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Arte contemporanea, istruzioni per l'uso

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Riprendo la rubrica "Lo potevo fare anch'io" per fare un po' il punto sull'arte contemporanea che attraverso questi approfondimenti abbiamo avuto modo di esplorare e conoscere.
Mano a mano che ci si avvicina ai giorni nostri la prospettiva storica si accorcia e, di conseguenza, la possibilità di dare giudizi critici equilibrati si fa più difficile e complessa.
La storia dell'arte ci ha insegnato che in ogni epoca i contemporanei sono stati quasi sempre i peggiori giudici per i propri artisti. Questo perché il gusto di un determinato periodo matura con ritmi più lenti rispetto a quelli con i quali le avanguardie artistiche conducono le proprie sperimentazioni.

Facciamo un po' di esempi per capirci meglio.
Brunelleschi, in occasione del concorso del 1418 per la cupola di Santa Maria del Fiore, fu violentemente contestato dai suoi contemporanei che gli diedero del pazzo, in quanto aveva promesso di poter voltare la cupola senza l'impiego di armature.
L'arte di Paolo Uccello rimase incompresa sia dagli artisti del suo tempo, sia dal Vasari, che arrivò ad accusare Paolo di essere privo di "bella maniera".


Anche in epoche successive, da Caravaggio a Tiepolo, dai Macchiaioli agli Impressionisti, nessuno ebbe grande fortuna presso i propri contemporanei. E proprio l'indifferenza e l'incomprensione del pubblico e della critica furono tra le cause principali del suicidio di Van Gogh, mentre Fauves e Cubisti vennero rispettivamente accusati di ridurre la realtà a pennellate scomposte di colore o a inutili frammenti di forme geometriche.
Pensiamo anche a Duchamp e alla sua provocatoria fontana: scambiata per un orinatoio, fu gettata via dai facchini della Biennale di Venezia che non la riconobbero come opera d'arte. Negli anni Trenta, infine, il regime nazista arrivo persino a distruggere centinaia di opere d'arte contemporanea, da Munch a Schiele, da Kokoschka e Kandinskji e a Picasso, giudicandole degenerate e quindi indegne di esprimere il gusto dell'epoca.

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E oggi? La nostra società sta vivendo un periodo di profonda crisi. Dopo il crollo del Muro di Berlino e la fine della contrapposizione tra i due blocchi ha aperto scenari nuovi e inquietanti. Oggi l'artista più che mai si sente assolutamente libero dall'appartenere a scuole o correnti e dal professare ideologie. I campi della possibile esplorazione artistica si sono dilatati arrivando a esplorare zone spesso tra loro lontanissime e a volte contrapposte. Ed è così che se da un lato oggi continuano le tendenze sulla strada dell'Informale, tra critica e ironia, dall'altro si aprono nuove e interessanti linee di ricerca che tornano verso il figurativo.

Come un ciclo che si ripete quindi la storia dell'arte va avanti. Ma quello che vi chiedo, da spettatori e fruitori d'arte, è di essere sempre curiosi e pazienti nei confronti dell'arte contemporanea. Non fatevi influenzare da giudizi passati dai media, ma costruite sempre una vostra opinione indipendente. Perché è la storia stessa che ci insegna quanto sia difficile giudicare l'arte contemporanea e quanto sia facile dire "lo potevo fare anch'io".

Questo post si avvale di contributi bibliografici vari che potete consultare qui

Capolavori della miniatura - il Leggendario Sforza-Savoia

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La bocca dell'inferno, c. 152r
Oggi riprendo la rubrica "Decorestauro" iniziando una breve carrellata dei più grandi codici miniati mai realizzati. Trattai già in passato la tecnica di decorazione chiamata miniatura (QUI) esplorandone sinteticamente la storia.
Partiamo così parlando del Leggendario Sforza-Savoia, il codice miniato più prezioso della Biblioteca Reale di Torino. L'opera si inserisce nella tradizione dei testi devozionali illustrati per coinvolgere emotivamente il lettore attraverso le immagini. Un aspetto che in questo testo in particolare ha una potenza espressiva senza precedenti, grazie anche al numero eccezionale di scene dipinte e alla loro qualità altissima.

Il manoscritto fu realizzato nel 1476 per il duca di Milano Galeazzo Maria Sforza e per la moglie Bona di Savoia. Il nome "Leggendario" deriva dal contenuto dell'opera: il volume infatti racconta storie tratte dai Vangeli Apocrifi e dal Nuovo Testamento. In particolare, il testo racconta le vicende di Gioacchino e Anna, di Maria, di Gesù e del Battista, con una parte conclusiva dedicata all'Apocalisse.

Piero Pollaiuolo, ritratto di Galeazzo Maria Sforza
A rendere il Leggendario un'opera così eccezionale è il ricchissimo apparato illustrativo: più di trecento grandi scene miniate accompagnano il testo, dando vita a un vero e proprio racconto per immagini. Le miniature sono del milanese Cristoforo de Predis, artista al servizio di molte famiglie importanti come gli Este e i Borromeo. Nella sua pittura, basata su una tavolozza di colori splendenti, convivono la passione per i preziosismi decorativi e il gusto per una narrazione piacevole, mite e incantata.

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Cristoforo scelse di ambientare gli episodi evangelici ai suoi giorni, nell'Italia del Quattrocento, per dare un maggiore coinvolgimento emotivo e psicologico al lettore. In ogni miniatura si vedono così frammenti di vita quotidiana del tempo, dagli arredi negli interni ai costumi dei personaggi. Nelle architetture che fanno da sfondo alle scene urbane il lettore poteva riconoscere edifici familiari, come la facciata dell'antico Duomo di Milano.
Il primo a sfogliare l'opera fu il committente: Galeazzo Maria Sforza, duca di Milano dal 1466 al 1476. Descritto dai suoi contemporanei come un grande esteta, Galeazzo era un vero principe mecenate del Rinascimento: durante il suo ducato la corte milanese era lodata come "una de le più resplendente de l'universo". Nelle pagine del Leggendario le insegne del duca si alternano alle armi di casa Savoia, in onore alla consorte Bona: il codice può quindi considerarsi una specie di unione allegorica tra le due famiglie, e allo stesso tempo un segno della ritrovata alleanza con il re di Francia.

Le case crolleranno
Ma com'è arrivato a Torino il Leggendario Sforza-Savoia? Secondo una fonte antica, quando Galeazzo Maria Sforza dovette allontanarsi dalla città per motivi guerreschi, affidò il libro a una monaca di un convento milanese: alla morte improvvisa del duca, nessuno cercò il codice, che passò alla famiglia del conte Toesca. Nel 1841 il codice fu poi donato al re Carlo Alberto di Savoia, e da allora fa parte della Biblioteca Reale di Torino, custodito nello stesso caveau blindato che conserva i disegni di Leonardo da Vinci.

Fonti: www.leggendariosforzasavoia.it

Ritratto di gentiluomo, Lorenzo Lotto

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Lorenzo Lotto, ritratto di gentiluomo
Questo ritratto è opera di Lorenzo Lotto, nato a Venezia nel 1480 e considerato tra i principali esponenti del rinascimento veneziano. Il suo carattere originale e anticonformista però lo condusse fuori dalle committenze rinascimentali di Venezia, facendone una figura un po’ emarginata. La sua vita, contrassegnata da insuccessi e delusioni ne fa un artista sofferto, introverso e umorale, di grande modernità.

Il suo ritratto di gentiluomo proviene dalla collezione del cardinale Ippolito Aldobrandini che ne era già in possesso nel 1610. Protagonista del quadro è un uomo con una lunga barba, vestito di nero, dallo sguardo malinconico. La sua figura è tagliata sopra il ginocchio, con impostazione frontale, appena ruotata verso sinistra, e la testa è inclinata a destra. La stanza in cui si colloca il personaggio è spoglia e rischiarata da due finestre.

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Non sappiamo con certezza chi sia e di conseguenza non conosciamo nemmeno il committente, ma l’ipotesi più realistica propone Mercurio Bua, principe albanese e uomo d’armi al servizio della Repubblica veneta. Nella chiesa di Santa Maria Maggiore a Treviso, città del nord-est Italia, l’uomo aveva dedicato una cappella a San Giorgio, dove fu sepolto dopo il 1541. Non a caso nel paesaggio che si intravede dalla finestra alle spalle di Mercurio c’è rappresentato San Giorgio che uccide il drago e, sullo sfondo, una città fortificata, forse Treviso stessa. Il principe inoltre rimase vedovo nel 1524 e a questo potrebbero alludere i due anelli al dito mignolo della mano sinistra.


Il gentiluomo posa in piedi e, come in altri ritratti del periodo veneziano di Lotto, a fianco di un tavolo. Su di esso vi invito a notare il cranio circondato da petali di rosa e gelsomino, chiaro riferimento alla morte. Questo particolare ad alto valore simbolico si collega alla posa del personaggio che spinge con la mano sinistra sul fianco, manifestando un senso di malinconia e sofferenza. Infatti la mano è all’altezza della milza, organo in cui si pensava risiedesse la melanconia. Tutto forse fa riferimento quindi alla tristezza dell’uomo per la perdita della moglie.
Lorenzo Lotto fu un gradissimo ritrattista perché colse sempre l’aspetto psicologico dei personaggi rappresentati. L’artista non dipinse re, imperatori o papi, ma gente della piccola nobiltà o della buona borghesia che sembra dialogare direttamente con noi.

Questo post si avvale di contributi bibliografici vari che potete consultare qui

La Kore di Nikandre, esempio di monumentale nobiltà

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La Kore di Nikandre
Oggi vi parlo di un'opera in particolare. Si tratta di una scultura in marmo che rappresenta una figura snella vestita da un peplo stretto da una cintura: è la famosa Kore di Nikandre della metà del VII secolo a.C. oggi conservata al Museo Nazionale di Atene.
La donna tiene le mani accostate ai fianchi, due bande di trecce le incorniciano il viso che purtroppo non è più riconoscibile; nelle mani doveva avere i doni per la dea Artemide. Molto probabilmente la sculture era dipinta con diversi colori e i doni che Nikandre aveva nelle mani erano di bronzo.



La statua fu rinvenuta sull'isola di Delos insieme ad altre sculture dedicate dai massi: cinque kouroi, un Apollo, una serie di nove leoni colossali, tutte opere in marmo di Naxos a grandi cristalli, a testimoniare l'esistenza in quell'isola di una scuola di scultura. L'opera è così importante perché rappresenta il più antico documento di scultura monumentale che ci si pervenuto e inoltre è un importante testimonianza dello stile dedalico. Questo stile è caratterizzato dall'impostazione frontale e solenne, dalle grandi dimensioni (la statua è alta 2 metri), e dalla struttura geometrica e monolitica.

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In effetti la statua ci fa comprendere molto bene la forma del blocco di pietra in cui è stata scolpita, presenta una rigorosa simmetria, e ogni singola parte sembra seguire una forma geometrica. Un altro aspetto che la rende tanto straordinaria è l'abilità nella lavorazione e il tono orgoglioso dell'iscrizione scolpita. La Kore era stata infatti dedicata da Nikandre, in occasione del suo matrimonio con Phraxos, ad Artemide, come si legge nella lunga iscrizione sul lato della statua: "Mi dedicò alla dea che colpisce da lontano e gode delle frecce Nikandre, figlia di Deinodikes di Nasso, eccellente fra le altre donne, sorella di Deinomenes, moglie ora di Phraxos". Le grandi dimensioni della statua fanno pensare di un'immagine della dea piuttosto che quella della dedicante. Il tono del testo fa pensare che Nikandre appartenesse all'aristocrazia locale. Uno splendido esempio quindi di monumentale nobiltà!

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Jacopo de' Barbari e il primo trompe-l'oeil

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Jacopo de' Barbari, pernice appesa
Forse pochi di voi lo sapranno, ma l'opera che vedete qui è il primo dipinto moderno definibile a tutti gli effetti un trompe-l'oeil autonomo. Il trompe-l'oeil è un genere pittorico che, attraverso espedienti, crea nell'osservatore l'illusione di guardare oggetti reali e tridimensionali, mentre in realtà si tratta di dipinti su una superficie piana. Si tratta di una piccola tavola di appena 52 per 42 centimetri in cui è rappresentata una pernice appesa, una freccia e due guanti di un'armatura appesi a un muro, firmata e datata 1504 su un cartiglio, anch'esso appuntato sulla parete.

Sono molto poche le opere attribuite all'autore: si tratta del veneziano Jacopo de' Barbari, che oggi deve la sua relativa celebrità a una straordinaria xilografia (se non sapete di che si tratta andate QUI), realizzata nel 1500, con una dettagliatissima pianta di Venezia in prospettiva a volo d'uccello. Dopo di allora, l'artista visse in Germania, dove prima fu a Norimberga, alla corte dell'imperatore Massimiliano, e poi al servizio di altri principi tedeschi, per morire in Olanda entro il 1515. Un pittore quindi di formazione italiana, ma i cui interessi e la cui carriera si svilupparono sopratutto nel nord dell'Europa, come è chiaro anche dalla Pernice appesa del 1504.

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E' probabile che la tavola non fosse concepita come opera indipendente, ma che facesse parte della decorazione di un interno, o che avesse una funzione di coperta di un ritratto, o che si trattasse del verso di un dipinto con un soggetto di storia. In tutti questi casi è probabile che a questo dipinto fossero associati dei significati simbolici. Una cosa è certa, la tavola di Jacopo de' Barbari è dipinta con una precisione e una cura dei dettagli straordinarie, con un'attenzione naturalistica che in quegli anni si trovava solo negli studi e nei disegni di Durer. La pernice appesa esprime un gusto per l'illusione che, da un lato, va visto in connessione con i virtuosismi prospettici delle tarsie lignee italiane e, dall'altro, sembra portarci direttamente ai trompe-l'oeil di pieno Seicento.
Se vi trovate a Monaco quindi andate ad ammirare questo piccolo capolavoro, conservato all'Alte Pinakothek.

Fonti: La natura morta, Luca Bortolotti, Giunti editore, Prato, 2003


Il Ratto di Proserpina di Gian Lorenzo Bernini

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Gian Lorenzo Bernini, Ratto di Proserpina 
Il Ratto di Proserpina è un gruppo scultoreo commissionato a Gian Lorenzo Bernini da Scipione Borghese e realizzato quando l'artista aveva solo 23 anni.
L’opera ci racconta una storia presa dalle Metamorfosi, antico poema del poeta romano Ovidio: la bella Proserpina, figlia di Giove e Cerere, dea della fertilità, fu notata da Plutone, signore degli inferi che la volle a tutti i costi come sposa. Così, un giorno, la rapì e quando lo venne a sapere Cerere, questa provocò una grave carestia sulla terra. Intervenne Giove, che ottenne il permesso di far tornare per metà dell'anno la figlia sulla terra, per poi passare l'altra metà nel regno di Plutone. È così che ogni anno, in primavera, la terra si copre di fiori per poi addormentarsi di nuovo in autunno.


Bernini fissa l’istante del rapimento: Proserpina stava raccogliendo dei fiori, fuori dalle mura di Enna, in Sicilia, quando venne colta di sorpresa. Plutone è raffigurato con la corona e lo scettro, mentre, dietro di lui, il cane Cerbero ruotando le sue tre teste in tutte le direzioni, si accerta che nessuno intralci il cammino del suo padrone. Proserpina cerca di liberarsi dalla stretta di Plutone, allontanando con la sua mano il volto del dio, ma lui la trattiene con forza, stringendo le sue dita nel fianco e nella coscia della donna.

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Per l’artista, la realizzazione di questo gruppo scultoreo fu l’occasione di creare un’opera fortemente dinamica, in cui la potenza avvolgente di Plutone contrasta con quella respingente di Proserpina. Il risultato è un movimento a spirale, determinato dalle due figure che si avvolgono l’uno nell’altra, in questo modo Bernini è riuscito a fissare nel marmo la forza stessa che produce la torsione.


Il gruppo, per la sua teatralità e per il forte senso del movimento è un’opera pienamente barocca. Il gruppo scultoreo va osservato da tutti i lati per cogliere i molti punti di vista che Bernini ci mette a disposizione, sviluppando l’opera nello spazio a 360 gradi. Seguite le linee di forza create dai due corpi e cogliete i mille particolari attraverso cui l’artista ha reso la consistenza della materia, come la morbidezza della carne di Proserpina o la fuggente lacrima sul volto della ninfa, dimostrando uno stupefacente virtuosismo.

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Suzanne Valadon, la musa che divenne pittrice

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Questa è l'appassionante storia della straordinaria vita di Suzanne Valadon, modella e musa di molti artisti tra cui Auguste Renoir. Il pittore fu catturato dalla bellezza della donna a tal punto da intrecciare una passionale relazione con la giovane, tradendo la propria compagna Aline Victorine Charigot.
Suzanne appare nel dipinto Ballo in città di Renoir, in un abito bianco, elegante e sfarzoso, i capelli raccolti in un morbido chignon, la pelle candida e setosa. E' l'immagine della donna irrequieta e spregiudicata, spirito ribelle e anticonformista, musa che seppe catturare l'attenzione di molti artisti nella Parigi di fine secolo, ma che presto aspirò a molto di più.

Ma chi era veramente Suzanne Valadon? Figlia naturale di una lavandaia, Suzanne (vero nome Marie Clementine) divenne un acrobata di circo a 15 anni e praticò questa professione fino a quando una caduta mise fine alla sua carriera. La donna fu sempre molto riservata rispetto al suo passato e alle sue umili origini. Nel quartiere di Montmartre, dove viveva con la madre e poi con il figlio nato nel 1883 (il futuro pittore Maurice Utrillo), ebbe modo di frequentare molti artisti, respirando lo spirito "bohemienne" del quartiere.

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Il primo che si accorse della sua straordinaria bellezza fu Puvis de Chavannes che la volle subito come modella. Tra i due, nonostante gli anni che li separavano (lui aveva 58 anni e lei 16), nacque una relazione che durò ben sette anni. Divenne presto una musa (e spesso amante) molto ricercata e contesa tra i più famosi artisti dell'epoca quali Renoir, Toulouse Lautrec, de Nittis e persino il musicista Erik Satie.

Ma ad un certo punto la sua vita prese una strada nuova. Si perché la musa aveva un sogno: fin da piccola praticò il disegno, esprimendo anche un certo talento che più tardi si concretizzò nel desiderio di voler diventare una pittrice. E a far scattare definitivamente la molla furono tutti gli artisti con cui venne in contatto a Montmartre, straordinario punto d'incontro di talenti. E fu così che durante le lunghe ore di posa, cominciò a osservare silenziosamente il lavoro dei pittori che la ritraevano: la donna prese nota di ogni movimento, di ogni pennellata, dei colori e del disegno.

Auguste Renoir, ballo in città
Tre furono in particolare le persone che la guidarono in questo percorso: Toulouse Lautrec primo a incoraggiarla, Suzanne fu per due anni sua modella e amante imparando moltissimo; Renoir presto si rese conto del talento della giovane donna; ma colui che sostenne pienamente Suzanne nel suo sogno fu Degas. Il pittore era famoso per il suo carattere burbero e per essere un gran misogino, ma la bella musa riusciva a renderlo mite e paziente. Con Suzanne l'artista si comportava come un padre o un mentore, premiando i progressi e indicandole gli errori. In lei Degas scorgeva una costanza e una ricerca della perfezione quasi maniacale che solo i grandi artisti hanno, perché il solo talento non basta.

Ma si sa, l'arte è sempre stata un affare da uomini e una donna pittrice non era facilmente tollerata nella società del passato. E Suzanne, come molte altre artiste prima di lei, dovette sopportare il rifiuto del mercato dell'arte e la presa in giro di molti colleghi pittori. I tempi non erano ancora maturi e in quegli anni raramente le donne venivano accettate nella cerchia dei pittori e quando lo erano si trattava di donne borghesi, come la nota Berthe Morisot, cognata di Monet.
Tuttavia i primi riconoscimenti arrivarono per Suzanne che nel 1894 divenne la prima donna ammessa alla Société Nationale des Beaux-Arts.


Poi giunse il matrimonio con un ricco agente di cambio ed ecco che la musa-artista si ritrovò, a 31 anni, a condurre una vita agiata e tranquilla in cui poté dedicarsi alla pittura senza dover pensare a mantenere sé stessa e il figlio. Fu il periodo in cui Suzanne provò di adeguarsi alla vita borghese, con i suoi limiti e le sue regole. Ma questa gabbia dorata le divenne presto stretta, perché lei era una ragazza dall’indole indipendente, difficile da frenare. La svolta arrivò e Suzanne, spregiudicata e anticonformista, la colse subito: lasciò quindi a 44 anni il marito per il giovane André Utter, che ne aveva 23, amico e coetaneo del figlio Maurice.
I ruoli si ribaltarono, ora non era più lei la giovane musa e amante di artisti molto più vecchi. Suzanne era l'artista e il giovane Utter la sua musa: fu un periodo audace e produttivo, vissuto al massimo, tra alcool ed eccessi che definirono Suzanne, Maurice e André, "il trio infernale". A loro si unì inoltre un altro grande artista "maledetto": Amedeo Modigliani.

Il "trio infernale": Suzanne, Utter e il figlio Maurice, seduto
L'apice del successo per Suzanne arrivò nel 1932, quando espose alla Galleria Georges Petit. Due anni dopo si spense a 73 anni: naturalmente i suoi funerali furono un evento a cui tutta Montmartre partecipò. Suzanne, seppe incarnare tutta la spregiudicatezza, la trasgressione e la creatività che si respirò nella Montmartre degli anni migliori. Era musa ispiratrice, di grandissimi artisti, ma divenne una di loro, spiando, copiando e imparando a esprimersi con il proprio stile e il proprio linguaggio.
Suzanne, nonostante i tempi avversi per una donna artista, ce la fece, superando critiche, difficoltà, sopravvivendo alla solitudine di ragazza madre e alla follia dell’alcool.

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Pietro Aretino, modello dell'intellettuale rinascimentale

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Tiziano, ritratto di Pietro Aretino
Personaggio multiforme, avventuriero la cui parola era temuta e stimata dai sovrani di tutta Europa, esponente tipico dell’Italia del Cinquecento, Pietro Aretino, benché non diede mai forma organizzata alle sue idee sull’arte, svolse un ruolo di primo piano nell’orientamento del gusto e nella formulazione delle teorie del suo tempo. Tra il 1537 e il 1557 scrisse le celebri Lettere, vere e proprie pagine di giornalismo che anticiparono i tempi. Nacque ad Arezzo nel 1492, figlio di un calzolaio di nome Luca Del Buta e di una cortigiana, Margherita dei Bonci detta Tita, modella scolpita e dipinta da parecchi artisti.  Da giovane visse a Perugia, studiò pittura e frequentò la locale università dove fu educato secondo i principi artistici della Toscana e di Roma. Trasferitosi nel 1517 a Roma, diventò amico di Raffaello e Giulio Romano.

Pietro Aretino esercitò poi la sua attività di conoscitore e consigliere di pittori e mecenati a Venezia, dove si stabilì nel 1527, diventando il portavoce del manierismo, che si andava affermando nell’Italia centrale. Contrario a ogni giudizio basato su una concezione tradizionalista, gerarchica o teorica, tanto nel campo artistico quanto in quello letterario, occupò rapidamente una posizione d’avanguardia nella comprensione degli eventi pittorici della città, che i veneziani stessi, ancora molto attaccati agli ideali della fine del Quattrocento, sembravano ignorare. Gli si deve così la scoperta del genio di Tiziano, di cui si fece manager abile ed entusiasta, imponendolo non soltanto a Venezia, ma anche nelle corti straniere.

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Si è parlato molto dell'aspetto intuitivo della sua intelligenza; e fu in effetti la sua capacità di gustare l’opera d’arte in modo immediato e quasi sensuale a permettergli di apprezzare, più di qualsiasi altro teorico contemporaneo, le qualità più intime della pittura tonale; e nello stesso tempo di comprendere la potenza plastica di Michelangelo e il linguaggio sintetico di Tintoretto; di emozionarsi davanti alla tenera religiosità di Lotto, e di prevedere il successo di Savoldo. Si sente, sullo sfondo delle sue descrizioni, di affascinante freschezza e spontaneità, la presenza d’una cultura vasta e bene assimilata, che ne corregge costantemente le tendenze empiriche.


Così, la rappresentazione della natura, che il critico pose come criterio di valutazione dell’opera d’arte, derivò nello stesso tempo da un sentimento personalissimo riguardante l’individualità dell’artista e dalle dottrine neoplatoniche. Così pure il suo gusto istintivo del colore non gli fece dimenticare le grandi capacità che il disegno esige. Si può vedere quindi nell’opera di Pietro Aretino il punto d’incontro tra la civiltà fiorentina e quella veneziana, che egli non contrappose mai, con una modernità che soltanto la critica più aperta, ai giorni nostri, può riconoscergli. Letterato tanto amato quanto discusso, se non odiato, morì a Venezia il 21 ottobre del 1556. Dopo la sua morte le sue idee furono raccolte e in parte deformate da Lodovico Dolce nel Dialogo sulla pittura, o l’Aretino, dove in forma teorica, il conflitto disegno-colore tra Firenze e Venezia che Aretino aveva osteggiato in vita, prese il sopravvento.

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Ritratto di giovane donna con unicorno, Raffaello

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Raffaello Sanzio, ritratto di giovane donna con unicorno.
Questo curioso ritratto fa parte della collezione Borghese dal 1760 ed è attribuito al grande Raffaello Sanzio, pittore e architetto nato a Urbino nel 1483 e tra i più importanti artisti del Rinascimento italiano.
L’opera rappresenta una donna a mezza figura seduta all’interno di una specie di terrazza con colonne che attraverso un parapetto si apre sullo sfondo a un paesaggio con lago. La ragazza ha il busto ruotato di tre quarti verso sinistra e guarda dritto verso di noi con i suoi profondi occhi azzurri, ha lunghi capelli biondi, raccolti in un’acconciatura, che le incorniciano il viso perfettamente ovale.

È vestita come una giovane nobildonna, con un abito scollato dalle grandi maniche estraibili allacciate, un piccolo diadema sulla fronte e una catena d'oro annodata intorno al collo, terminante con un vistoso pendente composto da uno splendido rubino e da una perla a goccia. La cosa strana è che ha un piccolo unicorno in grembo.
Il dipinto è apparso per molti anni completamente diverso da come lo vediamo oggi. Possiamo infatti apprezzare l’aspetto originale di questa tela grazie al restauro del 1935, che ha eliminato le ridipinture successive aggiunte al dipinto.

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Esse ne avevano cambiato l’aspetto, trasformando il ritratto di giovane donna in una Santa Caterina, e nascondendo lo sfondo paesaggistico che si apre alle sue spalle. L’unicorno, tenuto in braccio dalla protagonista del dipinto, simbolo di castità, era stato infatti nascosto sotto gli attributi del martirio della santa, la ruota e la palma, mentre un mantello copriva le spalle della giovane donna. Questi rifacimenti vennero eseguiti probabilmente nel Seicento, quando l’opera cominciò ad apparire già molto rovinata. Nel passato erano abbastanza frequenti i cambiamenti successivi apportati alle opere d’arte, questi potevano avere motivi legati al loro degrado o al cambio di gusto o ancora per censura.


Radiografie fatte sul dipinto hanno mostrato inoltre che in origine al posto dell'unicorno la donna teneva in braccio un cane, simbolo di fedeltà coniugale.
Qual era lo scopo del dipinto? Molto probabilmente venne commissionato come dono di nozze a cui si riferiscono i numerosi simboli riferiti alle virtù coniugali e al candore virginale della sposa, quali la perla, la collana annodata e l’unicorno. Ma il mistero riguardante l’identità della dama ritratta è ancora lontano dall'essere svelato.

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Winsor McCay e il nuovo linguaggio dei comics

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Winsor McCay, Little Sammy Sneezer
Riprendiamo la rubrica Icona Fumetto continuando nel nostro viaggio tra arte e comics.
Una volta definiti tutti i crismi del nuovo linguaggio, i comics guardarono alla fotografia e al fratello cinema per adattare il proprio modo di raccontare alle esigenze del pubblico americano. La maniera più semplice per raccontare una storia è mantenere lo stesso punto di vista, la stessa inquadratura, dall'inizio alla fine. E quando il cinema si rese conto di poter usare, tramite i tagli di montaggio, una narrazione più ritmata, lo stesso fece il fumetto.
Fu così che, nella ricerca, piano piano si fondò il nuovo linguaggio, passando per l'inevitabile sperimentazione.

Nato nel 1869, Winsor McCay dimostrò da subito un'abilità speciale nel raccontare per immagini, anche se ancora non sa di essere uno dei padri fondatori del nuovo linguaggio dei comics. Dopo aver fatto il cartellonista e l'illustratore, cominciò a lavorare come autore di tavole a fumetti. La sua prima serie è del 1903 e s'intitola Jungle Imps. Chiamato a New York dall'Herald, cominciò a sfornare personaggi a ripetizione fino a giungere, nel 1904, a Little Sammy Sneeze, che lo impose all'attenzione generale. Sono le storielle di un bambino dallo starnuto facile e catastrofico che si distinsero per una fantasia narrativa sfrenata e un disegno ricchissimo di particolari.

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Usando lo pseudonimo "Silas", dal 1905 Winsor McCay cominciò a pubblicare sull'Evening Telegram una serie di tavole domenicali considerate ancora oggi un'opera di assoluto culto: Dreams of the Rarebit Fiend. Sono i resoconti tragicomici di vari incubi dovuti a una cena troppo pesante, ma in realtà si tratta di una rassegna visionaria dell'enorme potenziale allucinatorio, realizzato proprio nel momento in cui nasceva ufficialmente la psicoanalisi. Sono appena una sessantina di tavole, ma fanno storia. E la forza rivoluzionaria della serie lanciò il genio del suo autore. Nel 1906 il regista Edwin S. Porter trasse da queste tavole un film, considerato pioniere degli effetti speciali cinematografici e nel 1916 lo stesso McCay ne realizzò una versione a disegni animati.

Winsor McCay, dreams of the Rarebit Fiend
L'assoluto capolavoro di Winsor McCay è Little Nemo in Slumberland, labirintica saga nel mondo dei sogni uscita a partire dal 1905 come una sintesi delle virtù dei singoli fumetti realizzati in precedenza dall'autore. In essa ogni sera il piccolo Nemo sogna una realtà parallela, ricchissima di suggestioni visive e fantastiche, per la quale vaga in compagnia di personaggi più o meno amichevoli e della quale al suo risveglio ricorda nitidamente ogni cosa. Verrà pubblicato, su testate alterne, fino al 1927.

Winsor McCay, Little Nemo in Slumberland
Una delle serie più strane nella secolare storia dei fumetti è senza alcun dubbio The Upside-Downs, realizzata da Gustave Verbeck a partire dal 1903. Il fumetto presenta sei riquadri per ogni episodio: disegnati in uno strano modo che sembra sempre nascondere qualcosa, di solito iniziano raccontando il sopraggiungere di qualche guaio, in cui finisce l'agitata signorina. Arrivati alla sesta vignetta, veniamo invitati a ruotare la pagina e a continuare la lettura alla rovescia. E scopriamo che in effetti la storia continua con altri sei momenti, leggibili ora al contrario, in cui il cappello di lui diventa la gonna di lei, i capelli scomposti di lei i baffoni ispidi di lui, e così via. Questa proposta, tanto insolita quanto stupefacente, è rimasta unica ed irripetibile nella memoria storica del fumetto.

Gustave Verbeck, The Upside-Downs
Un'altra storia originale di Gustave Verbeck, autore di origine fiamminga che evidentemente non sa rinunciare alle inquietudini peculiari del vecchio continente, si intitola The Terrors of the Tiny Tads. Ne sono protagonisti alcuni piccoli sparuti ragazzini, che si trovano sempre intrappolati in un grande paese d'incubo abitato e percorso da creature sempre piuttosto mostruose. Queste infatti, impersonando alla lettera giochi di parole modellati nella lingua inglese, si presentano come ibridi spesso raccapriccianti.

Lyonel Feininger, The Kin-der Kids
Tra il 1906 e il 1907, il "Chicago Sunday Tribune" propone la pubblicazione di un autore molto fuori dal comune. E'Lyonel Feininger che si cimenta nella realizzazione di comics esattamente come attività artistica d'avanguardia. Ma è un autore molto, forse troppo, intelligente. Le sue due serie The Kin-der Kids e Wee Willie Winkie's World, incentrate la prima su un gruppo di monelli e la seconda su un piccolo sognatore che vive la realtà in continua metamorfosi fantastica attorno a sé, contengono una tale quantità di invenzioni formali da spaventare il lettore medio. La loro durata sul mercato sarà infatti piuttosto breve. Nei decenni che seguirono Feininger si dedicherà alla pittura con il gruppo del Blaue Reiter, insegnerà alla Bauhaus di Gropius, collaborerà con Klee e Kandinskij e sarà perseguitato dai nazisti come artista "degenerato".

Continua l'esplorazione ...

Se vuoi scoprire tutta la storia del fumetto segui l'etichetta #iconafumetto

Fonti: Gulp!100 anni a fumetti, a cura di Ferruccio Giromini, Marilù Martelli, Elisa Pavesi, Lorenzo Vitalone, Electa, Milano, 1996

Armory Show, la mostra che rivoluzionò l'arte americana

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Oggi le mostre sono spesso eventi super pubblicizzati e di massa in cui il visitatore è spinto ad ammirare l'icona del momento. Quando poi si parla di arte contemporanea a volte l'impressione è quella di visitare un luna park o un parco giochi, anche per quello che riguarda le cosiddette mostre-mercato, nelle quali è possibile acquistare le opere.
In passato non era proprio così. Le mostre o esposizioni erano di frequente utilizzate per presentare al pubblico artisti o movimenti d'avanguardia, erano un modo per balzare agli onori di cronaca, un trampolino verso l'affermazione e il successo. E questo fu il caso di uno degli eventi più decisivi per lo sviluppo dell'arte americana del XX secolo: l'Armory Show.



L'Armory Show fu un'esposizione internazionale di arte moderna organizzata a New York il 17 febbraio 1913, nei locali dell’armeria del 69° reggimento, nella 25ª Strada. La manifestazione venne poi riproposta con qualche modifica anche a Chicago e a Boston, e introdusse negli Stati Uniti la pittura moderna europea. Quando si chiuse a Boston, quasi trecentomila visitatori l’avevano visitata, un vero record per l'epoca. Organizzata da un piccolo gruppo di artisti americani anti-accademici, la mostra comprendeva opere di artisti del XIX secolo e di numerosi americani. L'Armory Show suscitò scandalo e controversie da parte dei contemporanei. Le opere dei post-impressionisti in particolare quelle di Cézanne, Van Gogh e Gauguin ebbero ottime accoglienze, e oscurarono totalmente i timidi imitatori americani come Hassam, Twachtman e persino Glacksens.

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Le tele cubiste di Picasso, Braque, Gleizes, Metzinger, Delaunay e Villon, quelle di Matisse, e soprattutto quelle di Duchamp e Picabia attrassero l’attenzione del pubblico. Picabia si recò a New York e lì fu accolto come ambasciatore dell’avanguardia francese. Le numerose interviste fattegli dai giornali americani gli diedero occasione di sviluppare la sua nuova concezione dell’astrattismo.
Lo scopo degli organizzatori e cioè Kuhn, Davies, Pach, Myers e Bellows, era quello di sottoporre al pubblico americano le loro personali innovazioni, suscitandone l’interesse, ma il risultato andò di gran lunga al di là delle loro aspettative. L’Armory Show richiamò infatti l’attenzione dei collezionisti d’arte moderna, in particolare di Walter Arensberg, la cui collezione si trova oggi a Filadelfia, di Lillie P. Bliss, nucleo del futuro moma di New York, del dottor Barnes, di Duncan Phillips e di John Quinn.


Con entusiasmo questi collezionisti e i loro amici comperarono dipinti fauves e cubisti, andando ben
oltre il risultato previsto dagli organizzatori americani, che intendevano soltanto sottolineare le proprie fonti europee. Questi acquisti massicci ebbero come conseguenza lo stabilirsi negli Stati Uniti, durante la prima guerra mondiale, di pittori come Picabia, Duchamp e Gleizes, la cui presenza influenzerà a sua volta lo sviluppo della pittura americana: Charles Demuth, Charles Sheeler, Joseph Stella, Niles Spencer e molti altri furono segnati dal cubismo. Soprattutto la mostra determinò l’incontro, pieno di conseguenze, di artisti e collezionisti americani col modernismo internazionale.
Questa integrazione con la corrente artistica contemporanea occidentale avvenne però molto lentamente e le tendenze moderniste restarono a lungo sotterranee e legate all’Europa.
Solo a partire dal 1940 si manifesteranno i reali frutti di questa fortunata esposizione.
Ma questa è un'altra storia.

Questo post si avvale di contributi bibliografici vari che potete consultare qui

Compianto su Cristo morto, Pieter Paul Rubens

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Pieter Paul Rubens, Compianto su Cristo morto
Il dipinto è opera di Pieter Paul Rubens, pittore fiammingo nato nel 1577 e considerato tra i più importanti artisti barocchi europei. L’opera fu realizzata dall’artista nel corso del suo primo soggiorno a Roma dove gli furono commissionate tre opere per la cappella di Sant’Elena nella chiesa di Santa Croce in Gerusalemme e una pala per la chiesa di Santa Maria in Vallicella. Rubens per realizzare questa tela si ispirò alla Deposizione dipinta da Tiziano, all’epoca conservata nel monastero dell’Escorial in Spagna, dove Rubens ebbe modo di disegnarne uno schizzo a matita nel suo taccuino d'appunti durante una missione per conto di Vincenzo Gonzaga.

Non conosciamo la provenienza del dipinto e nemmeno i committenti, sappiamo solo che entrò a far parte della Galleria Borghese a partire dal 1833. Il tema della tela è il compianto su Cristo morto che segna la fine della passione di Gesù, dopo la sua morte. È un episodio che nel corso della storia dell’arte conobbe molta fortuna, forse per il pathos e i forti sentimenti che ispirarono gli artisti. Al centro della scena domina la figura di Cristo, adagiato su di un sarcofago antico con bassorilievi: su uno dei due lati corti, e su parte di quello lungo, sono visibili un genio funerario piangente su un altare e un particolare di scena sacrificale. La corona di spine appoggiata al sarcofago e i chiodi alludono anch’essi al martirio del figlio di Dio.

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Il corpo di Cristo è sostenuto dalla Madonna che alza gli occhi al cielo ed è affiancata da altri personaggi: partendo da sinistra abbiamo San Giuseppe d’Arimatea, San Giovanni Evangelista con il mantello rosso, una pia donna di cui vediamo solo la testa e Maria Maddalena la bella giovane con un seno scoperto che tiene la mano di Cristo mentre si asciuga una lacrima dal viso. Un fascio di luce divina si fa strada attraverso il cielo plumbeo.
Una curiosità: nel corso del tempo l’opera è stata ingrandita ai lati, forse per adattarla meglio a una cornice di dimensioni maggiori e lo vediamo bene in alto e nei due lati lunghi dove i colori del dipinto cambiano notevolmente. L'ultimo restauro ha recuperato i colori originali mettendo in risalto la straordinaria capacità di Rubens nel cogliere le diverse consistenze e qualità materiche.

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I 10 migliori fumetti della storia dell’arte

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Quando parliamo di fumetti, comics e manga siamo soliti pensare che si tratti di un'espressione culturale del nostro tempo di scarso valore artistico. Invece tutt'altro! l'uomo incominciò già in tempi passati a comunicare con un linguaggio che è alla base dei moderni fumetti e molte di queste produzioni vanno inserite a pieno titolo nella storia dell'arte. Questo articolo tradotto per voi ne è la prova.

Dalla strip pre-Simpsoniana di Matt Groening al soffitto di Michelangelo e alla critica sociale di Hogarth, vi presentiamo gli artisti che per secoli hanno reinventato l’immagine del fumetto.

Robert Crumb – Self-Loathing Comics

Robert Crumb creò ritratti grafici (e divertenti) di periodi storici e celebrità in questo fumetto profondamente adulto. La sua arte è ferocemente onesta e rischiosamente confessionale. Disprezzando i supereroi e la violenza presenti nei fumetti commerciali americani, Crumb optò per un approccio genuinamente adulto in cui la sessualità viene esplorata apertamente. Ciononostante, ciò che lo rende un artista di spicco è l’abilità di disegnare con accuratezza e bellezza.

Roy Lichtenstein – Torpedo … Los! (1963)


Le avventure riguardanti la seconda guerra mondiale erano il pane dei fumetti per ragazzi quando Lichtenstein ingigantì una scena, portandola dall’essere una storia simile a tutte le altre a una di proporzioni colossali (per un fumetto) e copiandola poi a colori. La sua traduzione dei colori limitati e dei puntini ripetuti dell’originale sboccia non solo in quel soggetto violento (un U-boat che si prepara ad affondare una torpedo) ma anche nella natura cruda e stereotipata del messaggio comunicato.

William Hogarth – A Rake's Progress (1733)


Il romanzo aveva appena cominciato ad acquisire popolarità come forma letteraria quando Hogarth inventò il suo marchio di fiction grafica. “Rake’s Progress” raffigura il triste percorso di un giovane spendaccione che passa dal gioco d’azzardo alla prostituzione per finire senza soldi e pazzo all'ospedale di Bedlam. Hogarth ha prodotto le sue storie visive sia come dipinti sia come stampe per essere vendute a un pubblico appartenente al ceto medio. Queste favole pittoriche sono tra i capolavori più affascinanti e inquietanti dell’arte inglese.

David Hockney – A Rake's Progress (1961-63)


Nell’era della pop art, il colto e brillante Hockeny riprese in mano una delle sue prime fonti, William Hogarth. Nel suo set di stampe “A Rake’s Progress”, l’artista trapianta lo sventurato personaggio di Hogarth nell’America degli anni ’60. Le stampe raccontano della scoperta di Hockney degli Stati Uniti e della sua piacevole sorpresa per la cultura gay che vi aveva trovato. Questo fumetto ha un finale felice: Hockney, infatti, si trasferì poco dopo a Los Angeles per inseguire il suo sogno americano.

Andy Warhol – Superman (1960)


Quando Andy Warhol, allora artista pubblicitario di successo a New York, decise di provare la sua mano nelle belle arti, una delle prime idee che ebbe fu quella di dipingere dei quadri basandosi sui fumetti. Ritrasse Superman e Dick Tracy, detective protagonista di un fumetto, ma mise da parte questa vena creativa che si basava su del materiale di ispirazione pop quando vide cosa stava facendo in quegli anni il suo rivale, Roy Lichtenstein. A differenza di quest’ultimo, Warhol avrebbe raggiunto la fama con dei barattoli di zuppa.

Giotto – La Cappella degli Scrovegni (finita nel 1305)



Molto prima dell’invenzione dei fumetti, gli artisti usavano audaci sequenze di immagini per raccontare storie. Questo stile medievale della finzione grafica raggiunse l’apice nel capolavoro di Giotto: una cappella che può essere letta come un libro. Le scene bibliche di Giotto sono talmente esatte e lucide, le espressioni e i gesti dei personaggi talmente vividi, che i suoi affreschi posseggono il potere narrativo di un grandioso romanzo, di una piece teatrale o di un film.

Michelangelo – La Cappella Sistina (1508-12)



Il fumetto più sublime del mondo si trova dipinto sul soffitto della cappella personale del Papa a Roma. Quando Michelangelo accettò questa commissione, il metodo medievale tradizionale del narrare attraverso sequenze di immagini consisteva nel focalizzarsi su scene singole e renderle sempre più sofisticate di modo che riuscissero a riassumere l’intero dramma. Ciononostante, Michelangelo portò la semplicità di queste sequenze di immagini alle vette vertiginose della sua invenzione raccontando la storia della Creazione.

Alan Moore e Kevin O’Neill – La Lega degli Straordinari Gentlemen, Vol.1 (1999)



Lo scrittore Moore e l’artista O’Neill crearono una delle invenzioni più vivide e seducenti della letteratura inglese moderna quando mescolarono in questa fantasia eroi e cattivi della tarda epoca vittoriana. I personaggi rubati dalle storie di Bram Stoker e Rider Haggard combattono nemici mostruosi in una versione fantascientifica della Londra vittoriana immaginata da O'Neill. Spesso copiata ma mai eguagliata, la serie ha ormai perso il divertimento che aveva caratterizzato i suoi primi due volumi.

Albrecht Durer – L’Apocalisse in incisione (1497-98)



Quando la stampa arrivò in Europa nel XV secolo, gli artisti tedeschi riconobbero in essa il suo potenziale per veicolare sia immagini sia parole. Durer, il primo esponente della pop art, non vedeva alcuna differenza tra i suoi dipinti e le sue stampe. Nella sua grandiosa versione del Libro della Rivelazione usa il tipo di stampa più in voga e allo stesso tempo più primitivo, la xilografia, per creare immagini senza tempo come quella dei Quattro Cavalieri che non si curano dell’umanità travolta dalla loro cavalcata.

Matt Groening – Life in Hell (1977-2012)


Prima di creare I Simpson, il fumettista Groening offrì una visione sconcertante della vita Americana in questo fantastico giornalino a strisce. Una delle scene più conosciute è quella in cui mostra Los Angeles in fiamme dopo una notte di scontri. “Adesso sapete perché viene chiamata Vita all’Inferno”…ma i disegni e le osservazioni di Groening, apparentemente semplici, sviluppano temi come la vita familiare e l’identità sessuale con uno stile divertito e profondo, che eleva il giornale ad arte concettuale.

Fonti: traduzione di Beatrice Righetti da www.theguardian.com 

Mi chiamo Beatrice Righetti, sono laureata in Mediazione Linguistica e Culturale all’Università di Padova e sono un’appassionata traduttrice. Studio inglese, russo, tedesco e spagnolo, e nel tempo libero mi dedico all’arte e alla letteratura. Per questo, credo fortemente nella divulgazione artistica e culturale, specialmente se integrata nel nostro vasto e poliedrico panorama internazionale.

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I Comuni, origine e sviluppo dell'arte italiana - i test di Artesplorando

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Riprendo oggi la consueta rubrica del blog che mette alla prova le vostre conoscenze. I termini che sarete chiamati a indovinare in questo test si riferiscono a un periodo di grande sviluppo per l'arte italiana che vide la nascita dello stile gotico in architettura e scultura e la fioritura del "Dugento" italiano in tutte le arti. Sono anni di riscoperta della cultura antica e di nuovi ordini per le città: nascono i comuni.



Le istruzioni per il test sono sempre le stesse: è composto da domande a risposta multipla, compilatele tutte e cliccate invia. Vi appariranno così le risposte esatte per capire se e quanto avete fatto bene!
Facile no? bene, allora non perdete tempo e cominciate a mettere alla prova le vostre conoscenze!

 

Séraphine

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Séraphineè un film girato nel 2008 tra Francia e Belgio, diretto da Martin Provost e scritto da Marc Abdelnour e Provost stesso. Il film narra la storia della pittrice francese Séraphine de Senlis interpretata da una straordinaria Yolande Moreau che molti di voi ricorderanno come la portinaia nel Favoloso mondo di Amélie. Questo delicato, emozionante e commovente biopic non solo ci presenta una pittrice che ai più suonerà sconosciuta, ma ci fa scoprire anche il lavoro di un promettente regista agli esordi. L'opera ha riscosso successo sia di pubblico che di critica, soprattutto in Francia dove ha vinto nel 2009 il Premio César per il miglior film.

Il film narra la vita di una governante di mezza età, Séraphine, che vive nella Francia dei primi del Novecento e che ha un notevole talento per la pittura. La donna dipinge seguendo quello che lei considera come un'ispirazione religiosa che trova osservando la bellezza della natura, durante le passeggiate che ogni giorno compie per andare a lavoro. Séraphine ammira le piante, gli alberi, i fiori e il vento, finendo per cogliere dalla natura stessa gli elementi per dipingere, come della terra o il sangue di un maiale morto. Nella sua piccola casa illuminata da candele, dopo una giornata di lavoro, Séraphine utilizza gli ingredienti raccolti per creare silenziosamente la sua arte.

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Uhde, un celebre critico d'arte, la conosce come governante e poi vede uno dei suoi dipinti, che egli considera molto promettenti. Séraphine che si sente solo una sguattera, crede che nessuno prenderà sul serio il suo lavoro di artista, ma Uhde le assicura che ha un talento e che si prenderà cura di lei nel promuovere il suo lavoro. Lui gentilmente le consiglia di seguire il suo dono, ma essendo tedesco, deve lasciare la Francia e lasciare Séraphine quando inizia la guerra nel 1914. Tuttavia, lei continua a fare i suoi quadri. Nel 1927 la donna incontra di nuovo Uhde che considera il suo lavoro notevolmente migliorato. Inizia così ad acquistare diverse opere di Séraphine, ma la prosperità sembra non giovare alla donna, sconvolgendo il suo equilibrio: compra un costoso abito da sposa, anche se non ha un corteggiatore, e sostiene di aver ricevuto un messaggio importante dagli angeli. All'inizio della Grande Depressione, Uhde non può più vendere i quadri dell'artista ed è costretto a darle una grande delusione. Come reagirà la fragile, emotiva e semplice Séraphine?


Un film che consiglio caldamente, che vi colpirà nel presentarvi una piccola, fragile donna, vissuta nella prima metà del secolo scorso e la cui fama è giunta solo dopo la sua morte. Séraphineè un film su un'anima semplice e delicata, una donna con un grande talento che ignorava totalmente d'avere e che dipingeva per impulso. Con mezzi semplici, tavole e colori ricavati da ciò che trovava tutti i giorni, riproduceva la sua idea di natura, quella natura che per lei era sfogo e angolo di pace. Osservando Séraphine de Senlis all'opera forse assistiamo alla vera artista propriamente "naif", attenendosi al significato letterale del termine: ingenuo.


Il film ci racconta come questa donna prendendo coscienza del suo talento, andrà incontro al lento disgregarsi del suo già precario equilibrio mentale. Fulcro di tutto il film è la straordinaria Yolande Moreau, che qui calibra sapientemente la dolcezza, la fragilità e l'ingenuità, di questa donna. Per tutto il tempo rimarrete catturati quasi per magia da un'interpretazione intensa e commovente. Séraphine colpisce anche perché si tratta della prima prova del regista, che dà vita a un film delizioso, dalla buona fotografia. Dispiace solo che un'opera tanto meritevole, anche d'essere proiettata nelle scuole, sia arrivata in Italia, mal distribuita e solo due anni dopo l'uscita in Francia.
Misteri italiani...

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Arte degenerata e la follia della Germania nazista

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Può l'arte definirsi degenerata? può l'uomo arrivare a promuovere mostre che espongano quella che si ritiene essere la peggiore produzione artistica? Vi sembrerà strano, ma in passato è successo e neanche molto tempo fa e forse la storia è destinata a ripetersi prima o poi. Il concetto di arte degenerata è legato a filo doppio con la Germania nazista e con quel periodo buio che portò alla Seconda guerra mondiale.

La definizione "Entartete Kunst" acquistò valore istituzionale nell'organizzazione culturale totalitaria del Terzo Reich come titolo della mostra di opere d’arte contemporanea, prevalentemente tedesche, tolte dai musei pubblici, organizzata nel luglio 1937 nei locali della vecchia galleria delle Hofgartenarkaden di Monaco in base all'ordinanza del 30 giugno di Goebbels, ministro della Volksaufklärung und Propaganda, che autorizzava il professor Adolf Ziegler, presidente della
Reichskammer der bildenden Künste e pittore specializzato in nudi femminili classico-ariani molto amati da Hitler, a raccogliere le opere che illustrassero l’"arte tedesca della decadenza" (Verfallkunst) dal 1910.

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La mostra, a cui corrispose in parallelo l’inaugurazione della Haus der Deutschen Kunst con la prima Grande esposizione d’arte tedesca 1937, "simbolo del puro carattere tedesco nuovamente consolidato", era l’episodio finale e ufficiale della serie di "esposizioni della vergogna", organizzate immediatamente dopo i pieni poteri centrali e locali assunti dal partito nazionalsocialista fra marzo e aprile 1933, a cura dei nuovi commissari imposti a musei e accademie locali e su impulso di organizzazioni culturali naziste o paranaziste nazionaliste. Tali esposizioni ebbero titoli significativi sul piano storico-politico e ideologico: Arte di regime 1918-33, Bolscevismo culturale Spirito di Novembre.


Da queste mostre si giunse a quella più ampia e ideologicamente più impegnata nel centrochiave di Dresda, Specchio della decadenza nell’arte, al Rathaus, in parte trasferita a Monaco nel 1936 come "mostra antikomintern" e matrice di quella del 1937. I materiali fondamentali di questa erano costituiti da opere di vecchi maestri impressionisti-espressionisti come Corinth, di artisti della Brücke, Heckel, Kirchner, Pechstein, Schmidt-Rottluff, con Nolde, Mueller e Paula Modersohn Becker, di artisti del Blauer Reiter, Kandinsky, Klee, Jawlensky, Marc, con Campendonck, di artisti del Bauhaus, Feininger, Schlemmer, di espressionisti di varia tendenza, Kokoschka, Hofer, Meidner, Caspar, Grosz, Dix, Beckmann; infine di Lehmbruck, Barlach, Chagall, El Lisickij.

Lo scopo e i significati della mostra erano evidenziati al massimo dai metodi espositivi e dalla suddivisione in sezioni come ad esempio "Derisione impudica dell’immagine religiosa", "Il retroscena politico della degenerazione dell’arte", "Idioti, cretini, paralitici", "Giudei", "Completa follia"... Nel discorso d’inaugurazione, Ziegler dichiarò: "Vedete intorno a noi questi parti della pazzia, dell’impudicizia, dell’impotenza e della degenerazione... Insorge l’orrore, quando noi, vecchi soldati combattenti, vediamo come il combattente tedesco viene lordato e insudiciato, o laddove in altre opere la madre tedesca viene schernita da questi maiali come una prostituta lasciva o come una donna primitiva con l’espressione in volto della stupida imbecillità... questi garzoni di bottega per incarico e come battistrada del giudaismo internazionale si permisero di attentare all’arte tedesca. L’infimo e il triviale erano alti concetti. La sconcia bruttezza piú selezionata divenne l’ideale della bellezza".



Nell’apposito catalogo si leggeva che la mostra "vuole all’inizio di una nuova era per il popolo tedesco... offrire uno sguardo sull’orrido capitolo chiuso del disfacimento culturale degli ultimi decenni prima della grande svolta". Il testo, fondamentale per comprendere i precedenti politico-culturali, insisteva sul fatto che l’arte degenerata non era il frutto di minoritarie follie sperimentali destinate a esaurirsi, ma di un preciso clima di anarchia politico-culturale e di un preciso programma di perversione morale e spirituale del popolo tedesco e della sua Volkskultur, che aveva coinvolto
e aggregato a sé uomini e poteri culturali pubblici, nonché artisti di sangue tedesco, che non avevano seguito nell’esilio "i loro amici giudei" e che addirittura erano stati proposti da alcuni circoli come esempio di arte tedesca nordica.

Il riferimento era da un lato alla grande politica di acquisti pubblici di arte contemporanea nella Germania di Weimar, dall’altro al breve tentativo nel 1933-34 dell’Unione berlinese degli studenti
nazionalsocialisti di contrastare, facendo leva sulla rivalità nella gestione culturale fra Goebbels e Rosenberg, il trionfo tradizionalista di organizzazioni paranaziste fra cui soprattutto la Lega per la cultura tedesca fondata nel 1928-29 da Rosenberg, Himmler, Sepp Dietrich, Frick, proponendo la teoria di un espressionismo nazionale nordico alternativo al naturalismo classico meridionale. Il tentativo ebbe breve vita, fino alla liquidazione della "sinistra" nazista degli Strasser.

Guida alla mostra "Arte degenerata" 1937
La mostra del 1937 aprì la strada al decreto del 31 maggio 1938 con il sequestro a favore del Reich di 15 997 pitture, sculture e opere grafiche indicate dal Führer come degenerate, da più di cento luoghi ed enti pubblici, successivamente vendute, anche a gallerie private tedesche come la Möller di Colonia e Berlino e la Franke di Monaco ma soprattutto a privati e musei stranieri, nell’asta a Lucerna della galleria Fischer del 30 giugno 1939 (125 opere scelte con il ricavato di 570 940 franchi svizzeri, in parte impiegati per l’acquisto di armamenti dalla Oerlikon) o direttamente dal ministero di Goebbels, oltre ad alcuni capolavori incamerati da Goering e ai quasi cinquemila dipinti e opere grafiche distrutti nel rogo simbolico del marzo 1939 sul piazzale della caserma centrale dei pompieri di Berlino.
Una follia totale che portò alla distruzione non solo delle opere d'arte, ma anche della vita di molti artisti, alcuni dei quali non riuscirono più a riprendersi da questo insensato gesto di censura e denigrazione.

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Il tesoro dei Sifni a Delfi, capolavoro dell'arte greca

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Ricostruzione del tesoro dei Sifni
Oggi vi porto con me alla scoperta di un prezioso repertorio di sculture arcaiche. Il gusto ionico trionfa nel tesoro dedicato dagli abitanti di Sifno, un'isola delle Cicladi, all'Apollo di Delfi. L'edificio, costruito a forma di tempio e destinato a custodire le offerte votive alla divinità, fu eretto nel 526-525 a.C. Le colonne che normalmente troveremo in facciata, sono qui sostituite da due cariatidi, figure femminili che indossano una leggera tunica e un ampio mantello di lana che ne avvolgeva il corpo. Cornici, sculture, fregi e frontoni costituiscono un bellissimo esempio di scultura decorativa ionica, caratterizzata da una drammatica animazione e dal grande dinamismo delle scene.


Uno dei più famosi archeologi del nostro tempo, Ranuccio Bianchi Bandinelli, ha tentato una lettura dei rilievi del frontone: secondo lo studioso il fregio è opera di due scultori diversi. Questo perché il rilievo dei lati est e nord risulta più plastico, più decorativo e più grafico dell'altro. Entrambi gli artisti poterono esprimersi con libertà entro i limiti posti da un progetto preciso. E' certo che queste sculture vennero ammirate dagli artisti dell'epoca e delle successive generazioni.

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Il fregio si sviluppa sopra l'architrave sui quattro lati dell'edificio. Sul lato ovest, il principale, in corrispondenza dell'ingresso, era rappresentato il Giudizio di Paride, a sud il Ratto delle Leucippidi da parte dei Dioscuri, a est il Concilio degli dei che, dall'Olimpo assistono alla guerra di Troia, e infine sul lato nord la lotta tra gli dei dell'Olimpo e i Giganti figli della terra. Un frontone decorava la parte posteriore dell'edificio con la rappresentazione della lotta per il possesso del tripode delfico, che vede come protagonisti Apollo che si oppone a Herakles, il quale tenta di portare via il tripode dirigendosi verso la biga.

Frontone e fregio orientale del Tesoro
L'intervento di Zeus, al centro del frontone, pone fine alla contesa. La scansione dello spazio, l'animazione, l'articolazione della narrazione e la complessità dei ritmi fanno di queste composizioni dei veri capolavori dell'arte greca antica. Il fondo delle scene, secondo una ricostruzione, doveva essere blu; le iscrizioni indicanti i personaggi, alcuni dettagli delle figure, gli ornamenti dei cavalli e degli opliti erano invece rossi.
Non dimentichiamoci infatti che queste opere che oggi vediamo nel totale candore del marmo, un tempo erano dipinte con svariati colori.

Ricostruzione dei colori originali del fregio
I materiali originali appartenenti alla decorazione e ritrovati nel sito archeologico di Delfi sono esposti oggi nel museo locale; una sua ricostruzione è invece collocata lungo la Via Sacra che conduce al santuario.

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Hello museo al Museo Egizio di Torino

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Dopo un po' di latitanza riprendo oggi la rubrica "hello museo", nella quale recensisco per voi la presenza dei musei nel web. Oggi vi parlerò di quella che credo al momento sia la vera eccellenza italiana: il Museo Egizio di Torino. Questo splendido museo, dopo la nomina del nuovo (e giovane) direttore, Christian Greco, ha cominciato un vero e proprio restiling, partito dal museo reale e proseguito nella sua proiezione virtuale sul web e nei social.
Il Museo Egizio ha un sito ben organizzato che trovate QUI disponibile in due lingue: italiano e inglese. Questo bel portale si divide principalmente in sei aree: a parte ovviamente la home in cui trovate una visione d'insieme dei servizi e delle news del museo, tramite la barra orizzontale in alto, possiamo accedere alle altre aree del sito.

Nella sezione Museo potete leggerne la storia, sfogliarne la collezione e conoscere le attività della Biblioteca Silvio Curto; cliccando invece su Il nuovo percorso avrete una panoramica del nuovo percorso museale recentemente inaugurato; passando alla voce accanto accedete all'area News in cui potrete leggere le diverse novità e attività legate al museo che vi assicuro sono molte, tra cui il geniale Flashmob ideato per il milionesimo visitatore; l'area Info vi illustra le informazioni base del museo, le tariffe, le promozioni, le visite guidate e le nuove e interessanti tecnologie a disposizione del visitatore; nella sezione Fondazione trasparente avete una panoramica generale di come è strutturata l'intera macchina organizzativa del museo; infine in Chi siamo-contatti trovate una sintesi di tutti i componenti del museo, delle associazioni ad esso legate e dei contatti delle singole sezioni a cui rivolgersi.

L'impressione generale devo dire è quella di un sito strutturalmente ben fatto, aggiornato regolarmente con diversi contenuti accattivanti.
Anche l'aspetto grafico, semplice, ma elegante è da premiare essendo spesso questo il tallone d'Achille dei siti dedicati ai musei! Il Museo Egizio ha avuto infatti la bella idea, già applicata da numerose altre istituzioni museali, di crearsi un proprio logo-simbolo che lo renda immediatamente riconoscibile al pubblico. Forse unico grosso neo è la mancanza di una newsletter a cui potersi iscrivere.


Arriviamo alla presenza social del museo che devo dire è molto ben curata. Possiamo seguire il museo torinese su Facebook, Instagram, Twitter e Youtube, ma procediamo con ordine.
La pagina Facebook vanta al momento della redazione di questo post oltre 120.000 like, un risultato straordinario. La frequenza dei post è costante e varia, nel tentare di coinvolgere il pubblico. Abbiamo foto, video, link, ecc. ecc... I fan commentano e interagiscono con giudizi, critiche, apprezzamenti, domande e il museo risponde ai propri fan. Non mancano iniziative che coinvolgano più direttamente il pubblico, anche attraverso giochi e domande.
Il museo è presente anche su Twitter con ben 12.300 follower e un'attività costante di tweet d'ogni genere.
Chiaramente non poteva mancare Instagram con oltre 1100 follower e molte belle foto caricate.
Nota decisamente positiva è il fatto di avere un canale Youtube, che tra l'altro viene usato molto bene dal museo, attraverso live e video-approfondimenti di vario genere, dedicati alle mostre e ai tesori del museo.

Ma veniamo ai voti che, come saprete, vanno da una a cinque stelline (*****)!
Presenza sul web ***** Do il massimo del voto per la prima volta perché credo fermamente che questo museo sia un esempio da seguire per molti altri.
Funzionalità ed utilità effettiva **** Anche qui un buon voto perché, pur nei miglioramenti che sempre si possono realizzare, gli strumenti che offre il Museo Egizio ai suoi visitatori virtuali sono ottimi.
Dialogo e coinvolgimento del pubblico ***** Sul coinvolgimento non ho dubbi, questo museo è su un'ottima strada svolgendo un eccellente lavoro di comunicazione che credo abbia dato molti frutti, anche in termini di nuovi visitatori.

Voi cosa ne pensate? sicuramente un margine di miglioramento c'è sempre, ma qui di strada se n'è fatta tanta.
Intanto vi invito ad andare a visitare il sito del Museo Egizio di Torino e a seguirne tutte le attività social.
Alla prossima recensione!

C.C.

David, Gian Lorenzo Bernini

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Considerato il massimo protagonista della cultura figurativa barocca, Gian Lorenzo Bernini nacque a Napoli il 7 dicembre 1598. La statua che vedete fu commissionata dal cardinale Scipione Borghese e realizzata da Bernini quando aveva venticinque anni. La scultura rappresenta David, profeta di Cristo che affrontò il gigante Golia armato di una semplice fionda. L’opera va osservata partendo dalla sua sinistra, come molto probabilmente voleva originariamente l’artista. In questo modo si può ruotare intorno alla statua prima di arrivare al punto di vista frontale, cogliendo la tensione dell’eroe biblico proprio nel momento decisivo del lancio che avrebbe portato alla sconfitta di Golia.

La grande novità della scultura sta proprio nella scelta originale di questo istante, rispetto ad altri modelli precedenti come il David di Michelangelo in piazza della Signoria a Firenze. Nella statua di Firenze infatti l’eroe è fissato in una posa più statica, quasi meditativa, prima di scagliare la pietra. Difficile pensare a esempi antichi che abbiano potuto ispirate Bernini in questa scelta, ma forse prese a modello il Gladiatore di Agasia da Efeso, presente nella collezione dei Borghese e oggi esposto al Museo del Louvre. Oppure il Discobolo di Mirone, del quale parlavano le fonti letterarie, ma il cui aspetto reale all’epoca non era conosciuto.

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Ai piedi del David è raffigurata la corazza, prestata da re Saul, che l’eroe biblico aveva deposto, insieme all’elmo e alla spada, per combattere il gigante nudo e senza armi. Vedete anche un’arpa con la quale David suonerà dopo la vittoria: in cima allo strumento musicale c’è una testa d'aquila, simbolo della casa Borghese. Tutto di quest’opera ci suggerisce movimento, dalla posa, allo sforzo nell’espressione sul volto della statua.


Osservate la fronte corrugata, gli occhi diretti al bersaglio da centrare e le labbra strette nella concentrazione dello scatto. Proprio il viso del David forse è un autoritratto dell’artista, intento a scolpire nella durezza del marmo, combattendo anche lui una battaglia ma in questo caso contro la materia. Del David di Bernini è fondamentale cogliere il dinamismo, i vari punti di vista studiati dallo scultore per offrire agli spettatori diversi aspetti della scultura e del suo movimento.
Rimarrete anche voi catturati dalla tensione fisica ed emotiva che l’artista seppe imprimere nel marmo.

Questo post si avvale di contributi bibliografici vari che potete consultare qui

Grottesche e festoni nella bottega di Raffaello

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Giovanni da Udine, festoni di fiori e frutta, Roma, villa della Farnesina, galleria con Storie di Psiche
Alla fine del Quattrocento tornò alla luce a Roma, tra lo stupore generale, ricoperta da secoli di storia e da una gran quantità di detriti, la Domus Aurea, leggendaria dimora di Nerone, con molti dei suoi bellissimi arredi pittorici ancora abbastanza ben conservati. Da subito gli artisti ne fecero una tappa obbligata per i loro itinerari di formazione artistica. Armati di matite e taccuini, per niente intimoriti dalle difficoltà d'accesso al monumento, ancora in gran parte sepolto, questi artisti disegnarono le decorazioni che si trovavano lungo le volte e le pareti della villa imperiale.
Un evento quindi che segnò indelebilmente la storia dell'arte e la storia della natura morta in particolare.

Queste decorazioni stilizzate furono chiamate "grottesche", perché riemerse dall'oscurità, come se fossero state conservate dentro grotte inesplorate. Si trattava di un genere di pittura parietale minutamente decorativa, priva di una logica narrativa o di vincoli realisti, composta da una sequenza di presenze vegetali e animali, forme fantastiche, architetture, scenografie, paesaggi e disegni geometrici, mascheroni, putti e figurine liberamente combinati tra loro.
Queste decorazioni furono riproposte in età moderna nelle grandi produzioni "all'antica" della bottega di Raffaello. Le troviamo così realizzate sulle pareti di vari ambienti del palazzo pontificio Vaticano, della villa sul Tevere del ricchissimo banchiere Agostino Chigi, e di villa Madama sul Monte Mario, di proprietà della famiglia Medici.

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Fu Giovanni da Udine il principale specialista, sia di questo tipo di decorazioni, sia, in generale, della raffigurazione di ghirlande, pergolati, festoni di fiori e frutta, oppure animali, vegetali e paesaggi, all'interno dei dipinti di storia. E' un fatto ormai appurato che Giovanni da Udine ebbe un interesse particolare, e una grande maestria, per la riproduzione della natura studiata dal vivo. I dettagli da lui realizzati nelle imprese raffaellesche costituiscono una fonte non trascurabile della natura morta, per l'atteggiamento analitico e descrittivo da cui nascono e per la precisione che talvolta sconfina con l'immagine "scientifica".

Giovanni da Udine, festoni di fiori e frutta, Roma, villa della Farnesina, galleria con Storie di Psiche
Esemplari, in questo senso, i festoni di fiori e frutta realizzati nel 1517-18 sulla volta della loggia con Storie di Psiche, uno degli ambienti più splendidi commissionati da Agostino Chigi a Roma per la sua residenza detta "Farnesina". In queste fastose decorazioni esplode un gusto naturalistico gioioso e divertito, che si traduce in uno stile fresco e vitale, caratterizzato da una precisione tale da poter distinguere chiaramente ognuna delle molte specie vegetali raffigurate. L'inventiva di Giovanni da Udine e la sua rappresentazione dal vero della natura, esaltata dal genio progettuale di Raffaello, brillano anche nella grande impresa corale delle logge vaticane, dipinte tra il 1517 e il 1519.

Giovanni da Udine, grottesche in Vaticano
In questo tripudio decorativo, meravigliose composizioni di frutta e fiori si combinano con animali di ogni specie, minerali, gioielli, composizioni di armi e di strumenti musicali che, dal punto di vista della natura morta, culminano nei festoni vegetali realizzati su ciascuna delle lunette della parete interna alle logge. Fiori frutta e verdure, accompagnati dalla presenza di qualche volatile, sono disposti lungo un cordone rosso che pende dalla volta, sullo sfondo di un cielo azzurro intenso. La pittura presenta stupendi colori e un effetto quasi 3D che dona ai vegetali un realismo e una varietà da catalogo botanico.
Una dimostrazione di come la natura morta si sarebbe poi presto avviata verso l'indipendenza di genere artistico a tutti gli effetti.

Fonti: La natura morta, Luca Bortolotti, Giunti editore, Prato, 2003
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