Questo ritratto è il capolavoro dei primi anni di Gainsborough. Venne dipinto dopo il suo ritorno a casa nel Suffolk da Londra, dove aveva studiato per fare il pittore. L’artista si era da poco sposato in segreto perché la moglie era rimasta incinta prima del matrimonio. Le esigenze della nuova famiglia e le sue modeste finanze, costrinsero Gainsborough ad abbandonare l’idea di dipingere paesaggi per dedicarsi ai meglio remunerati ritratti. E la sua prima occasione fu un’opera commissionata dal coetaneo e forse conoscente Robert Andrews, cresciuto nello stesso paese dell’artista. Il soggetto della tela è un ritratto di coppia che celebra le nozze tra Robert Andrews e Frances Carter. Lui era figlio di un proprietario terriero, arricchitosi con investimenti fondiari, ma soprattutto con l’attività di usuraio e lei era figlia di un facoltoso latifondista.
L’analisi del dipinto
I due giovani ben rappresentavano una nuova classe sociale di ricchi ma non nobili di rango, desiderosi di risalire la scala sociale. Il matrimonio quindi fu più strategico che ispirato da vero amore, perché permise alle due famiglie di unire terreni e patrimoni posseduti. Il vasto paesaggio in cui sono collocati i due sposini, terzo protagonista dell’opera, è la testimonianza della vasta tenuta posseduta dai coniugi. Mr. Andrews è in piedi, elegantemente abbigliato con un tricorno alla moda sul capo, anche se le vesti un po’ sbottonate e scomposte vogliono dare l’idea di un ritratto disinvolto, non in posa. Ha un fucile sotto il braccio, una sacca per la polvere da sparo e un cane da caccia. Anche questi sono simboli di ricchezza perché in Inghilterra le licenze per cacciare erano date solo a chi aveva rendite terriere superiori alle cento sterline annue.
La moglie è seduta su un’elaborata panca di legno in stile rococò. Indossa un grazioso cappellino e un abito turchese, la cui gonna immensa arriva a coprire la panchina. Le scarpette di seta non sarebbero mai state indossate per una passeggiata nei campi e sono quindi indizio del fatto che l’opera è frutto di una ricostruzione ideale. Una piccola porzione di tela nel grembo della signora Andrews è incompiuta. Spazio forse riservato a un futuro bambino o a un fagiano cacciato dal marito. Alcuni elementi rappresentati nel dipinto potrebbero avere un significato simbolico, come la quercia, emblema di stabilità, o i covoni di fieno che alludono alla fertilità. L’opera rimase proprietà della famiglia fino al 1960, quando entrò a far parte della National Gallery per una cifra esorbitante.
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C.C.
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L‘audioquadro è un nuovo modo per conoscere i più grandi capolavori della storia dell’arte. In maniera semplice e in pochi minuti. Qui vi parlerò della Sant’Anna la Vergine e il Bambino con l’agnellino di Leonardo. Un’opera che nasconde molti significati, alcuni ancora tutti da svelare, oltre che splendida testimonianza di un grandissimo artista-intellettuale-scienziato.
Quest’opera di Leonardo da Vinci è una delle più belle che il genio toscano abbia mai realizzato. Sant’Anna, la Vergine e il Bambino con l’agnellino. La sua origine è da far risalire molto probabilmente a una commissione del re di Francia, Luigi XII, per celebrare la nascita nel 1499 della sua unica figlia Claude. L’opera non fu mai consegnata al re e seguì Leonardo quando si trasferì alla corte di Francesco I nel castello di Clos-Lucé, presso Amboise, in Francia. Un’ipotesi ritiene che il dipinto sarebbe entrato nella collezione reale tramite il potente cardinale Richelieu. Ma secondo la tesi più probabile fu Francesco I in persona che lo avrebbe acquistato per una grossa somma di denaro da un assistente di Leonardo, dopo la sua morte avvenuta nel 1519.
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Le Artesplorazioni sono una serie di video che vi guideranno tra i movimenti e i temi della storia dell’arte, rispondendo alle 5 domande: cosa, chi, dove, quando e perché. Oggi parliamo di … Der Blaue Reiter, il Cavaliere Azzurro!
Si tratta di una libera associazione di artisti uniti da un intento comune, nata grazie all’incontro di Wasilij Kandinskij e Franz Marc. Il nome del gruppo dipese dalle opere di Kandinskij, che proprio in quel periodo si trovò a dipingere diversi cavalieri (un quadro del 1903 ha come titolo Cavaliere azzurro) e dal colore blu che Marc riteneva il più puro in assoluto, il colore della spiritualità. Ebbe tre principali caratteristiche: Fu un gruppo cosmopolita, quindi non si fossilizzò solo sulla cultura di una nazione, ma rimase sempre aperto a idee nuove. Fu trasversale nelle tecniche artistiche, non concentrandosi solo sulla pittura. Attribuì al colore un valore simbolico, lottando contro il naturalismo in favore di una liberazione delle forme e verso l’affermazione di valori spirituali. Gli artisti del gruppo crearono un almanacco, chiamato anch’esso Der Blaue Reiter, che inizialmente doveva essere un periodico, ma poi uscì come versione unica nel 1912.
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L‘audioquadro è un nuovo modo per conoscere i più grandi capolavori della storia dell’arte. In maniera semplice e in pochi minuti. Qui vi parlerò del San Girolamo di Leonardo. Un’opera incompiuta ma per questo non meno affascinante, oltre che splendida testimonianza di un grandissimo artista-intellettuale-scienziato e del suo modo di procedere nei dipinti.
Questo dipinto è opera di Leonardo da Vinci, pittore, ingegnere e scienziato, uomo d’ingegno e talento universale del rinascimento, nato a Vinci, piccolo paese vicino a Firenze, nel 1452. Leonardo si occupò di architettura e scultura, fu disegnatore, trattatista, scenografo, anatomista, musicista, progettista e inventore. Insomma uno dei geni più grandi che l’umanità abbia mai generato. Non sappiamo quale fosse la destinazione di questo dipinto, né chi fu il committente e ad oggi resta una delle creazioni più enigmatiche di Leonardo. L’opera non è finita e rappresenta San Girolamo, teologo romano, padre ed erudito della Chiesa. Curiose sono le vicende che il dipinto attraversò nel corso della storia: all’inizio dell’Ottocento troviamo l’opera citata nel testamento della pittrice svizzera Angelica Kauffmann.
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Ed eccoci a una nuova opera, Annunciata, che voi stessi avete votato di più tra quelle dell’artista Antonello da Messina, in occasione del sondaggio realizzato nella community di Artesplorando su Facebook. In poetico equilibrio tra l’analitica ricerca fiamminga e la monumentalità italiana, Antonello da Messina combina la vivacità degli sfondi e la vitalità appassionata dei ritratti. Viaggia molto questo artista lungo la penisola, da Venezia a Napoli, realizzando una carriera molto dinamica. Negli ultimi anni di vita però torna nella sua Sicilia, dove lascia una duratura eredità artistica e un grande capolavoro com’è l’Annunciata di Palermo, conservata a Palazzo Abatellis. Questo capolavoro, dipinto probabilmente in Sicilia nel 1476, mostra Maria interrotta nella sua lettura dall’Angelo dell’Annunciazione.
Un dipinto che è stato per anni oggetto di indagini e studi di vario genere perché considerato “misterioso”. Ancora oggi è ritenuto uno dei dipinti più enigmatici, e sicuramente uno dei più significativi, nella storia dell’arte. L’elemento principale che colpisce è che si tratta di una rappresentazione dell’Annunciazione, eppure non vediamo alcun angelo. Quindi possiamo solo intuire ciò che sta accadendo dall’atteggiamento di Maria. È chiaro che la Vergine, impegnata a leggere, viene distratta da qualcosa o da qualcuno. Ecco quindi che alza lo sguardo e si volta leggermente verso l’oggetto della sua distrazione. Con la mano destra, sembra quasi salutare chiunque le stia parlando, ma, se guardiamo da vicino, ci rendiamo conto che è più di questo. Con quel gesto sta esprimendo delicatamente, ma fermamente, il consenso alla richiesta che ha appena ricevuto.
L’effetto e le emozioni che sorgono in noi dalla visione di questo capolavoro sono legate al fatto che vediamo la Vergine Maria esattamente come l’ha vista l’Angelo. Noi spettatori diventiamo i portatori del fatidico annuncio.
Continua l’esplorazione:
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Lui è il cantore per eccellenza della Parigi notturna e decadente di fine Ottocento. Henri de Toulouse-Lautrec, pittore, disegnatore, grafico, illustratore e litografo, è ormai considerato una delle figure più significative della storia dell’arte. Figlio di un nobile eccentrico, crebbe con l’amore per i cavalli e lo sport, ma, a causa di una malattia ereditaria e di due fratture alle gambe quando era bambino, fu colpito da un arresto della crescita ossea. Per questo motivo raggiunse a malapena i 152 cm, con una testa sproporzionatamente grande rispetto al corpo. Henri inoltre camminava con difficoltà, ma questi suoi problemi fisici non lo fermarono minimamente nel vivere appieno la propria vita. La sua infatti fu un’esistenza breve, ma intensa.
Henri de Toulouse-Lautrec, Ballo al Moulin Rouge
Fin da piccolo mostrò talento nel disegno e già nel 1882, a 18 anni, iniziò a studiare con Bonnat e l’anno successivo divenne allievo di Cormon, due grandi dell’arte accademica. Il giovane Henri bruciò le tappe e già nel 1884 gli fu permesso di aprire il suo studio personale nel quartiere di Montmartre a Parigi. I suoi due maestri gli diedero una solida formazione tradizionale che comunque lo segnò in maniera indelebile. Infatti, nonostante le sue opere suggeriscano un senso di spontaneità, nascevano in realtà da un attento studio del disegno. In questo senso fu di grande ispirazione per lui Degas, l’impressionista che più ammirava. Da lui e dalle stampe giapponesi Lautrec elaborò le sue composizioni in cui le scene vengono colte come da una rapida occhiata di traverso.
La tecnica e i temi
Dal punto di vista della tecnica, Lautrec fu decisamente anticonvenzionale. Dipinse molte volte su cartone con pittura a olio molto sottile, ma spesso mescolò tecniche solitamente usate separatamente, come il pastello e l’olio. E riguardo ai temi delle sue opere? Lautrec era una persona molto sensibile e la sua attenzione fu rivolta alla rappresentazione dell’umanità che lo circondava. E attorno a Henri c’era il mondo dei caffè parigini, dei bordelli e dei locali notturni come il celeberrimo Moulin Rouge. Umorismo, malinconia, disillusione e disperazione spesso fanno capolino nelle opere di questo grande artista. Particolarmente riuscite sono le scene dei bordelli perchè le prostitute si rivelarono le modelle ideali per Toulouse. L’artista amava la disinvoltura con cui andavano in giro nude o seminude e amava rappresentarle così com’erano, senza moralismi o facili sentimentalismi.
Henri de Toulouse-Lautrec, La Goulue entra al Moulin Rouge
Pensate che a volte alloggiava nei bordelli per intere settimane e le prostitute arrivarono a considerarlo un amico. Lui si concentrò sulla noiosa routine del loro lavoro ed ebbe un occhio sensibile nel fissare i legami d’amore che spesso nascevano tra queste donne. E frequentando questo mondo, l’artista si abbandonò rapidamente ai piaceri della vita. Ma nonostante una vita dissipata e dedita all’alcol, Lautrec fu sempre un professionista dedito al lavoro. I propri guadagni li conservava in un conto separato rispetto a a quello su cui gli veniva versata la rendita familiare. Anche dopo una notte di follie si recava al mattino presto al laboratorio di stampa per controllare la produzione delle sue litografie. E in effetti, nonostante la breve vita, questo artista fu molto prolifico.
1- Jane Avril 2- Il bacio 3- Le due amiche.
I celebri poster
Uno degli aspetti del suo lavoro che l’hanno reso unico nella storia dell’arte riguarda i celebri disegni per i poster. Anche se ne produsse solo una trentina, riuscì a sviluppare un disegno espressivo, coinvolgente che ha rivoluzionato il genere della locandina pubblicitaria. Grazie a queste opere i nomi delle ballerine, come Jane Avril e La Goulue, sono ricordati ancora oggi. Non solo, l’artista tenne anche a battesimo nuovi talenti, tra cui la sua modella e amante Suzanne Valadon. Tra le sue opere più riuscite ricordiamo Ballo al Moulin Rouge, Il bacio, Jane Avril, La Goulue entra al Moulin Rouge e Le due amiche.
Esiste solo la figura umana; il paesaggio è, e deve restare, un accessorio.
Segnato dall’alcolismo e dalla sifilide, Lautrec si ammalò gravemente nel 1899 e morì due anni dopo a soli trentasei anni. Nel 1922 sua madre donò un’ampia raccolta delle sue opere al museo della sua città natale, Albi, che fu intitolato all’artista. Il museo ospita anche molti ricordi, tra cui il bastone che Lautrec usava per camminare che nasconde un segreto. Il manico si apre per rivelare un piccolo bicchiere e una fiaschetta di brandy. Un uomo originale in tutto, anche nel tenere a bada i propri vizi.
Ad uno dei maggiori esponenti della pittura italiana del secondo Novecento, Piero Guccione (Scicli 1935 – Modica 2018), il Museo d’arte di Mendrisio nella Svizzera italiana, fino al 30 giugno 2019, dedica la retrospettiva “La pittura come il mare”. Articolata in 56 opere. Mare che è stata la sua grande passione a partire dagli anni Settanta. Una passione al limite dell’ossessivo. Il cui inizio è legato ad un preciso ricordo. L’idea di dipingerlo, “nasce dalla mia memoria di bambino”, chiariva lo stesso Guccione. “Col carretto arrivavo da Scicli e improvvisamente, terminata una breve salita, lungo la discesa, si vedeva il mare. Era un’apparizione meravigliosa. Il senso di profondità, la distanza, la luce, davano al mare un movimento dolcissimo”.
Ecco in estrema sintesi, l’autore era un artista di poche parole, gli elementi fondanti della sua poetica legati al soggetto. Non ci sarebbe bisogno di aggiungere altro. Chi ha vissuto la stessa esperienza. Chi ha respirato lo stesso mare, specialmente in solitudine, assorbendone gli odori in giornate di calma piatta. Con le sottili increspature dell’acqua che si intuiscono in lontananza, può riconoscersi fino in fondo nella sensazione raccontata. A questo punto non rimane che mettersi di fronte ad alcune creazioni di Guccione e lasciarsi catturare dalla loro misteriosa malia.
Piero Guccione, luna d’agosto
Nel 1978 dipinge due quadri: La nave e l’ombra del mare e Piccolo mare con peschereccio. L’artista sembra ancora avere bisogno di inserire nei suoi quadri tracce referenziali. Anche se non invadenti. Ridotte al minimo. Tracce figurative non legate al reale ma legate all’esplorazione della complessità della percezione. Sia fisica sia psicologica. Friedrich sosteneva che “il pittore non deve solo dipingere ciò che ha davanti a sé ma anche ciò che vede in sé”. Il brandello di vela bianca che Guccione ha posto in cima al quadro, sfiora leggerissima la linea dell’orizzonte. Come se volesse aggrapparsi a qualcosa di tangibile che spezzi l’assoluto della visione. Da questo momento in poi non ne ha più bisogno. Perché la luminosità dell’azzurro diventa l’assoluta protagonista.
Come in Luna d’agosto. L’immagine del mare, che non ha niente a che vedere con la veduta, è rigorosa essenziale ascetica. Immersa nel silenzio. Il superfluo, come i manufatti presenti in altre opere, muretti o linee telefoniche che servivano a scandire lo spazio, è bandito. Ora lo spazio è cadenzato da colore. Dai suoi impercettibili mutamenti: azzurro-viola-azzurro che annullano i confini fra mare e cielo. Dalla luce che invade l’opera da ogni parte e riesce a raffigurare ciò che sembra impossibile: l’infinito. Una pittura, quella di Guccione, dalla doppia lettura. Se la guardiamo da lontano può sembrare di semplice fattura. Vista da vicino, con attenzione, si scopre un affascinante e fittissimo intreccio di segni che rimanda all’impercettibile eterno movimento dell’acqua.
La mostra
“La pittura come il mare”, Museo d’arte di Mendrisio, Svizzera, fino al 30 giugno 2019.
Fausto Politino
Laureato in filosofia, iscritto all’ordine dei pubblicisti di venezia e già collaboratore del Mattino di Padova. Ora scrivo per la Tribuna di Treviso. Potete seguirmi anche su Twitter: PolitinoF.
È una bella domenica di sole, l’acqua è fresca e l’erba è morbida in questa tela di Seurat, ambientata ad Asnières, sobborgo industriale sulla Senna a nord-ovest di Parigi. Infatti sullo sfondo del dipinto sono presenti diverse ciminiere delle fabbriche di Clichy, mentre il fumo che intravediamo proviene da un treno che sta transitando sul ponte. In primo piano un gruppo di giovani, probabilmente operai, si stanno rilassando in riva al fiume. Uno di essi al centro del dipinto si è tolto tutti i vestiti e, rimasto in costume, si è seduto in riva al fiume con le gambe a bagno. Un altro è già in acqua e sembra soffiarsi sulle mani, forse per scaldarsi. Un altro ancora, sul bordo del dipinto, è mollemente sdraiato con un cagnetto contro la schiena.
Poco più in là, un bagnante in acqua si stringe nelle spalle per il freddo mentre uno sta seduto sul prato con un largo cappello di paglia in testa. Sul fiume una barca trasporta una coppia sull’isola della Grande Jatte, tema di un’opera successiva di Seurat. Questo è il primo grande dipinto dell’artista che disegnò studi a pastello per le singole figure utilizzando modelli dal vivo. Fece inoltre piccoli schizzi a olio sul luogo che poi usò per aiutarsi a progettare la composizione finale e a registrare gli effetti di luce e di atmosfera. La tecnica che qui usa Seurat non è quella puntinista, che in effetti il pittore non aveva ancora messo a punto. Ma vediamo già che in diverse aree della tela l’artista applicò il colore con punti in contrasto tra loro per creare un vibrante effetto luminoso.
Un’opera dai grandi contrasti cromatici
Ad esempio Seurat aggiunse al cappello del ragazzo in acqua dei punti di arancione e blu per accentuare il contrasto cromatico. L’erba del prato è il risultato d’insieme di molti colori tra cui il giallo cadmio, l’azzurro cobalto, il blu oltremare, il magenta e il viola. La semplicità delle forme e l’uso di profili regolari chiaramente definiti dalla luce, ricorda il dipinto dell’artista rinascimentale Piero della Francesca con il Battesimo di Cristo, conservato sempre alla National Gallery. Nel suo modo di creare figure viste di profilo, Seurat potrebbe anche essere stato influenzato dall’arte egizia. Un particolare colpisce: manca totalmente la comunicazione tra i personaggi che sembrano tutti persi nei loro pensieri. È come se ci trovassimo di fronte a una versione moderna del tema classico delle bagnanti in cui giovani donne sono rappresentante mentre fanno il bagno sullo sfondo di un paesaggio rigoglioso e incontaminato.
Dieci opere d’arte per avvicinarci alla scultura, una tecnica artistica attraverso la quale gli artisti nel corso della storia dell’arte hanno creato grandissimi capolavori. Nuovo video della serie “10 momenti di …”, realizzato da Artesplorando con lo scopo di offrirvi dei punti di vista originali sull’arte.
Per scultura si intende l’arte e la tecnica dello scolpire, cioè di rappresentare il mondo esterno. O meglio di esprimere l’intuizione artistica per mezzo di materiale che viene modellato. Nella denominazione di scultura si comprende ogni opera plastica, sia essa scolpita, plasmata in materia cedevole, fusa o ottenuta dalla saldatura di pezzi metallici o dall’aggregazione di materiali diversi tridimensionali. I materiali utilizzati nella scultura sono diversi e cambiano nel corso della storia. Quelli però più classici e con eccezionale durata nel tempo, sono i metalli, in particolare il bronzo, la pietra e la ceramica. Legno, osso e corno sono alternative più economiche, ma meno durevoli. Materiali preziosi come l’oro, l’argento, la giada e l’avorio vennero spesso usati per piccole opere di lusso. Ma talvolta anche in quelle più grandi, come nelle celebri statue crisoelefantine.
Troverai un breve commento delle seguenti opere: Torso del Belvedere Afrodite Cnidia Gian Lorenzo Bernini, Apollo e Dafne Edgar Degas, ballerina di 14 anni Venere di Milo Antonio Canova, Amore e Psiche Policleto, Doriforo Nike di Samotracia Scriba seduto Michelangelo Buonarroti, gli Schiavi
Il video è anche sottotitolato in italiano, inglese, francese e spagnolo. Puoi contribuire anche tu a migliorare i sottotitoli in lingua straniera, accedendo nell’apposito spazio del canale Youtube. Segui quindi la playlist “10 momenti di …” per non perderti mai nulla e lascia un commento sotto ai video in cui puoi tu stesso suggerirci opere oppure nuovi temi da trattare in futuro. Il tuo contributo quindi è prezioso.
Breve biografia della vita e delle opere di Felicien Rops, artista simbolista in bilico tra incubo e blasfemia. Nuovo video della serie artisti in 10 punti realizzato con lo scopo di farvi conoscere i protagonisti dell’arte. In questi brevi video avrete modo di conoscere in pochi minuti le caratteristiche principali, le curiosità e alcuni aspetti meno noti di molti artisti.
Felicien Rops nacque a Namur, capitale della Vallonia, nel 1833. Sostanzialmente autodidatta, l’opera di Rops trae linfa in parte dall’esperienza realista. Non solo, la sua arte si collega anche agli esiti della generazione simbolista in particolare dell’ambiente letterario belga. Dopo un periodo di formazione all’Accademia di Namur e a quella di San Luca a Bruxelles, dove incontrò altri artisti, iniziò a collaborare ad alcune riviste di stampo satirico. Prima con il foglio studentesco Le crocodile e poi attivamente al settimanale Uylenspiegel, rivelando notevoli qualità di caricaturista nelle sue maschere metamorfìche della realtà.
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Venere e Marte. Marte, dio della guerra, è stato uno degli amanti di Venere, dea dell’amore. Qui lui è addormentato e inerme, mentre lei è sveglia e vigile. Siepi di alloro e mirto racchiudono la scena, separandola dallo sfondo in cui vediamo un paesaggio con montagne. Il significato dell’opera di Sandro Botticelli molto probabilmente riguarda l’amore che vince la guerra, o l’amore che vince su tutto. Questo perché Marte, dio della guerra e personificazione della violenza sta dormendo profondamente, esausto dopo un incontro d’amore con Venere. Nemmeno lo squillo prodotto da un satiro soffiando dentro una conchiglia come fosse una tromba riesce a svegliarlo. I piccoli fauni stanno combinando un gran casino. Hanno rubato la lancia al dio, uno di loro ne ha indossato l’elmo troppo grande per la sua testa e un altro sbuca da dietro la schiena di Marte indossandone l’armatura, anche in questo caso troppo grande.
Questo dipinto fu probabilmente realizzato come pezzo d’arredamento per una camera da letto, forse si tratta di una testata oppure del rivestimento di una cassapanca matrimoniale, il che spiegherebbe le sue dimensioni strette e lunghe. Ma chi furono i committenti? Un piccolo indizio lasciato dall’artista che si divertiva a giocare con i simboli e le parole, potrebbe svelare il mistero. Le vespe in alto a destra suggeriscono un legame con la famiglia Vespucci, anche se potrebbero essere semplicemente il simbolo delle punture dell’amore. Forse l’opera risale al 1483-84 quando Botticelli, tornato da Roma dove aveva lavorato agli affreschi della Cappella Sistina, divenne uno dei pittori più richiesti a Firenze.
Pare che i Vespucci abitassero proprio vicino alla bottega dell’artista e che, come spesso accade tra vicini, i rapporti fossero altalenanti. Ed è forse per questo che quando la famiglia propose a Botticelli un dipinto come dono di nozze, questi ne approfittò per dare largo spazio alla fantasia, ma anche allo scherzo. Se fate caso infatti il satiro che emerge da dietro la schiena di Marte, ha uno strano frutto tra le mani. Di che si tratta? Ancora oggi non è certo, ma le ipotesi sono due. O è lo “stramonio” frutto di una pianta allucinogena e afrodisiaca. Oppure è il “cocomero asinino” caratteristico per il cattivo odore e per le proprietà lassative. Un dettaglio non ancora del tutto spiegato, ma che certamente ci fa capire lo spirito scherzoso che contraddistinse Botticelli in questa fase della sua vita.
Vorrei segnalare alcune opere presenti nelle Gallerie Nazionali di Arte Antica a Roma a Palazzo Barberini. L’occasione è fornita dal nuovo allestimento dei capolavori del Settecento a Roma, aperto al pubblico, delle dieci sale espositive nell’ala sud. Iniziamo dalla Maria Maddalena di Guido Cagnacci (1601-1663). Precocemente attratto dall’immagine della donna. Spesso raffigurata in pose languide e seducenti. Anche se quella della Maddalena fa parte di una consolidata tradizione iconografica. La donna ha trovato rifugio in una grotta. Viva da eremita, lontana dalle tentazioni terrene. Accanto a lei c’è una croce. E il vasetto di nardo con il quale ha unto i piedi di Cristo alla cena di Betania. In grembo, quasi accarezzandolo, tiene il teschio del memento mori. Nella mano destra sembra sfiorare il flagello per mortificare la carne.
Pierre Subleyras, nudo femminile di schiena
Lo stato in cui si trova la donna, il suo lasciarsi andare, dovuto all’estasi mistica o alle conseguenze delle privazioni ascetiche, non dà l’impressione di chi sia martoriata dalla penitenza. Le parti scoperte del suo corpo sono sode e vigorose. Non ci sono tracce visibili di mortificazione. Nel Nudo femminile di schiena di Paul Subleyras (1669-1746), la nuda corporeità è l’assoluta protagonista. L’artista ha eliminato ogni pretesto iconografico, orpelli o abiti. Non è una dea, non è una ninfa, non ci sono latenze allegoriche e non sappiamo se sia una modella, un’amante o la moglie del pittore. Ma il movimento sinuoso delle forme; gli accattivanti tratti anatomici vanno oltre il mero studio accademico. La donna è raffigurata in uno stato di intimità che ribalta i codici della ritrattistica ufficiale. Anticipando di un secolo lo scalpore che susciterà Manet con la sua Olympia.
Mattia Preti, la fuga da Troia
Preti e Bernini
Con Mattia Preti (1613-1699) si cambia soggetto. Ne La fuga di Troia, l’eroe traspira pietas da tutti i pori. Rispettoso verso gli dei e verso gli uomini. Lo vediamo mentre si china sotto il peso dell’anziano padre Anchise che porta sulle spalle. Anche se sembra vacillare, i suoi passi sorretti da gambe muscolose vanno dritti alla meta. Come racconta Virgilio nell’Eneide. Sullo sfondo il terribile incendio di Troia, distrutta dagli Achei con l’inganno ordito dall’astuto Ulisse. Sulla destra s’intravede la moglie Creusa. Lo sguardo rivolto indietro. Come presagio del suo smarrimento nella notte della caduta della città. Enea ne griderà il nome cercandola. Fino a quando non scorgerà il suo fantasma. A guidare il gruppo è il personaggio seminudo del piccolo Ascanio. In primo piano. Dalla sua stirpe sorgerà Roma. A lui Preti affida la scansione narrativa. La visione del dramma del presente e la consapevolezza del futuro riscatto.
Gian Lorenzo Bernini, busto di papa Clemente X Altieri
Il marmo di Gian Lorenzo Bernini (1598-1680), Busto di papa Clemente X Altieri, fu consegnato dopo la scomparsa del pontefice. Non finito del tutto. Come si intuisce dai ponticelli tra le dita e dal supporto che sostiene la mano. Il ritratto configura il papa nel momento solenne della benedizione apostolica. Con la mano destra nel segno della croce. Anche se la scultura non ha il dinamismo di altre opere, si fa notare per le capacità tecniche e l’intensità dell’espressione insita nel gesto che sta compiendo.
L’evento
Nuovo allestimento dei capolavori del 700, aperto al pubblico, delle dieci sale espositive nell’ala sud, Gallerie Nazionali di Arte Antica di Palazzo Barberini, Roma.
Fausto Politino
Laureato in filosofia, iscritto all’ordine dei pubblicisti di venezia e già collaboratore del Mattino di Padova. Ora scrivo per la Tribuna di Treviso. Potete seguirmi anche su Twitter: PolitinoF.
Cos’è la sensualità, l’erotismo? come rappresentarli? Qui vedremo solo 10 opere sensuali, ma basteranno a rapirvi. O almeno è ciò che ha pensato Jonathan Jones che ha scritto la versione originale dell’articolo in inglese. Da Egon Schiele a Tiziano e Robert Mapplethorpe, questi artisti hanno celebrato la sensualità e l’erotismo in modi unici e stimolanti.
Egon Schiele – Donna con calze nere, 1913
Non c’è artista più sexy di Egon Schiele. Il motivo per cui le rappresentazioni nude e semi nude delle sue modelle e amanti sono così accattivanti è piuttosto semplice. Hanno un qualcosa di decadente. Schiele, che fu arrestato con l’accusa d’aver traviato una minorenne, dipinse donne non solo con lussuria e adorazione, ma anche con franchezza, senza abbellimenti o idealizzazioni.
Pablo Picasso – La Douleur, 1902 o 1903
Picasso era ossessionato dalle donne e dal sesso, e questa passione non poteva essere interamente soddisfatta dai capolavori modernisti in cui riversava tanto amore e talvolta avversione. Dalla sua giovinezza alla sua vecchiaia l’artista ha sempre raffigurato l’erotismo e la sensualità. Questo dipinto realizzato da un giovane Picasso, coglie un momento del giovane artista mentre si trova al bordello.
Hokusai – Il sogno della moglie del pescatore, 1814
Nel capolavoro di Hokusai, un esempio del genere di arte erotica giapponese conosciuto come Shunga, una donna che si tuffa per raccogliere perle, viene presa da due polpi. Il più grande dei due avvolge il suo corpo nudo e pallido con i propri tentacoli mentre esegue una nota pratica erotica.
Meret Oppenheim – Oggetto, 1936
La tazza di pelo: da quando è stata creata questa è stata la più famosa opera d’arte erotica del XX secolo. Mentre i suoi colleghi maschi del movimento surrealista esploravano nevrosi e paranoie, Oppenheim arrivò dritta al punto e creò una scultura di pura sensualità. La sua celebrazione del cunnilingus è oggi un’icona universale del piacere.
Correggio – Giove e Io, 1530 circa
Una donna nuda è avvolta da una nebbia blu in questa esplicita rappresentazione del mito greco realizzata dal Correggio. Il dio Giove si è tramutato in nuvole e nebbia per raggiungere Io. Nella storia antica prende questa forma per eludere i sospetti di sua moglie. Il Correggio, invece, lo trasforma in una fantasia erotica e immagina letteralmente come sarebbe se una nebbia avvolgesse un corpo nudo. Lei si scioglie di gioia mentre la nuvola la accarezza.
Robert Mapplethorpe – Jim, Sausolito, 1977
Cosa rende la grande arte erotica diversa dal semplice porno? È la passione e il coinvolgimento dell’artista, il cuore soggettivo dell’immagine. Nelle sue fotografie della scena gay-masochista degli anni ’70, Mapplethorpe va oltre la provocazione o il reportage per creare ritratti intimi di un mondo fantastico. Ecco un artista che ci mostra ciò che trova bello.
Helmut Newton – Office Love, 1977
L’arte di Helmut Newton è allo stesso tempo intensa e teatrale, sofisticata e spiritosa eppure, nel suo intimo, profondamente seria. Newton non scherza sul sesso. Vuole che le sue fotografie suscitino forti emozioni, e lo fanno, perché esplora così audacemente i propri desideri. Ma ciò che rende la sua arte così sexy è la sua convinzione che il sesso sia la cosa più importante al mondo, una questione di vita o di morte.
Antonio Canova – Psiche rianimato dal bacio di Cupido, 1787-93
Il potere dell’amore porta in vita i morti in questo grande inno artistico al desiderio. Canova è forse l’unico artista che abbia mai reso sensuale il marmo. Le sue statue sono tremendamente erotiche, intagliate nella pietra fredda per restituire tenui immagini di carne nuda. Qui, sia Cupido che Psiche sono raffigurazioni di intensa bellezza e il loro abbraccio è la prova che l’amore conquista tutti.
Tracey Emin – Coloro che soffrono di amore, 2009
Nel suo video più esplicito, Tracey Emin crea una sequenza animata dei propri disegni che rappresentano l’autoerotismo di una donna. È un omaggio a Egon Schiele e un’opera d’arte che riesce ad essere al tempo stesso poetica, come immagine di solitudine, ed eccitante, come immagine di piacere.
Tiziano – Danae, 1544
Una donna si prepara a fare l’amore con un Dio in questo dipinto. Giove viene a Danae sotto forma di una pioggia d’oro. La modella dell’opera potrebbe essere stata una cortigiana e amante del cardinale che commissionò questo dipinto. Ma al di là di tutto, c’è qualcosa di estremamente originale in questa scena. Tiziano qui eleva il sesso a un vero e proprio atto religioso.
Dieci spunti per avvicinarci ad alcune delle più grandi muse della storia dell’arte. Donne che hanno ispirato gli artisti. Nuovo video della serie “10 momenti di …”, realizzato da Artesplorando con lo scopo di offrirvi dei punti di vista originali sull’arte.
Le Muse erano divinità minori che appartenevano al dio Apollo. Erano nove sorelle, giovani e bellissime, figlie di Zeus e di Mnemosine, che in greco significa memoria, nate ai piedi dell’Olimpo. Abitanti dell’Olimpo, a questo preferivano il Parnaso, dove amavano suonare, cantare e danzare per il dio Apollo. Ognuna di esse aveva le sue particolari attribuzioni. Le Muse erano invocate dagli artisti, specialmente dai poeti, come ispiratrici delle loro opere. Ma cosa rappresentano le Muse nella realtà? come condizionarono e influirono sugli artisti? Sono mogli, amanti, figlie, amiche, modelle a pagamento… o altro ancora? La Musa è molto di più che una modella a pagamento. È la parte femminile dell’artista (maschio). È lo yin del suo yang. Penetra la mente dell’artista e lo ispira. Può diventare sua moglie (o amante), ma non necessariamente. Non è una questione di contatto fisico, ma mentale.
Troverai un breve commento alle seguenti muse: Adele Bloch Bauer Bella Rosenfeld Alma Maria Schindler Margherita Luti Gala Chiara Fancelli Jeanne Hebuterne Victorine Meurent Lydia Delectorskaya Aline Charigot
Il video è anche sottotitolato in italiano, inglese, francese e spagnolo. Puoi contribuire anche tu a migliorare i sottotitoli in lingua straniera, accedendo nell’apposito spazio del canale Youtube. Segui quindi la playlist “10 momenti di …” per non perderti mai nulla e lascia un commento sotto ai video in cui puoi tu stesso suggerirci opere oppure nuovi temi da trattare in futuro. Il tuo contributo quindi è prezioso.
L‘audioquadro è un nuovo modo per conoscere i più grandi capolavori della storia dell’arte. In maniera semplice e in pochi minuti. Qui vi parlerò di Nichols Canyon di David Hockney. Un’opera in grado di raccontarci chi è questo artista e qual è il suo modo di fare arte.
È stato l’artista stesso a descrivere, con precisione analitica, questo grande e allegro dipinto dai vivaci colori. A Hollywood Hills non conoscevo molta gente e da quelle parti quando non conosci nessuno, non ci vai nemmeno, perché è facile perdersi … ma, una volta che ci vivi, hai un’altra visuale di Los Angeles. Per prima cosa, tutti i tornanti là sotto sembrano attraversare la vita e poi anche la pittura. Così cominciai Nichols Canyon. Presi una grande tela e vi dipinsi in mezzo una serpentina, perché la strada mi si presenta proprio così. Abitavo in collina e dipingevo nel mio atelier in città. Facevo la spola, su e giù, due, tre, persino quattro volte a giorno. Sentivo che, dentro di me, i tornanti si trasformavano letteralmente in carne e sangue.
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Nuovo appuntamento con l’imperdibile post dedicato alle persone che hanno contribuito alla storia dell’arte pur non essendo artisti. Collezionisti, critici e mercanti. Si tratta di uomini e donne che hanno collezionato, commerciato, investito sull’arte e sugli artisti. Badate bene che, a differenza d’oggi, spesso queste persone lo facevano inseguendo un gusto o un progetto personale. Oppure semplicemente per una smania incontenibile di collezionismo. Senza pensare alle opere come mero investimento in grado di rendere nel tempo. A volte si trovarono a sostenere artisti su cui pochi avrebbero scommesso. Insomma troverete come al solito molte storie interessanti. Gli altri post li potete leggere seguendo il link Collezionisti, critici e mercanti.
Alessandro Contini Bonacossi
Alessandro fu un collezionista precoce, interessandosi inizialmente di francobolli. A soli diciott’anni possedeva un’importante collezione filatelica. In questo periodo partì per la Spagna, dove soggiornò diversi anni. Un soggiorno che più tardi gli consentì di scegliere con sicurezza le opere dei maestri spagnoli, che costituirono parte della sua galleria. Tornato in Italia nel 1911, si stabilì a Roma. Il mercato delle opere d’arte, estremamente attivo tra le due guerre, favorì i suoi progetti. Acquistò e vendette, formando una collezione di grande ricchezza, la cui parte essenziale era costituita dalla pittura italiana, dai primitivi a Tiepolo, con un complesso notevole di dipinti spagnoli, dominato dalla celebre Natura morta di agrumi di Zurbarán.
Stabilitosi dal 1927 a Firenze, Bonacossi già pensava di fare una donazione ai musei fiorentini. Un comitato composto da rappresentanti dello Stato italiano e della città di Firenze venne incaricato di selezionare opere che colmassero certe lacune delle raccolte fiorentine. Tranne alcuni pezzi, sono state prevalentemente scelte opere italiane non appartenenti alla scuola fiorentina e, di conseguenza, meno rappresentate agli Uffizi e a palazzo Pitti, dove la donazione ha trovato posto. Numerose opere importanti della collezione sono state acquisite da altri grandi musei dopo il 1970: il Louvre di Parigi, il County Museum di Los Angeles, Brera a Milano, la National Gallery di Canberra e la fondazione Norton Simon di Pasadena.
Francis Cook
Francis Cook
Ricco industriale tessile, acquistò nel 1860 Doughty House a Richmond. Con i consigli di Charles Robinson, sovrintendente ai quadri della regina, vi raccolse una delle più ricche raccolte di maestri antichi dell’Inghilterra vittoriana. Tale collezione era però in gran parte dedicata alla pittura italiana, soprattutto rinascimentale. Spiccava pure un’importante raccolta del XVII secolo fiammingo e olandese. Cook si distinse per non possedere nella sua collezione alcuna tela inglese successiva al 1820. La raccolta era in mostra in gallerie appositamente costruite allo scopo, ed era in ogni momento accessibile agli studiosi. Il figlio Herbert ereditò la maggior parte della collezione, ma successivamente la raccolta fu venduta gradualmente.
Lorenzo Corsini
Lorenzo Corsini
Quest’uomo, destinato a un’altissima carica, apparteneva a una famiglia di collezionisti impegnata a Firenze e a Roma in imprese architettoniche e nel collezionare dipinti. Nel XVII secolo aveva fatto costruire a Firenze i palazzi Corsini sul lungarno da Pier Francesco Silvani e Antonio Ferri e la cappella di Sant’Andrea Corsini nella chiesa del Carmine. Lorenzo Corsini, divenuto papa col nome di Clemente XII (1730-40), sviluppò a Roma una grande attività edilizia, facendo restaurare il Vaticano e commissionando la fontana di Trevi, nonché le facciate di San Giovanni in Laterano e San Giovanni dei Fiorentini. A lui si deve il Museo capitolino, primo grande museo di antichità in Europa.
Furono i nipoti del papa, Lorenzo a Firenze, e il cardinal Neri a Roma, a costituire le collezioni di pittura della casata. Lorenzo raccolse i quadri fino ad allora dispersi nelle varie residenze familiari, e ne affidò la collocazione e il restauro al pittore Ignazio Hugford. A Roma, il cardinal Neri acquistò nel 1736 palazzo Riario alla Lungara e lo fece trasformare da Ferdinando Fuga, e decorare con affreschi dai maggiori esponenti della pittura. Fece sistemare una galleria per ospitare la collezione di dipinti che aveva cominciato a raccogliere con l’aiuto del suo segretario, monsignor Bottari. Il 1° marzo 1754 questa galleria venne aperta al pubblico, cosa, per l’epoca, eccezionale. La collezione romana, acquisita dallo Stato italiano nel 1883, è ora parte delle raccolte della Galleria Nazionale d’Arte Antica.
Ottavio Costa
Ottavio Costa
Originario della Liguria, Ottavio arrivò a Roma in gioventù e intraprese l’attività di banchiere. Divenne presto uno dei più importanti banchieri romani e ottenne varie cariche durante il papato di Gregorio XIV. Si legò con importanti famiglie genovesi, come i Doria e i Malaspina. Nella villa di famiglia ad Albenga Costa formò un’importante collezione di pittura e scultura. Non si hanno notizie sicure sulle opere presenti nella collezione, fatta eccezione per quelle di Caravaggio. Sappiamo da una lettera che egli possedesse pitture di Guido Reni e del Cavalier d’Arpino. Da un suo testamento nel 1606 risulta che Ottavio donò all’abate Ruggero Tritonio un San Francesco del Caravaggio, e al suo socio in affari una Marta e Maddalena dello stesso artista. Al momento della sua morte Costa possedeva tre opere del Caravaggio: una Giuditta, un San Giovanni e un San Francesco.
François Coty
François Coty
La collezione di questo celebre profumiere, dispersa in vendita pubblica il 28 e 29 novembre 1936 alla Galleria Charpentier, rappresenta bene quel tipo di collezione che si orienta su una determinata epoca, con pochi pezzi, ma di bella qualità. In questo caso il XVIII secolo francese e inglese. Si perché a volte i collezionisti più esigenti si concentrano su un determinato periodo storico o su un particolare artista o corrente. Oltre ai dipinti Coty collezionò un gran numero di mobili, oggetti d’arte e arazzi che facevano da “cornice” ai quadri. Anch’essi furono venduti nel 1936.
Samuel Courtauld
Samuel Courtauld
Appartenente a una ricca famiglia di fabbricanti di seta, discendente da ugonotti francesi, Samuel Courtauld dedicò gran parte della sua fortuna all’arte. Viveva “per gli occhi”, come usò dire in svariate occasioni. Stimolato dall’opera di Cézanne, che scoprì in un’esposizione del 1922, costituì una magnifica collezione d’impressionisti e di post-impressionisti francesi. Fu la prima del genere in Inghilterra, e rifletteva in pieno il gusto di Courtauld. La collezione conteneva, in particolare, il Bar alle Folies-Bergère di Manet, il Palco di Renoir, la Montagna Sainte-Victoire e i Giocatoti. Solo per fare qualche illustre esempio. Nel 1931 Courtauld la donò all’Istituto di storia dell’arte, da lui fondato quell’anno a Londra. Si era prefissato di far apprezzare il più possibile la pittura francese nel XIX secolo. Nel 1923 donò pure 50000 sterline alla Tate Gallery di Londra, per l’acquisto di vari capolavori.
C.C.
Questo post si avvale di contributi bibliografici vari che potete consultare qui
Le Artesplorazioni sono una serie di video che vi guideranno tra i movimenti e i temi della storia dell’arte, rispondendo alle 5 domande: cosa, chi, dove, quando e perché. Oggi parliamo di … Die Brücke!
Si tratta di un gruppo di artisti espressionisti tedeschi il cui nome intendeva esprimere la fede dei suoi membri nell’arte del futuro, verso la quale le loro opere costituivano un ponte. Il nome Die brücke, tradotto significa proprio ponte. I loro soggetti consistevano principalmente in paesaggi e composizioni di figure, soprattutto nudi all’aperto. Lo stile pittorico con cui erano trattati era molto carico, si serviva di colori forti e spesso non naturalistici e di forme semplificate, energiche e spigolose. C’è un senso di ansia e inquietudine che traspare nelle opere di questi pittori che spesso erano quasi privi di una formazione pittorica accademica e professionale. Furono influenzati non solo dall’arte tardo-medievale tedesca, ma anche dall’arte dei popoli primitivi. La xilografia diventò una delle tecniche predilette al gruppo, perché particolarmente adatta nella resa dei forti contrasti cromatici e dei tratti deformati tipici dell’arte di questi pittori. Ottennero presto i primi riconoscimenti, ma iniziarono a perdere l’identità di gruppo mano mano che gli stili individuali si facevano più evidenti.
Il video è anche sottotitolato in italiano, inglese, francese e spagnolo. Per i sottotitoli in lingua straniera puoi contribuire anche tu! Segui quindi la playlist “artesplorazioni” per non perderti mai nulla e lascia un commento sotto ai video in cui puoi tu stesso suggerirci opere oppure nuovi temi da trattare in futuro. Il tuo contributo quindi è prezioso.
Pittore fiammingo, Anton van Dyck è celebre per i suoi ritratti eleganti, per le scene religiose e mitologiche ricche di dettagli. È un artista che, attraverso gli abiti, le fogge e le acconciature dei personaggi ritratti, ha saputo creare vivide immagini dell’ambiente aristocratico inglese per il quale si è trovato spesso a lavorare.
Nato ad Anversa, Van Dyck proveniva da una famiglia borghese e perse la madre a otto anni. Lavorò al fianco di Pieter Paul Rubens, seguendone le orme come ritrattista e pittore di scene religiose e mitologiche. Fu un vero talento precoce. Le prime opere infatti le realizzò verso i quattordici anni come pittore indipendente. In seguito lasciò la propria bottega per far parte di quella di Rubens.
L’11 febbraio 1618 viene accolto come maestro nella corporazione di San Luca ad Anversa. Può da quel momento accettare anche incarichi in proprio. Verso questa data diviene assistente e poi capo assistente, ma non allievo, di Rubens. Un piccolo dettaglio che però sottolinea come Van Dyck fosse già apprezzato come artista indipendente. Il maestro dal canto suo ammirava molto il giovane, tanto che in una lettera del 1618 lo descrisse come il suo migliore assistente. Pare che molte opere di Rubens siano state realizzate da Van Dyck e che il maestro vi abbia aggiunto solo il tocco finale e la propria firma. Nella bottega di Rubens Anton ebbe modo di affinare la propria cultura e si abituò a frequentare nobili e aristocratici, suoi futuri datori di lavoro.
Anton van Dyck, ritratto di Alessandro Giustiniani e ritratto di gentildonna di casa Spinola
Un artista tra Italia e Inghilterra
Oltre ad aver imparato molto dai dipinti di Rubens, Van Dyck imitò anche il suo modo di vivere e il suo modo di comportarsi aristocratico. Tuttavia non ebbe mai le capacità intellettuali di Rubens o la forza della sua personalità. Van Dyck era piacevole, intelligente e dotato di una grande autostima. Lo confermano i numerosi autoritratti che rivelano anche una certa vanità. Viaggiò molto spostandosi a Londra, Genova, Roma e Palermo. Presto la sua fama si sparse in tutta Europa, anche grazie alle riproduzioni a stampa dei suoi dipinti che Van Dyck, come imprenditore di sé stesso, supervisionava personalmente. A Genova in particolare l’artista lavorò molto, realizzando una serie di grandi ritratti della nobiltà locale.
Anton van Dyck, Rinaldo e Armida
L’Italia approfondisce il suo gusto istintivo per l’armonia lineare, e le sue doti di colorista. Soprattutto lo influenzano i grandi modelli veneziani. Nel dipinto Rinaldo e Armida vediamo tutto l’amore di Van Dyck nei confronti dell’opera di Tiziano, Paolo Veronese e degli altri artisti manieristi veneziani che conobbe durante il viaggio in Italia. Il dipinto fu donato a Carlo I d’Inghilterra e piacque così tanto che il sovrano lo nominò cavaliere e pittore di corte. È proprio grazie ai ritratti realizzati per Carlo I e la sua corte che oggi Van Dyck viene maggiormente ricordato. Rappresentò i suoi modelli reali e aristocratici con grande vitalità, cogliendone tutta l’austerità e la grandeur. I suoi personaggi, avvolti da ricche vesti, si mettono in posa con perentorietà e compiacimento.
Anton van Dyck, Ritratto di Carlo I a cavallo
Un artista di successo
Oltre ai ritratti in pittura Van Dyck si imbarcò in un progetto ambizioso. Una serie di stampe che ritraessero contemporanei famosi, nota come Iconografia. Alcune incisioni per le stampe le realizzò di suo pugno, mentre altre furono ricavate da suoi disegni. Alla sua morte questa raccolta non era finita, ma una serie di 100 incisioni fu pubblicata nel 1645. Van Dyck rimase in Inghilterra per il resto della sua vita e sposò una dama di corte della regina nel 1640. Mise in piedi una bottega che eseguiva numerose repliche, applicava sistematicamente alcuni effetti, dipingeva i costumi e i drappeggi per far fronte alle commissioni e al successo incontenibile. Nonostante ciò non si stabilizzò mai e andò sempre alla ricerca di nuove opportunità altrove. Forse anche per le continue frustrazioni che subiva da Carlo I il quale era solito pagare l’artista con molto ritardo.
Anton si spense il 9 dicembre del 1641, a soli 42 anni, ma lasciò un segno indelebile nella storia dell’arte. Dyck ispirerà i pittori francesi del XVIII secolo, ma non solo. Le opere di questo artista fiammingo ebbero infatti una profonda e duratura influenza nell’arte britannica. Gainsborough, in particolare, amava profondamente Van Dyck. Reynolds trarrà grande ispirazione dalle opere di Van Dyck. Ma molti altri artisti del XX secolo si ispirarono a lui nel realizzare i ritratti dell’alta società.
Continua l’esplorazione …
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Peter Paul Rubens, Baldassare Castiglione (copia da Raffaello)
Da sempre si realizzano copie nell’arte, ovvero imitazioni o riproduzioni di un’opera d’arte. Ma ci sono differenze tra copie e copie. Vi sorprenderete nell’esplorare questo aspetto dell’arte che è un vero e proprio mondo a parte. Partiamo da ciò che ci è più vicino. Nella cultura occidentale si distinguono diverse categorie di copie. Le ripetizioni, copie di dimensioni uguali a quelle dell’opera originale, eseguite e firmate dall’autore stesso. Le repliche, copie eseguite con misure uguali o differenti dall’originale, dall’autore stesso o sotto la sua supervisione. Le copie, eseguite fuori dall’influenza diretta dell’autore o dopo la sua morte senza però un fine fraudolento. Copiare i grandi maestri in effetti è un principio fondamentale dell’insegnamento artistico. Riduzioni, copie eseguite in dimensioni minori dell’originale. Copie ottenute per fotografia o altri procedimenti di riproduzione che, quando sono fedeli, vengono chiamate facsimili.
I pittori medievali si sono spesso dedicati a copiare modelli precedenti. Negli scriptoria, luoghi in cui si realizzavano i manoscritti miniati, il capo del laboratorio fissava le linee principali della composizione, imponendo modelli già pronti. I pittori abbandonarono in seguito schemi precedenti. Dal XV secolo si misero a imitare la natura che rifletteva un pensiero divino, poiché le bellezze della creazione manifestano il volto stesso del divino. La copia da questo momento fu utilizzata come mezzo per far circolare opere originali apprezzate dal pubblico. Nelle botteghe del XV secolo, gli allievi, qualche volta, erano tenuti a imitare la maniera del maestro. Questo per poter realizzare copie delle sue opere, che egli potesse firmare e riconoscere, come se le avesse eseguite di sua mano. In questo senso alcune botteghe si trasformarono in vere e proprie fabbriche di quadri per soddisfare il gusto esigente della clientela.
Edouard Manet, copia da Eugene Delacroix, la barca di Dante
Copie come omaggio ai grandi artisti
Alla fine del XV secolo cominciò a manifestarsi la coscienza dell’individualità artistica e quindi la non “correttezza etica” della realizzazione di copie. Ma le copie fedeli di opere famose erano sempre molto richieste. Alcuni pittori furono più copiati di altri. Pensate che si contano attualmente oltre sessanta copie antiche della Gioconda, e più di quaranta della Vergine delle Rocce di Leonardo da Vinci. A partire dal XVII secolo la copia divenne un genere praticato dai maggiori maestri, che la consideravano un esercizio di stile, come omaggio reso ad altri maestri o come promemoria. Sono arrivate così a noi opere realizzate da Rubens copiando Raffaello, da Watteau copiando Rubens, da Manet copiando Delacroix e da Degas, che fu bravissimo come copista.
Nel XVIII secolo il mercato della copia superò i confini europei: a Boston, nel New England, i collezionisti possedevano copie di opere italiane, e così pure a Filadelfia.
Nel XIX secolo la copia venne utilizzata per salvaguardare il ricordo di pitture murali del medioevo in via di deterioramento.
Dopo la fine dell’Ottocento, la copia non ha più la stessa voga di una volta nelle scuole di pittura: non è più letterale, ma diventa interpretativa. Le interpretazioni di Millet da parte di Van Gogh, di Delacroix da parte di Renoir, di Cézanne da parte di J. Gris, di Velázquez e Van Gogh da parte di Francis Bacon, di Ingres da parte di certi artisti della Pop Art, sono solo alcuni esempi.
Francis Bacon, Papa Innocenzo X, reinterpretazione da Diego Velazquez
Le copie in oriente
La questione copia cambia molto andando in oriente. In Cina la nozione di copia appare tra le più originali. Fu qui uno dei procedimenti impiegati dai pittori per perfezionare il proprio mestiere, ma mirò ben oltre. Ce lo conferma il sesto principio di Xie He, che riguarda la “trasmissione dello spirito degli antichi maestri mediante la copia”. Una copia non può essere puramente meccanica, e l’artista deve sentire il proprio soggetto come l’avrebbe sentito il maestro che egli studia.
Esistono quindi tre modi di copiare: i primi due, ricalco o copia a vista sono ammissibili per un tirocinio puramente tecnico. Solo il terzo tipo, l’interpretazione libera, è quello giusto. Se un pittore ritiene di essere giunto ad assimilare la visione di un maestro che ha copiato, egli non c’entra affatto nel risultato finale. C’entra invece totalmente il maestro e di conseguenza l’opera realizzata è di tale maestro. Se viene firmata col nome del suo ispiratore non è quindi un falso nel senso occidentale del termine. Un modo molto diverso di concepire il concetto di copia!
Nuovo video della serie curata da Artesplorando, interamente dedicata ai musei e alla loro esplorazione. In questo approfondimento video scopriremo le 10 opere principali del Museu de Arte di San Paolo, selezionate secondo i miei gusti. Sarà come fare un viaggio virtuale nelle sale del museo con la mia voce a guidarvi.
In questo museo Brasiliano è conservata la collezione di pittura europea più importante del sud America, con opere che vanno dal XV al XX secolo. Un museo ricco di opere francesi dell’Ottocento, ma che espone anche opere di artisti sudamericani e non solo. Conosciuto con l’acronimo MASP, è stato fondato nel 1947 dal magnate dei media brasiliano Assis Chateaubriand, che ha invitato il commerciante e critico d’arte italiano Pietro Maria Bardi a ricoprire il ruolo di primo direttore. Oggi, la collezione di MASP contiene oltre 10 mila opere, tra cui dipinti, sculture, oggetti, fotografie e costumi di vari periodi, comprendenti arte proveniente dall’Africa, dall’Asia, dall’Europa e dalle Americhe.
Henri de Toulouse-Lautrec, Monsieur Henri Fourcade all’Opera, 1889 Henri de Toulouse-Lautrec, Ammiraglio Viaud, 1901 Giovanni Bellini, Madonna col Bambino, 1487 Paul Cezanne, rocce all’Estaque, 1882-85 Paul Gauguin, autoritratto, 1896 Vincent van Gogh, paesaggio con coppia sotto una falce di luna, 1890 Vincent van Gogh, lo scolaro (Camille Roulin), 1888 Francisco Goya, Juan Antonio Llorente, 1810-11 Frans Hals, Andries van der Horn, 1638 Pierre-Auguste Renoir, rosa e blu (Alice ed Elisabeth Cahen d’Anvers), 1881
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Letture consigliate
50 dipinti dal Museu de Arte di San Paolo del Brasile. Catalogo della mostra https://amzn.to/2TXwdMw