’argento, 1630 c. Ludger tom Ring the Younger, vasi di fiori, 1562 Balthasar van der Ast, Tulipano, 1620 Jan Brueghel il Vecchio, Vaso di fiori con gioielli, monete e conchiglie, 1606 Guido Cagnacci, fiori in un fiasco, 1645 c. Claude Monet, mazzo di fiori, 1881-82 Paul Cezanne, mazzo di fiori in un vaso blu, 1873-75 Paul Gauguin, girasoli su una sedia, 1901 Vincent van Gogh, vaso di Iris su sfondo giallo, 1890 Hans Memling, vaso di fiori, 1490 c.
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Breve biografia della vita e delle opere di Georges Seurat, il padre del neoimpressionismo e della tecnica puntinista. Nuovo video della serie artisti in 10 punti realizzato con lo scopo di farvi conoscere i protagonisti dell’arte. In questi brevi video avrete modo di conoscere in pochi minuti le caratteristiche principali, le curiosità e alcuni aspetti meno noti di molti artisti.
Pittore e disegnatore francese, Georges Seurat è stato fondatore ed esponente di spicco del neoimpressionismo. Figlio di genitori agiati, non dovette mai preoccuparsi di guadagnare da vivere e proseguì la sua ricerca artistica senza pensare ad altro. La formazione artistica di Seurat seguì i canoni dell’insegnamento tradizionale e il pittore dopo essersi esercitato nel disegno con copie da dipinti, calchi e illustrazioni, s’iscrisse nel 1877 all’Ecole des beaux-arts. Sin da quell’anno affittò uno studio con Aman-Jean, conosciuto alla scuola municipale di disegno. I suoi studi però vennero interrotti dal servizio militare nel 1879. Nel maggio 1879 Seurat e Aman visitarono la IV Esposizione impressionista, restandone colpiti in maniera inattesa e profonda. All’Ecole des beaux-arts Seurat poté studiare inoltre le copie degli affreschi di Piero della Francesca eseguite ad Arezzo e il suo interesse si volse in generale alle opere antiche e dei grandi maestri classici.
Il video è anche sottotitolato in italiano, inglese, francese e spagnolo. Per i sottotitoli in lingua straniera puoi contribuire anche tu! Segui quindi la playlist “artisti in 10 punti” per non perderti mai nulla e lascia un commento sotto ai video in cui puoi tu stesso suggerirci opere oppure nuovi temi da trattare in futuro. Il tuo contributo quindi è prezioso.
Oggi riprendo la rubrica “Art si gira!!!” scrivendo non di un film specifico, ma facendo una riflessione più ampia. Fino ad ora vi ho proposto molti film sull’arte che rappresentano la vita degli artisti o che offrono uno sguardo su un particolare periodo storico. Questi film, più o meno riusciti, hanno comunque il merito di cercare un approccio più semplice all’arte e alla sua storia. Per molto tempo infatti si sono realizzati non film, ma documentari dedicati all’arte, spesso complessi, poco chiari, troppo didattici. Questi documentari intendevano essere soprattutto esplicativi, ma spesso riuscivano soltanto a generare solo noia e diffidenza in un pubblico poco esperto, che veniva così respinto e non coinvolto.
I primi documentari sul mondo dell’arte
I registi del secolo scorso si accontentavano infatti di descrivere l’opera d’arte anziché
farla rivivere grazie alle tante risorse del linguaggio cinematografico. I movimenti della macchina da presa, il montaggio, la precisione del commento hanno una particolare importanza. Questo perchè si cerca di ricreare con l’immagine, la musica e il testo l’atmosfera propria dell’opera. È bello quindi vedere da vicino un po’ di esempi che ci permettono di capire come sia cambiata la comunicazione, la divulgazione dell’arte attraverso film e documentari che spesso oggi escono al cinema come grandi eventi.
Partiamo quindi dal Van Gogh (1948, qui sotto) di Alain Resnais, che utilizza tecniche sofisticate per coinvolgere lo spettatore nell’universo del pittore. Questo piccolo documentario di 20 minuti, utilizza l’occhio della macchina da presa come fosse quello del pittore. Ci rende partecipi del lavoro creativo dell’artista.
Alcuni registi si sono nascosti dietro l’artista che intendevano ritrarre, e hanno saputo far rivivere un’opera pittorica. Questo grazie all’aiuto dell’inquadratura cinematografica e dei movimenti di macchina, di volta in volta privilegiando un insieme o valorizzando un dettaglio. Nel corso degli anni 60-70 i documentari dedicanti a grandi artisti si moltiplicarono, usando spesso molta deferenza e ammirazione, ma poca creatività. Nel 1976 André Delvaux, nel suo Avec Dieric Bouts, dà una scossa al genere del film d’arte ripensando in termini cinematografici l’opera del pittore fiammingo. Herbert Kline porta la macchina da presa nei musei e negli studi dei pittori contemporanei nel suo La sfida della grandezza del 1974 (qui sotto in inglese). Emile de Antonio tratteggia un quadro generale della pittura americana in Painters Painting del 1976. Ma per quanto riguarda i cosiddetti “biopic”?
Arte e cinema d’invenzione
Il cinema d’invenzione si è cimentato spesso nell’arduo compito di dar vita all’universo di un pittore o a un determinato periodo storico. E in questa rubrica fino ad ora abbiamo visto molti esempi. Non sempre con esiti positivi. Quanti artisti in effetti sono stati massacrati da sceneggiatori e registi poco sensibili. Alcune volte si è romanzato troppo la vita di questi geni dell’arte. È il caso di Moulin-Rouge di John Huston nel 1953, o Brama di vivere di Vincent Minnelli del 1956. Edvard Munch di Peter Watkins (1974, qui sotto il film completo), film dedicato al pittore norvegese, è invece un bel esempio in cui il regista è riuscito a ricreare un intero universo, sociale, culturale e artistico. Ad ogni modo continuerò a proporvi recensioni riguardanti film e biopic più o meno recenti, per consigliarvi modi diversi d’esplorazione artistica.
E per quanto riguarda l’oggi? Più recentemente stiamo assistendo alla produzione di prodotti ibridi. Docu-film che mescolano ricostruzioni storiche con interviste a esperti e visite all’interno di musei. Spesso in questi prodotti vengono coinvolti storici dell’arte, direttori di musei, esperti in determinati settori. Tutto con lo scopo di unire rigore scientifico e divulgazione accattivante. A volte assistiamo all’utilizzo delle più moderne e particolari tecniche di ripresa e di effetti speciali per creare esperienze immersive. Insomma il settore si è molto attivato negli ultimi anni, creando film, documentari e docu-film, per il cinema, ma anche solo per la televisione. Forse ci si sta rendendo conto di quanto questi “film sull’arte” piacciano al pubblico.
E tu? qual è il tuo film o documentario d’arte preferito? Io qui ti ho riportato giusto qualche esempio, ma scrivimi altri suggerimenti nei commenti!
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C.C.
Questo post si avvale di contributi bibliografici vari che potete consultare qui
Parigi. Boulevard Haussman. Musée Jacquemart-André. Il palazzo ospita la grande retrospettiva, in quaranta opere, dedicata al maestro della pittura danese Vilhelm Hammershøi (1864-1913): “Hammershøi, le maître de la peintuire danoise”. Fino al 22 luglio 2019. Per chi non lo conosce, può essere una rivelazione. Ciò che comunica, sono forme che abitano la propria inquietudine. Una misteriosa ansia, un’impalpabile malinconia. In un tempo che si è fermato. Iniziamo da Interno con donna in piedi.Una figura femminile vestita di nero. Porta i capelli raccolti sulla nuca e ci dà le spalle: particolari iconici reiterati spesso da Hammershøi. Immobile e in piedi davanti ad una finestra. Che non vediamo ma che è plausibile ci sia. Una luce attutita, nebbiosa, filtra nelle due stanze. Le sue tonalità oscillano tra il grigio e il bruno. Le pareti hanno qualcosa di verde. Lo sguardo va oltre la porta aperta.
Vilhelm Hammershøi, interno
Le donne di Vilhelm Hammershøi
Con una carrellata di avvicinamento si sofferma sulla donna. Per finire il suo movimento sull’altra porta, chiusa. Non c’è quasi arredamento. Forse giudicato dall’artista un’inutile sovrabbondanza. Tranne due piccoli quadri, la pittura come presenza vitale? E un tavolo seminascosto. Un’immagine che vuole essere universale, incontaminata. Qual è lo stato d’animo della donna: attende qualcuno? Ha perso qualcuno? Riflette sulla propria vita? O si sta, semplicemente, riposando? Personalmente sono catturato dalla silenziosa disadorna immobile atmosfera in cui è immersa. Circondata da uno spazio che la protegge e insieme la isola dalla realtà esterna. Relegata in un evento forse inesistente.
La stessa donna immobile, la moglie Ida, riappare in Interno del 1899. Immobilità che fa intuire una grande determinazione. Nella stanza dalle porte serrate, sempre di spalle, ha lo sguardo rivolto verso la parete di fronte che sorregge una stufa. Fra di loro un tavolo privo di sedie sembra sbarrarle il passo. Ci troviamo ancora di fronte agli stessi enigmi dell’opera precedente. Nello medesimo ambito irreale e senza tempo. Hammershøi è interessato alla connessione tra spazio, mobili e figure. Al loro equilibrato incastrarsi nella composizione.
Vilhelm Hammershøi, quattro stanze
In un secondo tempo l’artista elimina donne e uomini dalle sue creazioni. Come nelle Quattro stanze. Stanze in successione intervallate da bianche porte aperte. Vediamo un tavolino una sedia un pianoforte in lontananza, linee nette, colori tenui. Il silenzio domina incontrastato. Come nelle nature morte di Morandi. O come negli inquieti e solitari personaggi di Edward Hopper. Anche se tracciati con una cromia più rilevante.
La mostra
“Hammershøi, le maître de la peintuire danoise”, Musée Jacquemart-André, Parigi, fino al 22 luglio 2019.
Fausto Politino
Laureato in filosofia, iscritto all’ordine dei pubblicisti di venezia e già collaboratore del Mattino di Padova. Ora scrivo per la Tribuna di Treviso. Potete seguirmi anche su Twitter: PolitinoF.
Non c’è dubbio. El Greco è oggi considerato un indiscusso maestro del Cinquecento spagnolo, ma non sempre fu capito dai suoi contemporanei. L’artista fu ambizioso, astuto e anche molto coraggioso nell’affrontare le antipatie delle autorità nei suoi confronti, in un periodo difficile nel quale bastava dipingere male un santo per finire processati dal tribunale religioso della Santa Inquisizione. L’opera che vedete qui rappresenta un’Adorazione dei pastori. L’originale scena notturna si trova in uno stretto spazio irregolare (una specie di grotta), la cui apertura composta da due archi, è visibile sullo sfondo del dipinto. Maria tiene suo figlio in grembo, mentre Giuseppe e tre pastori li circondano, esprimendo tutta la loro fervente devozione nei confronti del bambino appena nato.
Un bue in ginocchio osserva la scena. Il cerchio compositivo è chiuso in alto da un gruppo di angeli molto vicini alla sacra famiglia. Essi esprimono tutta la gioia del regno celeste per la nascita di Gesù portando uno striscione che recita “Gloria in excelsis deo et in terra pax”, vale a dire “Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra”. Questo presepe può essere considerato l’ultima opera di El Greco prima della sua morte avvenuta il 7 aprile del 1614. Il dipinto fu destinato ad adornare il luogo di sepoltura della famiglia del pittore presso il convento di Santo Domingo del Antiguo a Toledo, in Spagna, dove El Greco aveva ricevuto la sua prima commissione.
Questa tela segna il culmine della raffinatezza formale con la quale il pittore aveva dipinto questo stesso tema nelle sue versioni precedenti tra il 1597 e il 1605. Tutta la composizione si avvolge in una spirale in movimento dal basso verso l’alto. Gesù Bambino emette una luce intensa che illumina il piccolo gruppo che lo sta contemplando. Maria, Giuseppe, i tre pastori, il bue e il gruppo di angeli che formano una sorta di volta celeste. I colori sono brillanti, le forme e le pose sono strane, creando una sensazione d’estasi e meraviglia in chi guarda. I corpi sono esageratamente allungati e distorti nello stile del tutto originale che caratterizzò l’arte di questo straordinario artista. El Greco, dimenticato per un paio di secoli, fu riscoperto a fine Ottocento dagli artisti romantici. In tempi più recenti Pablo Picasso, nel realizzare le sue Demoiselle d’Avignon che segnarono l’avvio dell’arte moderna, pare si ispirò anche un dipinto di El Greco: L’apertura del quinto sigillo dell’Apocalisse.
Scopri di più
Ti è piaciuta l’opera? scrivimi le tue impressioni e se vuoi conoscere di più sull’artista, leggi gli altri post su El Greco.
C.C.
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L‘arco di trionfo è il monumento simbolico per eccellenza in epoca romana. Non ha una funzione pratica, ma puramente celebrativa. Oggi ho scelto di parlarvi di uno degli archi romani più belli: l’arco di Tito. Venne eretto per celebrare il trionfo di Tito dopo la conquista di Gerusalemme avvenuta nel 70 d.C. La forma di quest’arco è molto semplice, abbellito da colonne corinzie leggermente incassate, scanalate e lisce. I cornicioni, i fregi, le sporgenze e le rientranze arricchiscono questo splendido monumento. Ma sicuramente la parte più bella è quella che si trova sotto all’arco e che fissa in due bassorilievi il trionfo dell’imperatore.
Il corteo trionfale avvenne nel 71 d.C. e i due bassorilievi ne sintetizzano, come due istantanee, i momenti più importanti. Vediamo infatti l’ingresso della quadriga dell’imperatore 2️⃣ e il passaggio attraverso la porta trionfale dei portatori e delle spoglie del bottino 3️⃣. Spicca il candelabro a sette braccia, strappato al tempio di Gerusalemme. L’ultimo rilievo che conclude questo ciclo è in cima al fornice e riguarda l‘apoteosi di Tito 1️⃣. Il sovrano è rappresentato in leggero scorcio, dietro un’aquila, come stesse volando a cavallo di essa. Un’idea unica e stupefacente perchè sembra anticipare i molti voli rappresentati sui soffitti e le cupole italiane tra rinascimento e barocco. Nelle chiavi di volta troviamo le figure di Roma e del Genio del popolo romano, mentre nei triangoli a fianco dell’arco sono inserite vittorie alate su globi.
Ma dobbiamo sottolineare un aspetto che va oltre la semplice celebrazione. I bassorilievi di quest’arco introducono una grande novità. Le figure non sono più allineate parallelamente al fondo, ma si dispongono a formare un arco convesso verso lo spettatore. Il piano di fondo invece si fa concavo per dare l’illusione dello spazio reale, che è tridimensionale. L’illusione dello spazio è preparata quindi già a cominciare dal fondo. Si tratta di una concezione spaziale del tutto inedita per l’arte romana, una concezione che sfrutta la luce e l’ombra, il convesso e il concavo, per dare l’effetto delle tre dimensioni.
Continua l’esplorazione …
Se ti interessa l’arte romana ti consiglio gli altri post ad essa dedicati. Inoltre lasciami un commento con le tue impressioni riguardo a questi splendidi fregi!
C.C.
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Nuovo video della serie curata da Artesplorando, interamente dedicata ai musei e alla loro esplorazione. In questo approfondimento video scopriremo le 10 opere principali del National Gallery of Victoria di Melbourne, selezionate secondo i miei gusti. Sarà come fare un viaggio virtuale nelle sale del museo con la mia voce a guidarvi.
La National Gallery of Victoria di Melbourne è una vasta e ben equilibrata collezione di dipinti europei, la migliore dell’emisfero sud. Non mancano ovviamente anche opere d’arte australiana. Sono esposti dipinti, oggetti d’arredamento, fotografie, stampe e disegni, ma anche diverse statue. Tra le sculture fanno bella figura due opere di Bernini.
Giambattista Tiepolo, Il banchetto di Cleopatra, 1743-1744 John Russell, Peonie e testa di donna, 1887 c. John Brack, Collins St, 17:00, 1955 Bertram Mackennal, Circe, 1893 Rembrandt Harmensz. van Rijn, Due studiosi che discutono, 1628 Pablo Picasso, donna piangente, 1937 Claude Monet, Vétheuil, 1879 Thomas Gainsborough, Richard St George Mansergh-St George, 1776-1780 circa Edouard Manet, House at Roueil, 1882 Auguste Rodin, Il pensatore, 1881-1882
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Le Artesplorazioni sono una serie di video che vi guideranno tra i movimenti e i temi della storia dell’arte, rispondendo alle 5 domande: cosa, chi, dove, quando e perché. Oggi parliamo di … la scuola di Barbizon!
La scuola di Barbizon definisce un gruppo di paesaggisti francesi che prende il nome da un villaggio nei pressi di Fontainebleau dove gli artisti si ritirarono a lavorare e dove alcuni di essi si stabilirono. La loro ispirazione trae origine in parte dall’Inghilterra, in modo particolare da Constable, e in parte dai pittori olandesi del XVII secolo. Gli artisti di Barbizon promossero una pittura diretta della natura, ma a differenza degli impressionisti all’aperto eseguivano solamente degli studi, mentre i dipinti venivano realizzati in atelier. Molti dei pittori di Barbizon dovettero lottare per riuscire ad avere successo, ma nel corso degli anni Cinquanta le loro sorti migliorarono e gli artisti più di spicco ottennero dei riconoscimenti ufficiali.
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Classico e neoclassico, che inizia dagli scavi che portano alla scoperta di Ercolano e Pompei, si incontrano nella mostra Canova e l’antico. Fino al 30 giugno 2019. Al Mann, Museo Archeologico nazionale di Napoli. Il percorso apre un confronto tra le realizzazioni dall’artista di Possagno e le opere d’arte classica conservate al museo. Sono 110 i manufatti proposti: sculture gessi tempere provenienti dalla stessa Possagno. Schizzi e disegni da Bassano del Grappa. L’esposizione è da segnalare poi, perché registra il ritorno in Italia de Letre Grazie. Una delle sei sculture prestate dall’Ermitage, che dialoga con un affresco di Pompei che propone lo stesso tema. Molto diffuso nel mondo greco/romano. Winckelmann sosteneva che se si vuole diventare inimitabili, bisogna imitare, non copiare gli antichi. Monito che ha accompagnato Canova lungo tutto il percorso della sua creazione.
Canova, le tre grazie, Ermitage
Appropriandosi dell’antichità come stimolo per le sue realizzazioni che lo hanno reso celebre come il primo dei moderni. Nelle sue Grazie non ricalca passivamente l’affresco pompeiano. Con la figura centrale vista di schiena. Le scolpisce invece frontalmente come tre giovanissime donne che, sussurrando, dialogano tra loro. Il gruppo marmoreo ripropone le tre figlie di Zeus (Agaia, Eufrosine e Talia) che in genere accompagnano Venere. La sua impostazione è triangolare. Il vertice è posto nella capigliatura della grazia centrale. La nudità callipigia, nella donna di destra in particolare, non dovrebbe suscitare in chi guarda aggressive pulsioni erotiche. L’obiettivo di Canova è la rappresentazione della bellezza ideale attraverso l’elegante perfezione dei corpi. Che esclude qualsiasi irrazionale coinvolgimento emotivo. Corpi avvolti in una morbida luce. Abbracciati in una familiare affettività. Resa attraverso le braccia che si intrecciano, creando sinuose linee curve.
La mostra
“Canova e l’antico”, Mann-Museo Archeologico nazionale di Napoli, fino al 30 giugno 2019.
Fausto Politino
Laureato in filosofia, iscritto all’ordine dei pubblicisti di venezia e già collaboratore del Mattino di Padova. Ora scrivo per la Tribuna di Treviso. Potete seguirmi anche su Twitter: PolitinoF.
Nuovo post della rubrica “Art si gira!!!” in cui ogni volta scopriamo un film dedicato a qualche artista. Oggi vi voglio parlare del film Caravaggio di Derek Jarman, regista e sceneggiatore britannico, che ha creato un’opera davvero unica ispirandosi alla vita di questo celeberrimo artista. Quasi tutti voi conoscerete Caravaggio o quantomeno ne avrete sentito parlare almeno una volta nella vostra vita. Caravaggio, pittore straordinario e rivoluzionario, persona estremamente complessa, dal carattere rissoso, cupo che lo ha portato spesso nei guai e che ha creato intorno a lui un’aurea da “pittore maledetto”. Quel Caravaggio che ha cambiato la storia dell’arte con un uso straordinario della luce e dell’ombra e con un’umanità mai vista prima nel realizzare scene e personaggi religiosi.
La trama del film
Questo film del 1986 non è una “classica” autobiografia, ma ripercorre vari momenti della vita di Caravaggio, compiendo salti temporali e presentandoci una storia per niente lineare. Inoltre sono presenti molte parti realizzate lavorando più con la fantasia che con precise documentazioni storiche.
Come dicevo la trama è segmentata, ma, giusto per darvi l’inizio del film, vi dirò che la prima scena si apre con la morte di Caravaggio (interpretato da Nigel Terry), solo e in esilio. Nel suo giaciglio, moribondo, l’artista ripensa alla sua vita da adolescente e da qui in poi cominciamo a vedere una serie di episodi che ci propongo anche molte delle figure storicamente importanti per il pittore.
Il cardinale Del Monte che alimenta lo sviluppo artistico e intellettuale di Caravaggio e il potente collezionista Scipione Borghese, il creatore di quella splendida raccolta che oggi è in mostra a Galleria Borghese. Ranuccio (interpretato da Sean Bean), un mercenario che cattura l’attenzione di Caravaggio come soggetto e potenziale amante. Lena (Tilda Swinton), ragazza di Ranuccio e anche lei oggetto di attrazione e modella per l’artista. Caravaggio è sempre in strada tra ubriachi e prostitute che usa come modelli per i suoi intensi dipinti. È coinvolto spesso in risse, gioca d’azzardo, si ubriaca e va a letto con i propri modelli, sia maschi che femmine. Insomma il regista calca molto sull’aspetto “trasgressivo” e “maledetto” di questo grande artista.
Il mio parere sul film
Caravaggio è un esperimento visivo forse eccessivo, ma con alcuni sprazzi di ingegno e di brillantezza che ripagano una sua visione. Derek Jarman, pittore lui stesso, girò il film interamente in studio, per controllare meglio gli effetti di luce e ombra, la fotografia e la ricostruzione delle scene. Per questo motivo il film è esteticamente ben riuscito e la sua disarticolazione narrativa è un mezzo che il regista usa per fissare su pellicola il selvaggio balzo dell’immaginazione di Caravaggio. Per questo ve ne consigliamo la visione, con la consapevolezza che non avrete di fronte a voi un normale biopic.
Una curiosità: Jarman nel film include intenzionalmente diversi anacronismi che non si adattano alla vita del XVI secolo. In una scena, Caravaggio è in un bar illuminato con lampade elettriche. Un altro personaggio usa una calcolatrice elettronica e molti altri vestono con abiti moderni. Si sentono dei clacson davanti allo studio di Caravaggio e in una scena si vede il pittore appoggiato su un camion verde. Nel film vediamo anche il fumo di sigaretta, una moto e una macchina da scrivere manuale.
Forse il regista vuole farci capire che Caravaggio anche oggi sarebbe uno scandaloso e rivoluzionario genio dell’arte!