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Il Parco Vigeland

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Il mio ultimo viaggio a Oslo mi ha permesso di scoprire un artista e una sua bellissima e complessa opera che voglio condividere con voi. Si tratta del Parco Vigeland, il più grande parco di sculture del mondo realizzato da un singolo artista, e una delle attrazioni turistiche più popolari della Norvegia. È aperto ai visitatori ventiquattro ore su ventiquattro e per tutto l'anno. Con più di duecento sculture in bronzo, granito e ferro battuto questo grande spazio verde rappresenta il frutto del lavoro di una vita compiuto da Gustav Vigeland artista, scultore e responsabile della struttura architettonica del parco.

La maggior parte delle sculture sono collocate in cinque aree lungo un asse di 850 metri: la Porta, il Ponte con il parco giochi per bambini, la Fontana, l’altura con il Monolite e la Ruota della Vita.
I lavori di costruzione di quello che sarebbe diventato il Parco Vigeland durarono molti anni. Nel 1924 venne deciso che la Fontana, il Monolite di corpi umani, insieme alle altre statue di granito dovevano essere poste su una vasta area a ovest del laghetto che si trova al centro del parco. Nel 1931 l’artista mise a punto il piano strutturale del parco che prevedeva anche il ponte decorato con sculture. 

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La città di Oslo fu la principale finanziatrice del parco, ma anche un certo numero di privati e aziende contribuirono al progetto. Il magnifico cancello dell’ingresso principale, ad esempio, venne finanziato dalla Oslo Sparebank già nel 1927.
Tutte le sculture del parco furono modellate a grandezza naturale in argilla dall’artista. L’argilla morbida poteva essere lavorata in fretta, ed era quindi un mezzo eccellente per convogliare l’enorme energia e ispirazione dell’artista. Le sculture a grandezza naturale furono proprio basate su piccoli schizzi tridimensionali modellati a mano e trasposti sui blocchi di pietra con l’ausilio di una griglia. Vigeland si fece poi aiutare da artigiani professionisti che ebbero il compito di trasformare i bozzetti in sculture di granito e bronzo. Ma Vigeland fece molto di più: fu di fatto il responsabile del progetto architettonico del parco che nel suo insieme si estende in una vasta area di circa ottanta acri.


Il Monolite

Sul punto più alto del parco è collocato il grande Monolite, raggiungibile attraverso una serie di scale circolari che portano in cima alla collina. La parte scolpita, con 121 figure, è alta 14,12 metri e l'altezza totale, compreso lo zoccolo, è 17,3 metri. Il monolite fu scolpito da un unico blocco di granito, da cui il nome e sicuramente resta la parte più impressionante e colossale tra tutte le creazioni dello scultore norvegese. Gli schizzi per una prima riproduzione in miniatura della colonna furono completati nel 1919. Vigeland modellò poi la scultura in argilla a grandezza naturale, nel suo nuovo studio, tra il 1924 e il 1925 in soli dieci mesi. Si è poi passati a una copia in gesso e nell’autunno del 1926 un blocco di granito del peso di centinaia di tonnellate fu trasportato via mare fino all’Oslofjord, per la realizzazione dell’opera definitiva, da una cava di pietra nei pressi di Halden, cittadina situata nell'estremità sudorientale della Norvegia, al confine con la Svezia.
Il blocco arrivò a destinazione nei primi mesi del 1927 e venne eretto l'anno successivo. Venne costruito un ponteggio intorno all’enorme blocco di pietra e il modello in gesso fu collocato accanto a esso. Nel 1929 il trasferimento delle figure dal gesso al granito poté iniziare. Ci vollero tre scalpellini e quattordici anni per finire il lavoro. Nel 1943 l'ultima parte del modello in gesso della colonna venne finalmente smontata e portata di nuovo al museo Vigeland, dove tuttora la si può ammirare. Prima di smontare il ponteggio fu consentito alle persone di salirvi sopra e osservare il lavoro da vicino e in pochi mesi arrivarono quasi 180.000 visitatori. Ma qual è il significato di questa straordinaria scultura? Questa enorme colonna dà spazio a una interpretazione del desiderio dell'uomo che vuole da sempre raggiungere una dimensione spirituale e divina. La colonna è forse da intendersi come la resurrezione stessa dell'uomo? Le persone scolpite sono attratte verso il cielo, caratterizzate da un sentimento di tristezza e disperazione controllata, ma anche di gioia e di speranza, esprimendo anche una certa solidarietà tenendosi strette l'un l'altra in questo strano vortice di corpi.
Vigeland iniziò poi il lavoro sui gruppi scultori di granito posti alla base del Monolite intorno alla prima guerra mondiale e li terminò nel 1936. Come nella fontana, il loro tema principale è il ciclo della vita, in cui l'uomo è raffigurato in una varietà di situazioni e relazioni tipiche. L'accesso alla collina avviene attraverso otto porte decorate in ferro battuto. Queste porte, raffiguranti l’uomo e la donna in tutte le età, sono state progettate tra il 1933 e il 1937, mentre la loro esecuzione fu terminata solo dopo la morte dell'artista.


La Ruota della Vita

La Ruota della Vita fu modellata on forma di bozzetto tra il settembre del 1933 e il febbraio del 1934. Poi una copia originale fu realizzata in gesso esattamente come era stato fatto per il Monolite, ma vediamo tutti i passaggi.
Vigeland iniziò facendo un modello in gesso su scala ridotta della Ruota della Vita. I suoi fabbri realizzarono poi un'armatura di ferro in scala: tre metri di diametro composta da una griglia. Questa solida struttura permise all’artista di costruirvi intorno il modello d’argilla che per l’inconsueta forma circolare sarebbe altrimenti collassato. Vigeland modellò a mano, ma anche utilizzando diversi tipi di strumenti rudimentali. Dalla prima bozza di gesso sono stati trasferiti al modello in creta i punti principali, utilizzando una griglia, un righello, un metro e delle pinze. Infine, la scultura è stata rifinita con strumenti più sottili per ottenere la superficie desiderata.
Si ricavò a questo punto uno stampo in gesso suddiviso in diverse parti.
Gli stampi minori vennero numerati prima d’essere separati e successivamente svuotati dall’argilla e dall’armatura di ferro. Lo stampo principale e tutti gli stampi minori furono in seguito puliti e rimontati. Il calco di fusione era quindi pronto per essere utilizzato. Il suo interno fu rivestito con una sostanza che ne permettesse il distacco e poi ricoperto con uno strato di circa due centimetri di gesso. Il calco in gesso venne rinforzato internamente con supporti in legno. Quando il gesso colato si solidificò, lo stampo venne eliminato con uno scalpello smussato e un mazzuolo di legno. Il risultato fu una copia identica all'originale in argilla da cui si poté procedere per la realizzazione dell’opera finale in bronzo.


Il Cancello

L'ingresso principale in granito e ferro battuto di fronte Kirkeveien segna l'inizio dell'asse lungo 850 metri che porta oltre il ponte, verso la fontana e il Monolite, terminando nella ruota della vita. Il cancello principale si compone di cinque grandi porte e due più piccole, tutte realizzate in ferro battuto. Il tema ricorrente è quello dei draghi, uno dei motivi principali nella produzione artistica di Vigeland, preso in prestito dalla tradizione vichinga
I cancelli sono stati progettati nel 1926 e la parte superiore è sormontata da lanterne che furono ridisegnate nel 1930 per sostituire quelle più vecchie. Il ferro battuto venne realizzato in una fucina che fu costruita accanto a quello che oggi è il Museo Vigeland, a sud del parco.


Il ponte

L'ampio ponte di cento metri di lunghezza per quindici di larghezza, è fiancheggiato da lanterne e sculture poste sui parapetti in granito e fu costruito sulla base di un vecchio ponte del 1914. Vigeland progettò il nuovo ponte e modellò negli anni tra il 1925 e il 1933 le 58 sculture in bronzo. Queste includono una ricca varietà di bambini, donne e uomini, colti in diversi momenti, alcuni da soli e altri in gruppo. Il motivo dominante che collega tutte le sculture sono i rapporti tra uomo e donna, adulti e bambini. Al centro del ponte la struttura si allarga su ogni lato e presenta due figure circondate da cerchi in bronzo massiccio. Qui troverete anche Sinnataggen, il bambino arrabbiato, che nonostante la sua dimensione, è uno dei simboli più importanti del parco e della città di Oslo.
Anche se le sculture sul ponte furono le ultime realizzate da Vigeland per il parco, vennero installate per prima. Già nell'estate del 1940, quando il resto del parco era ancora una grande area in costruzione, il ponte venne aperto al pubblico. Vennero poi costruite le quattro alte colonne di granito raffiguranti esseri umani che combattono contro lucertole drago. Questi demoni hanno il controllo assoluto delle loro vittime, e rappresentano un contrasto drammatico con l’atmosfera di gioco e gioia di vivere raffigurata sul ponte.
Un parco giochi circolare con otto sculture in bronzo di bambini è collocato sotto il ponte. Nel centro, montato su una piccola colonna di granito, sta la figura di un bambino non ancora nato. Vigeland progettò anche un’imbarcazione per il divertimento dei visitatori più giovani del parco, e la barca era ormeggiata a pochi passi più dal parchetto giochi circolare per i bambini presso un monumentale molo in granito. Per molti anni dopo la seconda guerra mondiale la barca ha navigato nel laghetto dove oggi nuotano solo cigni e anatre.


La fontana

Tra tutti i complessi scultorei del parco la Fontana ha la storia più lunga. L'idea di una fontana monumentale in bronzo aveva occupato la mente di Vigeland dall’inizio del progetto. Un bozzetto in gesso, che assomiglia alla fontana di oggi, attirò grande entusiasmo quando venne esposto nel 1906. Intorno alla prima guerra mondiale Vigeland ampliò il suo progetto aggiungendo diversi grandi gruppi di granito e nel 1919 una colonna di granito enorme. Solo nel 1924 la fontana trovò la sua posizione finale all’interno del parco e alcune modifiche furono apportate al disegno originale.
I 20 gruppi di alberi furono tutti modellati tra il 1906 e il 1914. Sotto la corona protettiva della chioma degli alberi si svolge la vita dell'uomo, dalla culla alla tomba. Il nostro tempo sulla terra è solo una parte del ciclo eterno della vita, senza inizio e senza fine. Dopo la scultura dell’albero con lo scheletro che sta per decomporsi e ricongiungersi alla natura, segue infatti un albero pieno di bambini: dalla morte nasce vita nuova.
I rilievi in bronzo lungo il lato esterno della piscina raffigurano il ciclo eterno della vita del genere umano. Nel 1936 tutti i 112 rilievi erano pronti solo 60 dei quali utilizzati. Nel 1947 l'installazione della fontana vene finalmente terminata. Il pavimento intorno alla fontana Vigeland è formato da un mosaico di 1.800 metri quadrati in granito bianco e nero. Il motivo geometrico forma un labirinto lungo circa 3.000 metri.


Altre sculture nel parco

Alcune sculture sono collocate al di fuori dell'asse principale del parco.
Al termine di un asse secondario che interseca l'asse principale a nord, c’è il gruppo bronzeo monumentale del Clan (1934-1936). Con l'eccezione del monolite, questo gruppo è la più grande scultura di Vigeland e racchiude 21 personaggi. Il modello in gesso originale fu conservato nel Museo Vigeland fino al 1985, quando una donazione da parte di IBM permise di avere la versione in bronzo secondo il piano originario dell’artista collocata nel parco nel 1988.
Sul lato opposto dell'asse principale ci sono altre due sculture: una ragazza inginocchiata circondata da una lucertola a spirale (1938) e il giovane ragazzo e ragazza appoggiati l’uno contro l'altra sul bordo di un pozzo (1939).
Vicino al Museo Vigeland a sud la scultura denominata il Triangolo (1938) è collocata su una piazzetta circolare nel percorso diagonale che parte dal monolite.
A nord all'interno dell'entrata principale si trova l'autoritratto di Vigeland (1942). Vestito con i suoi abiti da lavoro di tutti i giorni, con il martello e lo scalpello in mano pronti all’azione.

Uno spazio vasto, sorprendente, bellissimo al tramonto che chiunque visiti Oslo non può assolutamente farsi scappare!


Arti, corporazioni e il riconoscimento della professione dell'artista

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La storia dell'arte ha come attori principali, ovviamente, gli artisti, ma quando arrivarono questi ad avere coscienza del proprio mestiere e della propria importanza? Forse proprio quando gli artisti cominciarono a organizzarsi in gruppi, per darsi delle regole, delle norme e tutelare così il loro lavoro. Per quanto collegia e corpora di artigiani siano attestati già in epoca romana, l’esistenza di organizzazioni che sotto il nome di "arte", "fraglia", "gilda", "scuola", ecc. raggruppino specificatamente i pittori non è provata in Europa prima del Duecento. Questi tipi di organizzazioni presuppongono un sistema socio-economico in cui tutti i mestieri siano regolamentati, sistema che venne raggiunto solo con lo sviluppo mercantile e manifatturiero del basso medioevo.

Con il consolidarsi della città e la connessa crescita dei bisogni, si verificò allora la condizione necessaria per la nascita di ogni arte o corporazione: la presenza, cioè, di un numero sufficiente di persone che esercitino lo stesso mestiere, o mestieri simili, dentro la stessa cerchia di mura.
Il fatto che, agli albori del loro ordinamento corporativo, i pittori vengano spesso accomunati ai sellai, ai cartolai, agli speziali e ad altri artigiani con cui condividono materiali o procedimenti di lavoro è la prova più chiara che le persone che vivevano d'arte non erano poi tante nel Due e Trecento. Nel 1292, a Parigi, su circa 15.200 tassati, pittori e miniatori insieme superavano di poco la quarantina. Il colore è un lusso nel medioevo, e l’esistenza di una corporazione di artigiani che lo tratti di mestiere indica sempre uno stato di relativa agiatezza.

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Il Libro dei mestieri di Etienne Boileau, riflesso della Parigi di san Luigi, definisce entro il 1271 un quadro complesso dell’industria del lusso in una metropoli medievale al culmine della sua fama. Per altre città non esiste nulla di simile, e lo storico deve puntare su documenti meno affascinanti,prima di tutto gli statuti delle stesse corporazioni. Come per gli orefici, anche per i pittori è Venezia che apre la lista: lo statuto dei suoi pittori è del 1271. Nel 1293, nel mezzo del regno accentratore di Edoardo I e dello stile di corte, i pittori di Londra promulgano le loro prime ordinanze, in gran
parte relative alla finitura e alla decorazione delle selle. Seguono nel 1315 e nel 1348 rispettivamente gli statuti dei pittori di Firenze, accolti nell’Arte dei medici e degli speziali, e dei pittori di Praga.


Come vediamo da questi esempi, la storia delle corporazioni dei pittori non segue una linea privilegiata di diffusione, ma si presenta come il frutto di un sistema organizzativo ormai universalmente radicato in Europa, e per altri mestieri più che secolare.
Non è detto, naturalmente, che gli statuti arrivati fino a noi segnino sempre la data di nascita di una corporazione o la prova inconfutabile del successo di una scuola pittorica. Siena, Perugia e Bologna sono in pieno fiore già tra Due e Trecento, eppure gli statuti noti dei loro pittori e miniatori sono tutti posteriori alla peste nera, risalendo al 1356, al 1366 e a dopo il 1375 rispettivamente. Anche l’idea diffusa delle corporazioni come forma di organizzazione tipica del gotico comunale e borghese va ridimensionata. Roma ad esempio ebbe il suo statuto dei pittori solo in pieno Rinascimento, nel 1478, sotto il dispotico Sisto IV.

Dal Due al Quattrocento, all’ombra di una corte come nelle città libere, gli statuti e i loro numerosi aggiornamenti contemplano una gamma ristretta di problemi che solo indirettamente fanno luce sul lavoro del pittore. Il principale interesse è istituzionale: tasse annuali e d’immatricolazione, doveri
dei membri, carattere e durata delle cariche.
Quanto al mestiere vero e proprio, si raccomanda soprattutto che i materiali usati siano della qualità prevista e che i maestri mantengano un rapporto corretto tra loro e con i rispettivi lavoranti e discepoli. Un pittore che esegua un’opera con dei difetti tecnici o sottragga collaboratori a un collega poteva essere punito, turbando la buona convivenza tra i membri della corporazione e l’immagine sociale della stessa. Gli statuti citano a volte il tirocinio necessario per venire dichiarati maestri, ma ogni responsabilità didattica spettava alla bottega presso cui esso viene compiuto.
Uno spiccato spirito di corpo detta la norma frequente che vieta a pittori non iscritti all’arte o stranieri l’esercizio della loro professione.


In tutte queste prescrizioni, sostituendo la parola pittore con la parola ottonaio, fabbro, legnaiolo, ecc., si può aver chiara l’idea di quanto poco gli statuti delle corporazioni dei pittori prevedano la pittura. Per questo l’incipit dello statuto dei pittori senesi del 1356 costituisce un’eccezione
spesso citata: "Noi siamo per la grazia di Dio manifestatori agli uomini grossi, che non sanno lettera, de le cose miracolose, operate per virtù et in virtù de la santa fede".
A Praga, nel 1348, la corporazione nacque proprio da un desiderio di rendere più direttamente vincolante il legame tra colleghi nato nella locale confraternita di San Luca, mentre a Firenze la
compagnia dedicata allo stesso santo pittore, che dal 1339 in avanti raccoglie pittori ed artigiani affini quali scultori e battiloro, costituisce un primo sintomo di una coscienza professionale specifica.

Non a caso, nella Firenze del 1562-63, l’accademia si svilupperà dalla compagnia, non dalla corporazione. Solo nel 1571 la "compagnia et academia delle arti del disegno" diverrà essa stessa un’arte, confermando in tal modo la vitalità del sistema corporativo, destinato di fatto a durare fino alla rivoluzione francese.
Inflessibile nel garantire ai membri di pari grado gli stessi diritti, la corporazione assicura in genere che la qualità tecnica della produzione pittorica non scenda oltre un certo livello, senza per questo costituire un ostacolo diretto alla libertà propriamente artistica. Ci sono però dei casi in cui un singolo
membro ritiene insopportabili i limiti impostigli dalla corporazione ed entra con questa in conflitto.

Un ritratto di Giovan Battista Paggi
eseguito da Giuseppe MacPherson 
Dopo i precoci segnali che oppongono l’architetto Brunelleschi all’arte fiorentina dei maestri di pietra e legname e Michelangelo a quella romana degli scalpellini, il braccio di ferro tra Giovan Battista Paggi e la corporazione dei pittori di Genova costituisce alla fine del Cinquecento l’esempio più significativo nel campo della pittura. Autodidatta e costretto a vivere a Firenze per un omicidio, il pittore genovese non poteva esercitare in patria né farvi pervenire le sue opere per opposizione della corporazione, i cui statuti risalivano agli anni 1396-1402; tuttavia, avendo fatto ricorso al Senato genovese, ebbe la meglio con una sentenza che sarebbe tornata come una bandiera nella letteratura
artistica successiva. Il Paggi era di origine patrizia, ma più che questo fatto sembra aver convinto i suoi giudici l’idea che la pittura fosse un’arte liberale e quindi inconciliabile con le restrizioni di uno statuto corporativo.

Il cammino dall’artigiano medievale all’artista moderno è molto meno drammatico di quello che volessero far credere i critici della società vittoriana come Ruskin e Morris. Tuttavia è chiaro che una
fase cruciale di quel cammino fu rappresentata dalla convinzione che la pittura non fosse riducibile a una semplice attività manuale.
Questa convinzione è già presente nel Trecento e ad essa sembra aver contribuito più la società di corte che quella cittadina: prima di venire definito dal Boccaccio "una delle luci della fiorentina gloria", Giotto è infatti registrato a Napoli come familiaris del re. Lo stesso secolo che vede moltiplicarsi gli statuti dei pittori porta dunque con sé il mito della pittura come arte nobile.
Quando il Cennini, parlando di quanti "vengono all’arte", precisa "chi per animo gentile e chi per guadagno", il significato della parola arte sfuma tra il vecchio senso di corporazione e quello moderno di libera attività spirituale, fondata su una specifica vocazione.
Da allora gli artisti hanno fatto molta strada per poter vedersi riconosciuta una professione che ancora oggi solleva dubbi, ahimè, sul suo effettivo valore.

Questo post si avvale di contributi bibliografici vari che potete consultare qui

Jeanne Hebuterne, la musa di Modì

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Oggi riprendo la rubrica "le muse e gli artisti" per raccontarvi una delle storie più toccanti nella storia dell'arte: E' una storia cupa, senza possibilità di un lieto fine quella che unì Amedeo e Jeanne in una spirale discendente.
Soprannominata "Noix de coco" a causa della sua pelle bianca come il latte e dei suoi capelli castani con riflessi rossi, Jeanne Hebuterne è meglio conosciuta oggi per il suo profondo rapporto con Amedeo Modigliani.
Le origini della famiglia Hébuterne risalgono al piccolo villaggio francese di Varreddes (a nord della Seine-et-Marne ), da cui proviene il nonno paterno di Jeanne. Il padre, Achille Casimir Hébuterne, si guadagnò da vivere come contabile ai grandi magazzini "Bon Marché" e fu grande conoscitore e appassionato di letteratura. La madre Eudossia Anaïs Tellier era casalinga: da cattolica osservante impose ai figli la sua via spirituale. Insomma una normalissima famiglia medio-borghese.

Nel 1917, Jeanne si iscrisse al corso di pittura presso l' Académie Colarossi a Parigi, al 10 di rue de la Grande Chaumière a Notre-Dame-des-Champs nel quartiere di Montparnasse che in quegli anni si confermò al posto di Montmartre come la mecca degli artisti "bohemien". Suo fratello André Hébuterne, egli stesso pittore di paesaggi, rendendosi conto della bravura della sorella, la introdusse in questo ambiente. Alcuni ritengono che furono il pittore giapponese Léonard Foujita e lo scultore russo Chana Orloff a presentare a Jeanne Amedeo Modigliani nel marzo 1917 a La Rotonde, un locale di Parigi all'angolo tra Boulevard Montparnasse e Boulevard Raspail, punto di ritrovo di molti artisti. Secondo altri testimoni, fu durante un ballo in maschera che Modigliani, vestito da Pierrot, avrebbe avvicinato Jeanne per la prima volta. Comunque sia andata da questo momento la vita dei due non sarà più la stessa. Lei aveva diciannove anni, lui trentatré ed era appena uscito da una difficile relazione con Beatrice Hastings.

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Jeanne Hébuterne ebbe sicuramente un gran talento come pittrice, ma fu sopratutto la sua fulgida bellezza che la contraddistinse. C'è chi la descrisse "come un'Ofelia preraffaellita, con grandi occhi malinconici racchiusi in un volto enigmatico e sensuale". Le fotografie del tempo ci mostrano una giovane dal naso lungo e rettilineo e dalle labbra carnose. Secondo Chana Orloff, i suoi occhi erano di un verde pallido, anche se Modigliani li ha sempre dipinti in azzurro. In ogni caso, il suo sguardo affascinava, attraeva e seduceva. Quindi l'incontro fatale tra Amedeo e Jeanne fu una scintilla d'amore tra due irresistibili seduttori.
E fu così che una ragazza francese di buona famiglia visse una passione tumultuosa con un pittore italiano, molto più vecchio di lei e la cui salute era già molto compromessa all'epoca del loro incontro. I genitori di Jeanne, come potete ben immaginare, non videro di buon occhio questo legame. Inoltre erano devoti cattolici, mentre Modigliani era ebreo, in un momento in cui l'antisemitismo rimaneva un fattore discriminante all'ordine del giorno. A chiudere il quadro si aggiungeva la fama del pittore, conosciuto come un tossicodipendente e un alcolista. Ma Jeanne amava troppo Amedeo e così ruppe con la sua famiglia.

Amedeo Modigliani, ritratto di Jeanne
Si stabilì con Modigliani al numero 8 di rue de la Grande Chaumière, vicino all'Académie Colarossi, in un appartamento messo a disposizione da Léopold Zborowski, mercante di riferimento per Modigliani in quel periodo. Tuttavia, convinto del talento di Modigliani, Zborowski mandò la coppia nel sud della Francia, a Nizza, per permettere una ripresa alla salute cagionevole del pittore affetto da tisi. Qui il 29 novembre 1918, Jeanne diede alla luce una bambina, a cui darà il suo nome e che diventerà da grande la principale biografa del padre. Amedeo folle di gioia, festeggiò così a lungo da trovare gli uffici dell’anagrafe chiusi, non riuscendo a registrare la figlia. Non ci tornerà più e così la piccola Jeanne fu riconosciuta solamente dalla madre, e prenderà il cognome Modigliani solo perché alla morte dei genitori sarà adottata dalla sorella del pittore.
Nell'autunno del 1919, la coppia tornò a Parigi, Jeanne cessò gradualmente  ogni attività artistica dopo essersi dedicata alla fotografia e alla creazione di gioielli e vestiti. Di nuovo incinta, divenne la modella preferita del pittore e sua musa, sacrificando per lui il suo talento e la sua possibile carriera.

Jeanne Modigliani, la figlia del pittore e della sua musa
Ma le condizioni di salute di Modigliani peggiorarono, affetto da pleurite fin dall'infanzia, e da meningite tubercolare, abusò per troppo tempo di droghe e alcol. Morì a 35 anni, la sera del 24 gennaio, 1920. I genitori di Jeanne la accolsero nuovamente a casa, con la sua bambina di nemmeno due anni e in procinto di dare alla luce un secondo figlio. Ma la sua famiglia non poté evidentemente colmare il vuoto che si era creato nella vita della giovane musa. Due giorni dopo infatti, verso le quattro del mattino, sfuggendo alla vigilanza del fratello, Jeanne si buttò dalla finestra del quinto piano della casa dei suoi genitori al numero 8 bis di rue Amyot, nel quinto distretto di Parigi.

Chantal Quenneville, che era compagna di Jeanne all'Académie Colarossi, riferì sul tragico evento quanto segue: "Il corpo spezzato è stato raccolto nel cortile da un operaio che si era trasferito al pianerottolo del quinto piano, per non turbare la famiglia di Jeanne. E' stato poi trasportato dallo stesso operaio su una carriola in Rue de la Grande Chaumière, a casa Modigliani, ma dato che arrivato là gli è stato impedito di entrare, si è recato al commissariato di polizia per raccontare tutto. La salma è stata quindi ricondotta a casa e abbandonata tutta la mattina."

Il 27 gennaio Amedeo Modigliani fu sepolto nel cimitero di Pere Lachaise, accompagnato dagli artisti di Montmartre e Montparnasse. Jeanne fu sepolta il giorno dopo all'alba e furtivamente per evitare ulteriori "scandali", al cimitero di Bagneux. Il padre della Hébuterne infatti si rifiutò di far seppellire la figlia al fianco del pittore che per lui era stato la causa scatenante di tutta la tragedia. Fu solo nel 1930 che la famiglia Hébuterne concesse che le spoglie di Jeanne venissero messe a riposare accanto a quelle di Modigliani.
Musa e pittore ora sono uniti per l'eternità.

Questo post si avvale di contributi bibliografici vari che potete consultare qui

Gustav Vigeland, lo scultore più importante della Norvegia

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Il recente viaggio che ho fatto a Oslo mi ha permesso, tra le altre mille cose, di conoscere un artista poco noto fuori dai confini della Norvegia e di cui oggi vi voglio parlare.
Gustav Vigeland nacque a Mandal, piccola cittadina affacciata sul Mare del Nord, a sud della Norvegia, l’11 aprile del 1869, destinato a diventare il più importante scultore norvegese, sia per il potere della sua immaginazione creativa, che per la sua grande produttività. Anche se spesso viene associato con il parco che prende il suo nome, va ricordato che fu anche l’autore della medaglia che oggi viene consegnata ai Nobel per la pace.

Adolf Gustav Thorsen è il nome completo e originale dell’artista, nato in una famiglia composta da artigiani: i suoi genitori erano lebanista Elesæus Thorsen e Anne Aanensdatter. Ebbe tre fratelli, tra cui Emanuel Vigeland diventò anch’esso un noto artista. Da giovane fu mandato a Oslo, dove imparò l’intaglio del legno in una scuola locale. Tuttavia la morte improvvisa del padre lo costrinse a tornare a Mandal per aiutare la sua famiglia. Gustav visse per un certo tempo con i nonni in una fattoria a Vigeland chiamata Mjunebrokka. Tornò a Oslo nel 1888, questa volta determinato a diventare uno scultore professionista. Fece la conoscenza dello scultore Brynjulf Bergslien, che lo sostenne e lo aiutò nella sua formazione pratica. L'anno successivo espose la sua prima opera, Agar e Ismaele. A vent’anni, adottò il nuovo cognome di Vigeland, dalla zona in cui aveva vissuto per breve tempo.

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L’artista trascorse poi gli anni tra il 1891 e il 1896 compiendo diversi viaggi all'estero, tra cui Copenhagen, Parigi, Berlino e Firenze. Nella capitale francese frequentò il laboratorio di Auguste Rodin, esperienza molto importante, mentre in Italia si confrontò con le opere d’arte rinascimentali. In questi anni fecero la loro prima apparizioni tutti quei temi che avrebbero poi dominato la sua arte: la morte e il rapporto tra uomo e donna. Tenne le sue prime mostre personali in Norvegia nel 1894 e 1896, che ricevettero il plauso generale della critica.
Fino al 1902 Vigeland fu impegnato nel restauro della Cattedrale di Nidaros a Trondheim. Il contatto con l'arte medievale contribuì allo sviluppo di un altro tema frequente nell'arte di Vigeland: il drago. Questa creatura fantastica diventa simbolo del peccato, ma anche della forza della natura e della sua lotta contro l'uomo.

L'interno del museo Vigeland a Oslo
L’artista tornò a Oslo e ottenne dalla città uno studio abbandonato in cui lavorare. Nel 1905 la Norvegia divenne indipendente dalla Svezia e Vigeland, considerato il più talentuoso scultore norvegese, ricevette da quel momento numerose commissioni per le statue e i busti che celebrarono le personalità norvegesi più famose come Henrik Ibsen e Niels Henrik Abel.
Gustav Vigeland è però principalmente conosciuto per l’insieme di statue collocate nel parco che prende il suo nome e che ha una storia molto particolare. Nel 1921 la città di Oslo decise di demolire la casa in cui l’artista aveva vissuto fino a quel momento, per costruire una biblioteca. Dopo una lunga controversia, a Vigeland fu concesso un nuovo edificio della città dove avrebbe potuto lavorare e vivere. In cambio l’artista promise di donare alla città tutte le sue opere successive, tra sculture, disegni, incisioni e modelli.

Il celebre Monolite del Parco Vigeland a Oslo
Nei successivi vent'anni, Vigeland si dedicò al progetto di una mostra delle sue opere all’aperto, che in seguito si trasformò in quello che oggi è conosciuto come il parco di Vigeland. L'installazione permanente conta 212 sculture in bronzo e granito tutte realizzate da Gustav Vigeland. Le sculture culminano nel famoso Monolite con i 121 corpi che lottano per raggiungere la cima della scultura.
Queste opere sono state considerate da molti critici d'arte espressione di un’estetica nazista o fascista e l’artista è stato spesso paragonato ad Arno Breker, scultore tedesco, molto celebre per la sua attività artistica durante il Terzo Reich.
Al di là dei giudizi dati sulla base di ipotetiche appartenenze politiche, credo che l'arte di questo scultore sia decisamente da riscoprire, partendo dalla sua straordinaria capacità di fermare nella pietra tutti gli aspetti legati all'uomo e alla donna come padri, madri, figli, figlie e amanti, nel rapporto tra di essi e nel trascorrere del tempo.
Per conoscerlo meglio vi invito a visitare il sito del museo a lui dedicato: www.vigeland.museum.no/en

Questo post si avvale di contributi bibliografici vari che potete consultare qui


L'attribuzione. Storia di vari metodi, tra scienza e intuizione

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Johan Zoffany, Tribuna degli Uffizi
Quante volte abbiamo sentito parlare di "problemi attributivi" riguardo a una o più opere. Si perché non è sempre detto, soprattutto se pensiamo all'arte passata, che gli artisti firmino l'opera o che esistano documenti che ne attestino in maniera chiara la proprietà. Allora che si fa? È proprio in questo caso che entra in gioco l'attibuzione come operazione tipica dello storico dell’arte nei confronti di un’opera anonima di cui si vuole individuare la paternità. I risultati variano in relazione alle idee e alle conoscenze che lo storico ha dello stile e della cultura di un certo artista. Anche
l’attribuzione, quindi, è soggetta a essere storicizzata, ridiscussa, accettata o poi criticata. Ma quando si cominciò a parlare di attribuzioni?

L’attribuzione acquistò un ruolo di grande importanza solo tra il XIX e il XX secolo; però già in periodi precedenti veniva praticata, spesso con approssimazioni, da conoscitori, amatori ed eruditi. Già in Giorgio Vasari si può vedere il desiderio di definire i caratteri stilistici che individuano i singoli artisti e li rendono riconoscibili. Filippo Baldinucci parla di connotazioni particolari che consentono di identificare e distinguere le mani di differenti pittori. Poiché sono complessivamente molto rare le firme autografe e le fonti documentarie, e a volte le firme di cui disponiamo risultano false o risulta che un artista abbia firmato tutte le opere prodotte dalla sua bottega anche se autografe in piccolissima parte, ci si rende conto di quanto sia stata fondamentale, e lo sia tuttora, un’attività di attribuzione, come base di qualsiasi altra indagine conoscitiva.

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Oggi disponiamo di un'imponente quantità di attribuzioni, almeno in parte supportate da un particolare atteggiamento nei confronti dell’opera d’arte che risulta dall'innesto di un consolidato atteggiamento positivista su una lunga tradizione di estetica romantica. Da una parte, quindi, un vero e proprio culto del frammento autografo, considerato, da alcuni settori della critica, come la fonte piú preziosa per accedere alle intenzioni segrete dell’artista; dall’altra la fortuna goduta, nella seconda
metà del XIX secolo, da una concezione della storia che credeva nella necessità di una precisione totale nella ricerca e quindi richiedeva dati e date inequivocabili entro i quali riordinare la massa di conoscenze.

Giorgio Vasari
Non è semplice stabilire quando l’attribuzione abbia perduto una funzione ausiliaria per diventare lo strumento per eccellenza della storia dell’arte. Certamente con la costituzione delle grandi collezioni principesche, nel corso del XVII secolo, ha assunto sempre maggiore importanza la figura del conoscitore, consulente del collezionista nella scelta e nell’identificazione delle opere. In Francia elaborarono un metodo di riconoscimento sia A. Félibien des Ayaux (1619-95) che R. des Piles (1624-1709); in Italia F. Baldinucci (1624-96). Quest’ultimo si chiedeva se fosse possibile stabilire una regola che consentisse di individuare lo stile di ciascun artista e quale fosse il metodo più sicuro. Ma una vera tecnica di riconoscimento viene individuata nella prima metà del XVIII secolo in Inghilterra, all’interno di un importante saggio di Jonathan Richardson. The Connoisseur, an Essay in the Whole Art of Criticism as it Relates to Painting and a Discourse on the Dignity, Certainty, Pleasure and Advantage of the Science of a Connoisseur, nel quale la figura del conoscitore d’arte e di storia dell’arte assume un'identità ben definita.

Luigi Lanzi
Per diventare un esperto risultano indispensabili due caratteristiche: viaggiare, in modo da possedere un ampio bagaglio di conoscenze, e affinare le capacità di selezione e confronto delle conoscenze
acquisite. Il connoisseur, tuttavia, rimane ancora una figura di dilettante, almeno fino ai primi dell’Ottocento, quando, nello stesso momento in cui la storia diviene una vera e propria disciplina, il conoscitore si preoccupa sempre più di raggiungere risultati rigorosi. A questo scopo si è rivelato
un contributo di fondamentale importanza l’opera di Luigi Lanzi Storia pittorica dell’Italia dal risorgimento delle Belle Arti fin presso al fine del xviii secolo, che proprio in virtù della definizione di scuole regionali e, all’interno delle scuole, della periodizzazione storico-artistica, stabilisce un tessuto di relazioni stilistiche, che costituisce una base imprescindibile per tutti i successivi studi storico-artistici. Egli compie una vera e propria sintesi tra il precedente metodo empirico e un nuovo metodo fondato su di un'indagine complessa che si serve di prove incrociate quali la cronologia comparata e l’analisi delle fonti e della critica.

Bernhard Berenson al lavoro
In seguito, il successo dei musei pubblici, amplificato dalla fama senza precedenti del Louvre in età napoleonica, incentivò la redazione di cataloghi accurati e ragionati intorno alle opere esposte. Si tratta di opere essenzialmente centrate su questioni attributive e sulla definizione dei caratteri stilistici
dell’artista. Accanto ai cataloghi dei musei, ancora nella prima metà del secolo, vennero realizzati cataloghi monografici e date alle stampe le prime grandi riviste di storia dell’arte. Nello stesso periodo si generalizza l’impiego di "nomi di comodo" quando manchino notizie plausibili sull’identità civile di un certo artista di cui si vanno identificando lo stile e alcune opere. Viene così adottato il nome di "Maestro del..." seguito un codice miniato, un luogo, un elemento stilistico, ecc. Il numero dei "maestri"è aumentato nel corso di quest’ultimo secolo e mezzo. Uno dei maggiori creatori di "nomi di comodo"è stato Bernhard Berenson (1865-1959), che nella scelta di questi nomi ha sempre cercato di definire la personalità artistica dell’autore, come ad esempio l’"Amico di Sandro", per definire un pittore anonimo, vicino a Sandro Botticelli.

Giovanni Morelli
La seconda metà del XIX secolo è stata l’età d’oro dell’attribuzione ed è proprio a questo periodo che risale l’elaborazione di una metodologia molto raffinata da parte di Giovanni Morelli. Morelli, che usa spesso lo pseudonimo di Ivan Lermolieff, sottolinea in primo luogo l’importanza dell’analisi diretta dell’opera, e in secondo luogo il valore della riproduzione fotografica. Insiste sulla necessità
dell’esercizio dell’occhio, in opposizione all’uso eccessivo di materiali bibliografici per lo studio delle opere. Secondo Morelli, i caratteri chiave, le cifre e le "combinazioni" che consentono di rintracciare la paternità esatta, vanno ricercate in alcuni ben determinati dettagli, in genere di poco conto, trascurati sia dall’osservatore che dall’artista. Se infatti certi caratteri "forti" nella composizione e negli elementi fisiognomici più tipici sono oggetto di imitazione da parte di altri pittori, esistono dettagli in cui la mano del pittore si lascia andare perché non vengono di norma notati né tanto meno imitati; nella pittura del Quattro e del Cinquecento questi indizi si ritrovano nelle orecchie e nelle unghie.

Berenson, sulla traccia di Morelli, redasse un catalogo di questi indici rivelatori, dopo una sorta di indagine poliziesca alla ricerca delle testimonianze più nascoste che rivelassero la scrittura di un pittore. Entrambi gli storici dell’arte credevano fermamente nella possibilità di definire un metodo scientifico per l’attribuzione e questo riflette in pieno gli orientamenti culturali della loro epoca, ma
sembra anche seguire una metodologia vicina alle inchieste di polizia di Arthur Conan Doyle. Lo specialista in attribuzioni di Morelli arriva a identificare la mano di un determinato artista da un dettaglio insignificante agli occhi della maggior parte della gente, proprio come l’eroe di Conan Doyle identifica l’autore di un delitto da indizi impercettibili che sfuggono perfino al suo amico Watson e, naturalmente, a chi li ha lasciati; per il detective come per lo storico dell’arte rilevare le tracce più nascoste porta inevitabilmente a scoprire l’autore del delitto o del dipinto.

Max Friedländer
Il metodo inaugurato da Morelli, di carattere scientifico, irritava quanti sostenevano il valore insostituibile dell’intuizione. Per Bode o per Max Friedländer, suo allievo, il vero conoscitore è colui che ha assimilato in modo tanto perfetto lo stile di un pittore da poterlo descrivere perfino nelle fasi rimaste sconosciute della sua attività. Friedländer assicurava di poter descrivere un’opera di un qualche autore da lui profondamente conosciuto senza averla mai vista; assicurava di essere in grado di ricostruire lo schema di fondo e che se l’opera reale corrispondeva, questa doveva essere falsa. Secondo questa impostazione metodologica il conoscitore e lo storico mettono a confronto le opere reali, identificate grazie a uno studio approfondito dell’evoluzione dello stile di un artista, con i modelli mentali ricavati da quello studio.

Un caso a sé è rappresentato da Roberto Longhi che, pur esaltando il valore dell’occhio come strumento conoscitivo primario, ha fondato un complesso metodo di ricerca per individuare e stabilire non solo le singole personalità artistiche ma anche i caratteri specifici di aree geografiche o culturali,
in cui gli artisti si sono trovati a operare, o con cui hanno avuto scambi. Da questo momento l’attribuzione diviene non solo un metodo per riconoscere i singoli artisti, ma soprattutto per individuare una serie di scambi che costituiscono il tessuto connettivo della storia dell’arte. L’attribuzione intuitiva può anche venir confermata dalla scoperta di documenti, ma comunque il suo valore rimane immutato anche qualora risulti, appunto da documenti, erronea. Essa infatti rivela come veniva letto un certo autore in un dato periodo storico, quanto se ne conosceva realmente, quale grado di sensibilità critica era maturata su di una determinata cultura artistica. L’attribuzione non è quindi solo un intervento finalizzato ma anche un documento che testimonia dei mutamenti nella storia del gusto.

Roberto Longhi
Oggi l’attribuzione sembra aver perduto il ruolo di tecnica pilota, che aveva certamente ai tempi di Morelli. In primo luogo perché l’immenso lavoro realizzato da generazioni di specialisti ha ridotto notevolmente gli spazi di questa attività. Sono quindi molto meno frequenti le possibilità di scoperte sensazionali o di ricostruzioni rivoluzionarie, anche se restano tuttora aperte molte questioni, relative anche a grandi e studiatissimi maestri. I sostenitori della necessità dell’attribuzione sono per lo più storici dell’arte per i quali resta l’unico metodo che consenta di comprendere a fondo, nella loro complessità problematica, nelle loro relazioni reciproche, nella loro portata storica, ogni singola personalità artistica, limitando così la storia dell’arte alla storia degli artisti.

Oggi convivono molte tendenze che pensano l’attribuzione come una tecnica di riconoscimento funzionale, ma non necessariamente coincidente con la storia dell’arte. Esistono correnti storiche che si rifanno alla psicologia della percezione, alla sociologia, all’iconografia e all’iconologia, alla psicanalisi e all’etnologia. Nella loro diversità, tutti questi campi di ricerca presuppongono che l’opera d’arte sia strettamente connessa con la complessa realtà della storia e quindi interferisca con la percezione, la psicologia, il gusto, le vicende storico-economiche, l’immaginario, insomma la cultura di ogni determinata epoca. Comunque l’attribuzione, oltre a essere sempre necessaria per ridurre l’alto numero di opere ancora anonime o di incerta attribuzione, resta un’attività indispensabile alla storia dell’arte come strumento insostituibile per definire le coordinate spazio-temporali dell’opera e offrire solide basi ad altri tipi d’indagine.

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Il tempio di Aphaia a Egina

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Il tempio di Aphaia
Su un promontorio dell'isola di Egina, vicino ad Atene, si è ben conservato un tempio del 500 a.C., particolarmente interessante per le sculture presenti nei frontoni e il loro straordinario naturalismo. Il tempio in questione è dedicato ad Aphaia, una divinità locale che in seguito sarà assimilata ad Athena. L'edificio è piccolo, ma di grande impatto grazie alla studiata articolazione dei suoi volumi. Fu costruito in calcare locale e stuccato ance se alcune parti come le tegole della fila più bassa e le sculture dei frontoni, sono di marmo.
Le colonne sono molto snelle, sei sui lati minori e dodici su quelli maggiori. La cella a due piani, con accesso dalla parte orientale grazie a una rampa, è divisa in tre navate da due file di cinque colonne su doppio ordine.



Un'attenta policromia nelle modanature, nelle figure dei frontoni e negli acroteri (decorazioni poste al culmine del frontone nei templi) doveva contribuire a rendere vivace l'intero complesso architettonico. Ma la nostra attenzione va subito, al di là dell'aspetto architettonico del tempio, alle interessanti opere scultoree che decoravano i frontoni di Egina: queste sono tra le più significative del genere frontonale, per antichità e importanza artistica, veri capolavori della scultura greca arcaica a un passo dal nuovo stile severo che stava per nascere. Scavati nel 1811, i resti delle statue vennero portati a Monaco di Baviera e qui furono restaurati e ricomposti dallo scultore neoclassico Bertel Thorvaldsen.

Le figure del frontone occidentale, più arcaiche
Dovete sapere che la scultura frontonale per i greci era un genere a parte, con caratteristiche proprie: gli artisti che vi si dedicavano dovevano organizzare una composizione unica con più personaggi, visibili solo frontalmente e in grado di colmare organicamente lo spazio a triangolo del frontone.
Le figure dei frontoni del tempio di Aphaia, molto frammentarie, poste a dieci metri di altezza, sono in grandezza quasi naturale, ciascuna ricavata da un solo blocco di marmo. L'effetto cromatico doveva essere molto forte, sia per il contrasto tra il bianco del marmo delle statue e il fondo rosso e blu, sia perché il marmo era unito ad altri materiali che amplificavano l'effetto coloristico: bronzo per le armi, piombo forse dorato per i capelli, metalli preziosi per le decorazioni degli elmi e per gli ornamenti di Athena, maestosamente rappresentata al centro di entrambi i frontoni.

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Nel frontone occidentale, in una composizione simmetrica, si affollano figure modellate con semplicità, estrema attenzione ai dettagli, ed esaltazione del nudo. Questo frontone è il più antico e in esso è raccontata la seconda guerra di Troia, descritta nell'Iliade. Atena domina la scena al centro, mentre ai lati si scatena la battaglia. La dea non partecipa in prima persona alla battaglia, ma assiste, invisibile ai combattenti. Gli altri protagonisti sono gli eroi dell'isola nella spedizione che fecero contro la città di Troia: ci sono anche Telamone e il figlio Aiace.

Le figure più naturali del frontone orientale
L'esame attento dei due frontoni consente di riconoscere la mano di due artisti. L'autore del frontone occidentale ha uno stile più arcaico in cui alla visione d'insieme prevale la cura per le singole figure. Maggiore compattezza si nota invece nel frontone orientale, il cui maestro senza dubbio si spinse più avanti dell'altro. Lo vediamo bene nella statua di Eracle inginocchiato nell'atto di scoccare una freccia che spicca per la sua espressività e per il vigore con cui compie il gesto. Il gruppo frontonale orientale raffigura la prima guerra troiana, con Telamone che combatte a fianco di Eracle e anche qui domina una simmetria composta dove le figure creano una scena omogenea.
Un piccolo tempio, ai più forse sconosciuto, ma che ci mostra come nell'arte greca la rivoluzione partì proprio dal naturalismo del corpo umano.
Oggi le sculture si trovano alla Gliptoteca di Monaco di Baviera.

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Pierre-Auguste Renoir, un impressionista da salon

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Pierre-Auguste Renoir, Ballo al Moulin de la Galette
Pierre-Auguste Renoir, uomo del meridione francese, nacque in una famiglia di artigiani a Limoges il 25 febbraio 1841. Trasferitosi con la famiglia a Parigi, nel 1854, divenne apprendista nell’atelier dei fratelli Levy, decoratori di porcellane, presso i quali lavorò fino al 1858 e da cui apprese i primi rudimenti della pittura. La sua vera formazione artistica non fu diversa da quella degli altri artisti dell’epoca se non fosse per l’eccezionale connessione di incontri e di rapporti. Tutto iniziò nel 1862 quando l’artista si iscrisse ai corsi dell’Ecole des beauxarts e, contemporaneamente, entrò nello studio del pittore Marc Gabriel Gleyre. Questi, secondo una prassi consolidata per compensare le mancanze didattiche dell’insegnamento accademico, accoglieva nel suo studio una trentina di allievi che erano impegnati soprattutto nello studio e nella riproduzione di modelli viventi. Qui conobbe Monet, Sisley e Bazille con cui allacciò un legame che fu decisivo per la sua crescita.

Nel 1864 Gleyre chiuse definitivamente il suo studio e, nello stesso anno, Renoir sostenne gli esami all’Ecole des beaux-arts. Intanto strinse amicizia con Henri de Fantin Latour con il quale si esercitò eseguendo copie dei capolavori del Louvre. Fu l’anno che segnò la conclusione del suo apprendistato artistico e per la prima volta venne ammesso al Salon parigino. Con Monet, Bazille e Sisley, si recò inoltre nei dintorni di Fontainebleau, luogo simbolo della pittura di paesaggio verista. Per Renoir, come per i compagni, fu il primo contatto con la natura osservata con gli occhi dei pittori di Barbizon, all’epoca ancora l’esempio più interessante di pittura antiaccademica.

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Anche nei comportamenti il gruppo di giovani artisti ripropose abitudini già proprie della generazione precedente. Il cameratismo che segnò la vita quotidiana dei pittori durante queste scampagnate, era comune a una tradizione che si era via via affermata in tutta Europa e aveva dato origine a quei particolari sodalizi, non solo professionali, che vennero poi definiti "scuole". Questo cameratismo è evocato in un famoso dipinto eseguito da Renoir nel 1866, l’anno in cui fra l’altro incontrò per la prima volta Courbet: Alla Locanda di Mère Antony. Una dimostrazione della diversità di interessi dell’artista, il cui orizzonte culturale si andò allargando. Gustave Courbet rappresentò per l’artista un modello importante, ma più per ciò che riguardò la tecnica di esecuzione, con l’ampio uso della spatola, che per le celebri quanto discusse scelte iconografiche. In Renoir però l’apertura ai modelli e alle tecniche della pittura moderna tuttavia non significò la completa negazione dei metodi accademici, come accadde invece per Monet. Non a caso, infatti sia nel 1865, sia in epoca successiva, Renoir continuò a presentarsi al salon come allievo di Gleyre e fu solo nel 1867, con Sisley, Bazille, Pissarro, e Cézanne che vide le proprie opere respinte.

Pierre-Auguste Renoir, alla locanda di Mère Antony
La crescente attenzione per i risultati generati dal mutare della luce sul paesaggio portò Renoir a favorire la raffigurazione dell’acqua, che questi effetti aumenta e rende espliciti. Allo stesso tempo altre suggestioni ampliarono ancora l’orizzonte culturale dell’artista che cominciò a realizzare una serie di dipinti di gusto orientaleggiante. Rimasto a Parigi dopo la guerra franco–prussiana del ’70, Renoir strinse rapporti con il gallerista Durand-Ruel, che nel 1872 acquistò due sue opere. In questo periodo visitò spesso Monet che, con Sisley, si era stabilito ad Argenteuil: di questi soggiorni ci restano bellissime testimonianze, che evidenziano un’ulteriore crescita stilistica, in una serie di dipinti compiuti con un tocco più lieve e una tavolozza più chiara secondo una tecnica che si può definire precisamente impressionista.


La forte sintonia che si stabilì in questi anni tra Renoir, Monet, Sisley, Berthe Morisot, Pissarro e, per certi aspetti, Cézanne, anticipò la decisione di mostrarsi al pubblico con un’esposizione collettiva che resterà famosa come la prima mostra impressionista. L’idea di un’associazione di artisti indipendenti, rappresentativa di interessi anche diversi, risale al 1873 e venne sostenuta inizialmente soprattutto da Monet. Renoir presentò alla prima mostra sei opere: all’esposizione organizzata all’Hôtel Drouot due sue grandi tele vennero comperate dal collezionista e pittore Stanislas-Henri Rouart, amico di Degas. E le opere di Renoir suscitarono anche l’attenzione di Duret, mercante e critico d’arte, che fu tra i primi a distinguere le capacità di Manet e che divenne, almeno per gli anni Settanta, il compratore più importante delle sue opere. Sono i primi segnali di un’affermazione fuori dai circoli bohémien, a cui corrispose da parte dell’artista, la messa a punto di uno stile personale e il rifiuto del verismo troppo rigido praticato dagli altri pittori del gruppo.

Pierre-Auguste Renoir, le déjeuner des Canotiers
Anche la realtà venne filtrata da un occhio più disteso, quasi gioioso, che trovò espressione nei dipinti esposti nel 1877 alla seconda mostra collettiva, primo fra tutti il Ballo al Moulin de la Galette che più tardi vedremo nel dettaglio. Eseguito dal vero, en plein air, il quadro dimostrò la piena maturità pittorica di Renoir nell’uso della luce, risolto con un caratteristico gioco di macchie chiare e scure, come nella difficile orchestrazione delle molteplici figure in movimento.
La decisiva attestazione dell’artista sul mercato artistico si ebbe con il Ritratto di Madame Charpentier e dei suoi bambini, presentato al Salon del 1879, preferito da Renoir alla quarta esposizione impressionista. Il decennio successivo si aprì con un’altra grande opera, Le déjeuner des Canotiers un dipinto di grandi dimensioni che permise una sistemazione articolata dello spazio e dei numerosi personaggi raffigurati. Anche la superficie pittorica è composta con un complesso alternarsi di zone lisce, da cui emerge in certi punti la preparazione grigio chiaro della tela, con altre in cui si sovrappongono più strati di colore.

Pierre-Auguste Renoir, ritratto di Madame Charpentier e dei suoi bambini
La migliore condizione economica permise a Renoir nel 1881, di fare due viaggi, uno in Africa del nord, l’altro in Italia, che verrà considerato dallo stesso artista un punto di svolta nella sua maturazione pittorica. In particolare l’artista fu colpito dal Raffaello della Farnesina e dalle pitture murali di Pompei. Soprattutto fu rilevante il contatto del pittore con un’arte che egli considerava capace di trattare con naturalezza temi mitologici. Da qui l’idea, centrale per la sua produzione successiva, che fosse possibile unire la pittura verista con forme e soggetti di tradizione classica. Nel 1883, in seguito a un viaggio nel sud della Francia con Monet, in quegli anni concentrato nello studio degli effetti di luce e della rappresentazione del paesaggio, Renoir avviò una ricerca personale: in questo periodo, di grande sperimentazione tecnica, Renoir cercò di portare avanti lo studio delle possibilità espressive offerte dalle linee, riallacciandosi alla tradizione di Ingres, in rapporto con il colore.

Pierre-Auguste Renoir, Jeunes filles au piano
La definitiva affermazione di Renoir avvenne nel 1892, con l’ingresso delle sue opere nelle collezioni pubbliche francesi grazie all’acquisto di Jeunes filles au piano per il Musee du Luxembourg, reso possibile grazie all’intervento del poeta Mallarmé e del critico d’arte Roger Marx. Il dipinto, scelto tra cinque versioni dello stesso soggetto, richiama nella scelta iconografica come nella tecnica di esecuzione, i nuovi interessi culturali dell’artista degli anni Novanta: i pittori olandesi del Seicento e la pittura francese del XVIII secolo. Accanto a questi temi più elaborati, nell’ultimo decennio del secolo Renoir realizzò un importante numero di ritratti, per lo più figure femminili vestite con abiti moderni e raffinati, che riscossero un grande successo di pubblico.

Pierre-Auguste Renoir, Les baigneuses
Dal 1900 l’artista cominciò a trascorrere lunghi periodi sulla Costa Azzurra e, dal 1903, si stabilì a Cagnes-sur-Mèr. Per motivi di salute i soggiorni a Parigi divennero ogni anno meno frequenti e il mutamento si vide anche sul piano artistico poiché la sua pittura sembrò avvicinarsi sempre di più a un classicismo mediterraneo. Renoir si dedicò in maniera particolare alla fusione delle figure femminili con il paesaggio, tramite una progressiva amplificazione dei corpi che giungeranno a occupare quasi interamente lo spazio dipinto: la pennellata divenne più mobile e sciolta, la cromia più morbida e il colore steso per grandi campiture. Questi interessi trovarono piena espressione nella serie, numerosa, di Bagnanti: al principio rappresentate con vicino i loro abiti da città e poi, via via, private di ogni elemento che interferisse con il paesaggio. Con Les Baigneuses, realizzato tra il 1918-19, ultima opera di grandi dimensioni, l’integrazione delle figure nel paesaggio ci appare completa. L’artista morì il 3 dicembre 1919, a 78 anni, in seguito a una polmonite e fu sepolto a Essoyes, come l'amata moglie, morta appena qualche anno prima.

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Il conte d'Angiviller, l'uomo che creò il Louvre

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Jean-Baptiste Greuze, ritratto di Charles-Claude de Flahaut de La Billarderie, conte d’Angiviller
Un nome così lungo da essere quasi impronunciabile: Charles-Claude de Flahaut de La Billarderie, conte d’Angiviller! Per gli amici Angiviller, è l'uomo illustre che andiamo a conoscere oggi per la rubrica "Uomini e donne illustri". Ma chi era quest'uomo elegante, dallo sguardo distaccato e anche un po' altezzoso? Era incaricato, come direttore generale degli edifici del re (carica che mantenne dal 1774 fino alla caduta della monarchia), della manutenzione e decorazione delle dimore reali, dell’amministrazione delle manifatture, del commissionamento ed acquisizione di opere d’arte.

Angiviller controllava inoltre l’Accademia di Francia a Roma, l’accademia d’architettura e quella di pittura e scultura, che protesse sopra ogni altra, tanto da sopprimere l’Accademia di San Luca. I suoi molteplici compiti gli consentirono di orientare le tendenze estetiche del proprio tempo. I suoi predecessori, prima Lenormant de Tournehem, poi il marchese di Marigny, si erano sforzati di riportare in auge il "grande stile classico" in Francia. Angiviller fece molto di più, decise di garantirne il trionfo. Impegnato a utilizzare l’arte a fini morali, vedeva nell’esaltazione dei grandi uomini e dei buoni sentimenti il mezzo per ridare vita ai sentimenti patriottici.

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Favorì il nuovo linguaggio con numerose ordinazioni di quadri, destinati ai salons, di cui intendeva accrescere lo splendore. I temi venivano scelti dal ministro nel campo della storia antica, ma anche di quella nazionale, cosa innovativa; la scelta dei soggetti, proposti ad artisti come Lagrenée, Brenet, Durameau, Lépicié, Hallé e Ménageot, mostra l’impegno altamente moralizzante del direttore. Al grande Jacques-Louis David, Angiviller ordinò il Giuramento degli Orazi e comprò i Littori riportano a Bruto il corpo del figlio, esposto al salon del 1787.
Tuttavia l’aspetto più costruttivo della sua opera sembra il tentativo di creare un museo costituito dalle raccolte della Corona, aperto a tutti e destinato a svolgere la missione educativa che tanto gli stava a cuore. Per raggiungere questo fine occorreva conferire alle collezioni reali un carattere esemplare, colmare le lacune, costituire un complesso coerente, comprendente tutte le scuole.

Sotto la direzione di Angiviller le collezioni reali si arricchirono di 250 opere dei migliori maestri, specie delle scuole fiamminga e olandese, sino a quel momento poco rappresentate. Informato delle vendite delle raccolte più celebri in Francia e all’estero, inviava abili emissari, particolarmente in Belgio in occasione delle aste conseguenti alla soppressione dei monasteri da parte di Giuseppe II, in Olanda e a Londra. Ma le acquisizioni più belle avvennero in Francia: tra le più famose si possono citare il Ritratto di Hendrikje Stoffels, i Due filosofi e il Buon Samaritano di Rembrandt, il Colpo di sole di Ruisdael, Hélène Fourment e i suoi figli di Rubens, il Militare galante di Ter Borch, la Partenza per la passeggiata di Cuyp e i Quattro Evangelisti di Jordaens.

Uno dei dipinti esposti al Louvre grazie ad Angiviller:
Hélène Fourment e i suoi figli di Pieter Paul Rubens
Inoltre Angiviller acquistò opere francesi, tra cui la serie della Vita di san Bruno di Le Sueur, e una parte dei disegni del gabinetto Mariette. Per esporre al pubblico in modo permanente la raccolta reale che con tanta cura andava completando, scelse la grande galleria del Louvre; l’idea non era nuova, ma Angiviller fu il primo a concepire la realizzazione pratica del progetto.
Una commissione fu incaricata di prendere in esame tutti i problemi posti dall’impianto di un museo; particolarmente studiato fu il sistema d’illuminazione. Per rendere la galleria più sontuosa vennero acquistati vasi di marmo, colonne e lastre di diaspro. I dipinti furono restaurati e dotati di ricche cornici. Gli eventi però non consentirono ad Angiviller di portare a termine la sua opera tanto minuziosamente preparata; toccò alla Convenzione realizzarla.
Obbligato all’esilio una prima volta dopo il 14 luglio 1789, Angiviller tornò in Francia nel gennaio 1790, dove riassunse le proprie funzioni. Si dimise il 27 aprile 1791 e, temendo l’arresto, emigrò definitivamente qualche giorno dopo, concludendo la sua vita ad Amburgo nel dicembre del 1809.
Pochi oggi, percorrendo le sale del Louvre, sanno che gran parte del merito per la creazione di questo grande museo, spetta proprio a lui, il Conte d'Angiviller.

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Intervista a Max e Malerin, curatori di Spunti sull'Arte

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Riprendo dopo un po di tempo l'ormai celebre rubrica del blog dedicata agli art blogger: "c'è arte nella blogosfera". Oggi conosceremo Max e Malerin i curatori di Spunti sull'Arte.
Questo blog di recente nascita ha come obiettivo quello di divulgare l’arte, scrivendo in maniera semplice e chiara, cercando di suscitare nel lettore una curiosità tale da portarlo ad approfondire i vari argomenti. In fondo è praticamente la stessa "missione" che anche Artesplorando si prefissò fin dall'inizio. Ma lasciamo la parola a questi due giovani studenti di storia dell'arte.

Vorrei che per cominciare vi presentaste, chi siete, quali studi fate o avete fatto, quando e perché avete iniziato a scrivere il blog, e qual è lo scopo, la missione, il fine che vi siete prefissati diventando blogger.

Siamo Spunti sull'Arte, due persone (Max e Malerin) che stanno studiando Scienze dei Beni Culturali, seguendo un percorso storico artistico, a Milano, una delle grandi città ricche di eventi culturali, di opere e mostre d'arte. 
Vista la nostra passione comune per l'arte, abbiamo deciso di creare una piattaforma in cui noi potessimo scrivere articoli. Nonostante fossimo a conoscenza dei numerosi blog dedicati all'arte, non ci siamo scoraggiati e lo abbiamo creato.
Il punto innovatore del blog e allo stesso tempo il nostro obbiettivo, è quello di divulgare l'arte scrivendo in maniera semplice e chiara, quindi alla portata di tutti, cercando di suscitare nel lettore una curiosità tale da portarlo ad approfondire l'argomento.
Ed è da qui che nasce il nome del nostro blog: noi vogliamo dare degli spunti, degli stimoli e incoraggiare il lettore alla ricerca.

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Qual è il vostro rapporto, il vostro approccio con il luogo per eccellenza che custodisce le opere d'arte, cioè il museo: siete più da "turistodromo" o preferite musei poco frequentatati e quale vi sentireste di consigliare ai lettori di Artesplorando.

Il nostro approccio è molto libero e vasto, non abbiamo preferenze tra musei presi d'assalto dai turisti o musei poco frequentati, che di solito sono quelli che nascondono cose più interessanti, ma essendo Milano ricca in questo contesto ci concediamo un po' di tutto. Per chi si trovasse a Milano per vacanza e fosse interessato all'arte antica o medievale possiamo consigliare il museo del Castello Sforzesco, che oltretutto costa molto poco 5€ (3€ quello ridotto) ma comprendente tutte le visite di tutti i musei del Castello; chi invece è più portato al moderno e contemporanea c'è una ricca scelta, Galleria d'Arte Moderna, Pinacoteca di Brera e Palazzo Reale per fare un esempio, anche se la mostra su Boccioni ha lasciato un po' a desiderare. Per chi invece avesse un'inclinazione per l'arte orientale il Mudec è da considerare.

Che rapporto avete con le mostre? Oggi spesso diventano eventi mediatici molto pubblicizzati, ma alla fine di poca sostanza. Quali sono le mostre che preferite e se volete fate un esempio di una in particolare che vi ha colpito.

Quando andiamo a vedere qualche mostra, siamo particolarmente critici, come giusto che sia, in fondo si spendono soldi e non pochi. Stiamo attenti alle istallazioni, all'allestimento al percorso e alle scelte del materiale espositivo. La mostra su Boccioni, per esempio, è stata alquanto ridicola. Purtroppo a Milano le mostre costano molto, non sono alla portata di tutti, e le agevolazioni di certo non aiutano. Quindi selezioniamo quelle che proprio ci interessano particolarmente. Per il momento la mostra che più ci ha colpito, per entrambi, è stata quella esposta al Palazzo Reale su Klimt. Una mostra monografica molto ampia che ha trattato tutti i temi del pittore: dal ritratto alle rappresentazioni della natura (in particolare fiori e alberi) fino ad arrivare all'età d'oro. Molto bella e affascinante siamo stati quasi 3 ore. 
Dando uno sguardo al futuro, so di per certo, che la mostra su Hokusai Hiroshige e Utamato sarà altrettanto bella.  

Se foste il ministro dei beni culturali e il Presidente del Consiglio vi desse carta bianca, quale sarebbe il vostro primo provvedimento?

In Italia l'arte non viene valorizzata a sufficienza, non è resa disponibile a tutti per i suoi eccessivi costi e per i pochi investimenti in questo contesto. Una visione abbastanza triste, ma realistica, considerando che l'Italia è un paese ricco a livello artistico.
Quindi un provvedimento potrebbe riguardare queste tematiche molto sensibili: prezzo e pubblicità.
Però ci vorrebbe qualcosa di più ampio, come una sorta di abbonamento regionale (mezzi pubblici, ostelli e musei) che ti permettano di viaggiare per andare a vedere tutti i musei della regione, un modo questo che ti permette anche di conoscere non solo l'arte ma anche i luoghi che la ospitano.

Cosa proporreste di leggere a una persona che si avvicina per la prima volta alla storia dell'arte? Un testo scolastico, un saggio o una monografia?

Non vorremmo risultare troppo accademici, ma per chi si avvicina per la prima volta alla storia dell'arte consigliamo l'utilizzo di un manuale, sopratutto se provvisto di parti storiche (per capire il contesto storico in cui nasce qualcosa). Le monografie o saggi critici, senza avere delle basi, possono risultare poco chiare e si possono perdere concetti fondamentali.


Arriva il Diluvio Universale e voi avete la possibilità di mettere qualche opera d'arte nell'arca di Noè, quali scegliereste?

Ci sarebbe un enorme elenco di opere da salvare, ma vista la situazione non ci sarebbe tempo per salvarle tutte. Ecco quindi quelle che non possono mancare nella barca di Noè: La Melancolia I di Albrecht Durer e il Perseo di Cellini per Malerin; Leoni cinesi di Kano Eitoku e la serie dei Covoni di Monet per Max.

Con quale artista, anche non più tra noi, vi sentireste di uscire a cena o a bere qualcosa? Perché?

Una cena interessante, per Malerin, sarebbe con Giorgio Vasari, perché così potrebbe fargli qualche domanda, anche specifica, sull'Italia e l'Europa del suo tempo e sugli artisti con cui è entrato in contatto. Io invece (Max) di andare a cena o a bere qualcosa con Monet, cercherei in tutti i modi di vederlo all'opera mentre dipinge le sue meravigliose ninfee e i suoi covoni.

Oggi in TV e alla radio non c'è molta arte, e cultura in generale. voi cosa consigliereste di guardare (o ascoltare) al lettore di Artesplorando. Può anche essere un programma non prettamente d'arte, ma al cui interno ci sia un'approfondimento artistico. In onda ora, ma anche nel passato (ovviamente valgono anche le web-tv).

Per chi ha la possibilità di avere Sky, un canale come Sky Arte è interessante e affascinante perché tratta tutte le arti (cinema, musica, arte....), per chi invece non ha Sky, programmi di cultura interessanti sono: National Geographic, History Channel, SuperQuark. Purtroppo guardiamo poco la televisione.

In un ipotetico processo alla storia dell'arte voi siete la difesa, l'accusa è di inutilità e di inadeguatezza ai nostri tempi, uno spreco di tempo e di soldi. Fate un'arringa finale in sua difesa.

Chiunque dica che l'arte è inutile, per il tempo in cui viviamo, è poco informato, perché l'arte ha sempre vissuto di pari passo con la civiltà umana. Si tratta di testimonianza storica di civiltà, che ci permette di conoscere le tradizioni, i costumi e la cultura di un popolo.
Ed è sopratutto nel contesto contemporaneo in cui viviamo, caratterizzato da crisi economiche, guerre e terrorismo, che l'arte ricopre un ruolo fondamentale quale risanatrice e salvifica: ti aiuta ad andare avanti, risollevandoti da questo brutto contesto e facendoti sperare in un futuro migliore.

Concluderei con una bella citazione sull'arte, quella che più vi rappresenta!

La citazione che meglio rappresenta noi e Spunti sull'Arte è:
“Arte è quando la mano, la testa, e il cuore dell'uomo vanno insieme”

E con questa splendida citazione salutiamo Max e Malerin e ... tutti a leggere Spunti sull'Arte! 

Autoritratto in veste di Bacco, Caravaggio

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Autoritratto in veste di Bacco, Caravaggio
Detto anche "Bacchino malato", per il pallore del volto, nel quale è stato riconosciuto un autoritratto dell’artista, il dipinto appartiene al periodo che Caravaggio trascorse al lavoro nella bottega del Cavalier d’Arpino. Questo dipinto come il Giovane con canestra di frutta, proviene dal gruppo di opere che nel 1607 furono sequestrate al Cavalier d'Arpino dopo la pretestuosa incarcerazione per possesso illegale d’armi. Vicenda abilmente orchestrata da Scipione Borghese, avido collezionista disposto a tutto per ottenere i propri scopi.

Si tratta di un’opera allegorica in cui il protagonista viene rappresentato, con grande realismo, nei panni di Bacco, dio del vino e dell'ebbrezza. Il giovane è rivolto verso in una posa inusuale, di tre quarti, una gamba sollevata, mostrandoci fra le mani un grappolo d'uva bianca, invitante e succoso, in chiara contrapposizione con l'incarnato, pallido e malaticcio del volto. La figura è vicina a un piano di pietra su cui sono collocate due albicocche e un grappolo di uva scura. È molto probabile che Caravaggio si sia ritratto allo specchio e che eseguì l’opera durante la sua convalescenza in seguito al ricovero presso l'ospedale della Consolazione avvenuto forse per una ferita alla gamba causatagli dal calcio di un cavallo.

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E quindi tutto il dipinto, nei suoi vari elementi simbolici, sembra voler rappresentare una vittoria o un trionfo del pittore sulla malattia e la morte. Fate attenzione ai dettagli realistici che l’artista inserisce con cura nel quadro: dall’edera che si intreccia con i capelli del Bacco, agli acini ammuffiti che compaiono nel grappolo di uva gialla. In questa prima fase della sua carriera, Caravaggio è molto interessato alla descrizione naturalistica, sia del soggetto umano che di quello naturale.


Questo autoritratto in veste di Bacco non è l’unica opera dell’artista raffigurante il dio del vino. Nella Galleria degli Uffizi di Firenze è infatti custodito un secondo bacco che alza il calice per una sorta di brindisi rivolto a chi osserva il quadro. L’opera di Galleria Borghese vi offre una riflessione sul tema della malattia e della guarigione in cui Caravaggio non ha paura di soffermarsi sul pallore del volto o sul colore bluastro delle labbra di Bacco. L’artista coglie così tutta la fragilità e l’imperfezione del corpo umano.

Questo post si avvale di contributi bibliografici vari che potete consultare qui

Accademie, luoghi di promozione e insegnamento dell'arte

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La sede dell'Accademia del disegno fondata da Cosimo de' Medici e Giorgio Vasari, Palazzo dell'arte dei Beccai, Firenze
Le istituzioni accademiche, intese come associazioni di artisti, hanno svolto e svolgono tuttora un ruolo importante nella promozione e nell'insegnamento delle arti figurative. Le accademie si svilupparono in Italia nella seconda metà del XVI secolo, nate da un vasto movimento letterario, filosofico e scientifico, cominciato a Firenze grazie a Marsilio Ficino (scopri chi è QUI), e che si estese a Bologna, Roma, Venezia e Napoli a partire dal 1530. Queste prime accademie d’arte nacquero in contrasto con le corporazioni e diedero all’artista un nuovo stato sociale distinto da quello dell’artigiano.

Dal XV secolo gli artisti parteciparono alle riunioni delle accademie umanistiche, ma senza mai riceverne il titolo di membro. L’Accademia del disegno, fondata nel 1563 da Cosimo de’ Medici per iniziativa di Giorgio Vasari, fu un’istituzione innovativa. Con un decreto del 1571 quest’indipendenza
venne ufficializzata e, sei anni dopo, papa Gregorio XIII stabilì la creazione dell’Accademia di San Luca a Roma, il modello di tutte le altre accademie europee del XVII e del XVIII secolo.
L’appartenenza alle accademie di Firenze e Roma non era obbligatoria: l’accesso, permesso anche ai dilettanti, era libero, e s'intrecciarono relazioni con le botteghe. Gli accademici, che abbandonarono il titolo di "maestro" per quello di "professore", cominciarono a insegnare anatomia e geometria: un esempio su tutti è Federico Zuccari, principe dell’accademia romana, tentò d’impostare un programma teorico.

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Come nelle botteghe, la formazione del pittore restò fondata sulla copia dei maestri. Contro questo principio l’accademia di Bologna, fondata dai Carracci nel 1585, predicò il ritorno alla natura. Ne fecero parte Guido Reni, il Domenichino e l’Albani e fu la prima accademia privata importante. Ad Haarlem, nei Paesi Bassi, nonostante la potenza delle gilde, anche Van Mander fondò, con l’aiuto di Goltzius, un’accademia privata ispirata a quella fiorentina. Fin dalla fine del XVI secolo altre accademie private vennero create da mecenati nei loro palazzi: ne sono esempio quella di palazzo Ghislieri a Bologna, affidata all’Albani e al Guercino, o quella dei Crescenzi a Roma, nella quale,
come a Milano, si cominciò a disegnare dal vero.

Karel van Mander
A questo movimento che si sviluppò nelle residenze private delle persone colte alla fine del XVI secolo, partecipò in Francia l’Académie royale de peinture et de sculpture. La sua fondazione nel 1648 seguí quella dell’Académie française, a sua volta erede dell’Académie de poésie et de musique. Essa s’integrò in un vasto complesso elaborato da Richelieu, Mazzarino e poi Colbert. L’Académie des inscriptions et belles lettres, istituita nel 1663, ebbe la funzione di scegliere le statue, le pitture
e gli arazzi che dovevano decorare Versailles. L’Accademia di Francia a Roma, inserendosi a partire dal 1666 nella politica di prestigio del grand siècle, formò un’élite di pittori iniziati "alla maniera degli antichi".  La Francia propose così l’organizzazione della propria accademia come modello per l’Europa intera.

l'Academie Royal de Peinture et de Sculpture
Tuttavia le diverse situazioni socio-politiche dei vari paesi d'Europa non si prestarono sempre alla creazione di simili istituzioni. Nelle Fiandre e in Olanda, in particolare, le corporazioni restavano potenti. Ad Anversa, Venezia, Genova, Napoli o Augsburg, per molto tempo restò una forte tradizione corporativa. La prima iniziativa di corte dopo l’Académie royale di Parigi fu quella di Berlino, di cui Federico III e Sofia Carlotta di Hannover intendevano fare un centro d’idee moderne sull’arte. Seguì quella di Vienna, fondata sulle riunioni dell’accademia privata di P. Strudel (1704) e infine quella di Madrid, nel 1744. Nella seconda metà del XVIII secolo numerosissime fondazioni
private e regionali si costituirono in tutta Europa: le scuole private furono spesso poste sotto il patronato dello stato.

La Royal Academy di Londra
Questa rapida ascesa corrispose al cambiamento di gusto in questo secolo razionalista e appassionato all'antichità. La Royal Academy di Londra, fondata nel 1766 rimase un’istituzione privata, e quindi poco influenzabile da parte della politica ufficiale. In Francia invece la rete regionale delle accademie restò soggetta alla tutela governativa. Così pure in Germania, dove la maggior parte dei principi aprivano accademie nelle rispettive capitali. Le accademie del XVIII secolo, anche quelle di stato, accolsero al loro interno teorici e artisti d’avanguardia. La loro principale funzione non era più solo sociale, ma soprattutto pedagogica. L’insegnamento si fondava generalmente sulla copia, sul disegno dal tutto tondo e dal vero, sull'anatomia, la geometria e la prospettiva; restava essenziale lo studio della figura umana.

Il cortile dell'Accademia di Brera a Milano
L’appartenenza di un giovane pittore a un’accademia non fu mai incompatibile con il tirocinio nello studio di un maestro. La scuola d’arte pubblica, come unica istituzione educativa del pittore, fu innovazione ottocentesca, e per reazione portò alla nozione di accademismo. Inoltre, le scuole post-impressioniste, il cui cammino procedette ai margini rispetto all'arte ufficiale, si formarono nelle accademie private e nei liberi studi degli artisti. La storia delle accademie seguì l’evoluzione della storia della pittura: il suo percorso fu più o meno continuo e lo fu particolarmente in Francia. In questo paese avvenne anche il cambiamento dello status sociale del pittore: nel XVI e nel XVII secolo questi si allontanò progressivamente dall’artigiano per giungere, alla fine del XVII e nel XVIII secolo, a uno status ufficiale, sia come pittore di corte, sia come artista della borghesia, affermandosi nella pienezza della propria individualità col romanticismo.

Real Academia de San Fernando a Madrid
Inoltre, la storia delle accademie si legò alla vita artistica in generale: infatti sin dalla loro creazione
le varie accademie hanno costituito ricche collezioni che sono andate ad alimentare i fondi dei nostri attuali musei o che tuttora costituiscono, come a Venezia (Accademia), Milano (Brera) e Madrid (Real Academia de San Fernando) complessi tutelati. D’altro canto, parteciparono strettamente a quella stessa vita artistica organizzando esposizioni e salons. Oggi le accademie continuano a essere il luogo ufficiale in cui un provetto artista può avviarsi alla professione, ma non solo: sempre più spesso all'interno di queste istituzioni vengono inseriti corsi che si rivolgono a diversi ambiti. Non è quindi raro trovare specializzazioni in restauro, moda, fotografia, design e molto altro ancora.
La critica che sicuramente si può rivolgere a queste accademie riguarda la mancata capacità che a volte hanno nell'essere veramente luoghi in cui gli artisti contemporanei possano intraprendere la loro carriera.

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L'architettura del Partenone, vita in ogni blocco

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Pochi monumenti antichi hanno resistito al trascorrere del tempo con tutti i suoi sconvolgimenti come ha fatto il Partenone: questo magnifico edificio ne ha veramente passate di tutti i colori, dall'incuria, alle bombe, alle intemperie, ecc ecc. Celebrazione della potenza di Atene antica, ancora oggi si staglia imponente sopra l'ammasso grigiastro di edifici dell'odierna capitale greca. Già vi parlai delle sculture del Partenone, QUI, però oggi mi concentrerò sulla sua struttura. Chi fu l'artefice di tutto ciò? le fonti ci dicono che Fidia fu nominato da Pericle, politico al governo di Atene, soprintendente dei lavori. L'artista fu quindi il coordinatore di tutto il progetto.

Non fu da solo, ma a lui si affiancarono Iktinos che ebbe l'incarico di risolvere i problemi dati dall'esistenza di un edificio precedente e dovette soddisfare le richieste di Fidia per valorizzare l'enorme statua di Athena e quelle di Pericle; Kallikrates che già si era occupato della ricostruzione delle mura di Atene; e infine Karpion che in realtà fu il teorico del gruppo, occupandosi della realizzazione di un trattato sul Partenone.
La progettazione di questo splendido edificio fu lunga e laboriosa e durò ben due anni, per tutto il 449 e il 448 a.C., anche perché ogni dettaglio era discusso da cinque delegati che poi approvavano o rifiutavano ogni singolo aspetto.

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Anche durante i lavori questo gruppo di rappresentanti del popolo controllò i tempi e le spese, non risparmiando critiche.  L'intero edificio è in marmo pentelico, una roccia bianca a grana fine che può assumere tenui tonalità di giallo oro.Venne riutilizzata, ampliandola e modificandola, la piattaforma del precedente tempio che aveva già l'impostazione della cella centrale. Iktinos mantenne la divisione della cella in due settori, il vano principale a tre navate con con doppia fila di dieci colonne e il secondo vano a pianta quadrata con quattro colonne. Ma Iktinos dovette tener conto delle proporzioni monumentali della statua di Athena che Fidia aveva intenzione di realizzare e quindi, pur mantenendo la divisione in due vani della cella, cambiò la ripartizione degli spazi e dei volumi. Aumentò l'ampiezza della sala che doveva accogliere la statua cosicché il numero delle colonne sulla facciata passò da sei a otto.


Nella sala più piccola invece doveva essere custodito il tesoro della dea e qui Itkinos utilizzò per le colonne l'ordine ionico, a differenza di tutto il resto del tempio che era dorico, perché la loro forma più sottile e slanciata risolveva i problemi di spazio.
Pensate che tutta la struttura architettonica del tempio è regolata da precisi rapporti numerici. I greci andavano pazzi per le proporzioni calcolate. Il rapporto 9:4 vale per il lato maggiore e minore della base del tempio, per la larghezza e l'altezza, per l'interasse e la base delle colonne e infine per la lunghezza e la larghezza della cella dove era conservata la statua di Athena.

Ricostruzione del Partenone
I progettisti furono attenti a ogni dettaglio e lo si legge molto bene nel trattato che Iktinos scrisse sul Partenone. Il capitolo più interessante è quello dedicato alle correzioni ottiche. Di che cosa si tratta, vi chiederete, beh è quasi magia. Per dare l'impressione che la struttura del tempio fosse perfetta anche al nostro occhio che deforma le immagini furono apportate alcune variazioni, piccoli trucchi. Ad esempio la base delle colonne fu incurvata verso l'alto perché non apparisse concava in prospettiva; inoltre le colonne furono inclinate perché non sembrassero aprirsi verso l'esterno. Questo problema delle correzioni si presentò per tutti i templi greci a partire dal VI secolo a.C.

Evidenziazione delle correzioni ottiche in un tempio greco
Come conseguenza a queste piccole modifiche si notano nel Partenone delle varianti numeriche: le colonne sono inclinate di 7 cm verso l'interno, quelle angolari di 10 cm. Il risultato di tutti questi accorgimenti è che nessun blocco di marmo del Partenone ha una forma geometrica definita e che non esiste ripetizione. Le varianti dovevano essere pensate già nel progetto, ma nel corso dei lavori i vari gruppi di artigiani le reinterpretarono ed è per questo che si può veramente dire che il Partenone sembra vivere autonomamente in ogni blocco.

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Collezionisti, critici e mercanti #1

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Moltissimi sono i collezionisti d'arte che hanno costellato la storia. Potevano essere inizialmente solo sovrani, religiosi e nobili più in generale, ma con il passare del tempo emersero collezionisti tra funzionari, ambasciatori e poi imprenditori, borghesi, banchieri, scrittori ecc ecc. Oltre a collezionare le opere d'arte spesso divennero anche veri e propri mecenati che prendevano sotto alla propria ala alcuni artisti, commissionandogli opere e a volte offrendogli un vitalizio. Le collezioni di questi uomini e donne illustri oggi fanno parte dei musei, oppure sono andate disperse o magari, come nel caso di Galleria Borghese a Roma, sono ancora nello stesso luogo per cui furono acquistate.
Insomma dietro queste figure si nascondono storie, intrighi e la nascita di importanti istituzioni museali attuali. Ho deciso di conoscere e farvi scoprire questi collezionisti in una serie di post come quello che leggerete qui. Come al solito ... buona artesplorazione!

John secondo conte di Ashburnham

Acquisì a partire dal 1748 una bellissima collezione di gusto classico comprendente opere di Guercino, Rubens, Teniers e Cuyp. Dopo essere stata proposta alla National Gallery nel 1846, questa collezione venne messa all’asta presso Christie nel luglio 1850 dal quarto conte di Ashburnham per finanziare i suoi acquisti librari, ma quasi la metà restò invenduta. A tale fondo vennero ad aggiungersi molti quadri di primitivi italiani comperati dal terzo conte di Ashburnham, che viveva a Firenze, e qualche quadro comperato dal quarto conte. Dopo il 1878 non venne compiuto più nessun nuovo acquisto, e alcuni dipinti furono venduti. L’intera collezione andò dispersa presso Sotheby nel giugno-luglio del 1953.

John secondo conte di Ashburnham

Aumale

Henri-Eugène-Philippe d’Orléans duca di Aumale era il quarto figlio di Luigi Filippo e di
Maria Amelia. Scacciato dalla Francia dalla rivoluzione del 1848, si stabilì a Londra e da allora dedicò il suo tempo e la sua immensa fortuna alla formazione di una collezione di pitture, disegni, libri e oggetti d’arte che costituisce oggi il Museo Condé a Chantilly. Molto attratto dalle opere classiche di Raffaello e Poussin, ma aperto a forme d’arte diverse tra loro, raccolse primitivi italiani, opere contemporanee, manoscritti dipinti e disegni di tutte le scuole, tra i quali la serie, unica, di ritratti francesi a disegno del XVI secolo. Tornato in Francia nel 1871, intraprese il restauro di Chantilly, ereditato nel 1830 dal padrino, il duca di Borbone, ultimo discendente dei Condé, che doveva servire da contenitore alle sue collezioni. Nel 1884 il principe lasciò le proprietà di Chantilly all’Institut de France, perché le mantenesse accessibili al pubblico come Museo Condé.

Henri-Eugène-Philippe d’Orléans duca di Aumale

Arundel

Thomas Howard, secondo conte di Arundel, soprannominato da Walpole il "padre della virtù in Inghilterra", dovette il suo amore per l’arte al viaggio sul continente, con Inigo Jones, dal 1612 al 1614. Fu collezionista insaziabile, abile ed erudito; diventò il consigliere del principe Enrico, fratello maggiore di Carlo I. Emissari come William Petty passavano per lui al setaccio l’Europa. Apprezzava soprattutto la pittura del Nord, con una preferenza per Holbein, di cui possedeva una trentina di opere. Amava anche i manieristi italiani e i pittori veneziani, e possedeva numerose tele attribuite a Giorgione, Tiziano, Tintoretto, Bassano, Veronese, Pordenone, Correggio e Parmigianino. Grande amatore dei disegni, acquistò la collezione Gonzaga, comprendente un’importante serie di Parmigianino, la magnifica serie di disegni di Leonardo, serie di Dürer e di Holbein, e i celebri ritratti disegnati donatigli da Carlo I. Nel 1642 portò con sé in esilio le collezioni, ma a partire dal 1654 suo figlio cominciò lentamente a disfarsene.

Thomas Howard, secondo conte di Arundel

Alexis-François Artaud de Montor

Fu in Italia, a Roma e a Firenze, segretario di legazione del cardinal Fesch ed ebbe occasione di raccogliervi una notevole collezione di primitivi, di cui pubblicò egli stesso il catalogo, con una introduzione storica: Considérations sur l’état de la peinture dans les trois siècles qui ont précédé Raphael. Catalogo e collezione ebbero un ruolo primario nella diffusione in Francia dell’interesse per il medioevo italiano. Altra sua opera interessante per la storia dell’arte è il Voyage dans les catacombes de Rome in cui si mostrò influenzato dalle idee di Seroux d’Agincourt sulla continuità tra arte classica e arte medievale.

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Arenberg

Auguste-Marie Raymond, conte di La Marck e principe d’Arenberg prese parte attiva alla rivoluzione del Brabante, opponendosi all’imperatore d’Austria Giuseppe II. Deputato della nobiltà agli Stati Generali, tenne un’importante corrispondenza con Mirabeau dal 1788 al 1791. Nel 1793 passò al servizio dell’Austria e schieratosi a favore di Guglielmo II di Nassau, dopo il 1815 si ritirò a Bruxelles. Si dedicò da allora unicamente ai suoi gusti di collezionista. Nel suo studio sulla Galerie d’Arenberg à Bruxelles del 1859, W. Burger notò che questa collezione era di recente formazione, benché la famiglia avesse da sempre posseduto quadri e persino ne avesse ordinati agli
artisti, tra cui per esempio Watteau. D’altra parte un Arenberg aveva sposato nel XVII secolo Anne de Croy, sorella di Charles, la cui importante raccolta, contenente opere di Bosch, Memling e Bruegel, era stata venduta nel 1613. In una quindicina d’anni Arenberg raccolse un centinaio di dipinti, principalmente di scuola olandese. La collezione venne lasciata al nipote, il duca Prosper d’Arenberg, che l’arricchì di dipinti fiamminghi del XVII secolo, che si aggiungevano alle numerose opere olandesi.

Arenberg

John Julius Angerstein

Assicuratore presso i Lloyd’s, mise insieme una scelta raccolta di maestri antichi. La collezione, ospitata al n. 100 di Pall Mall a Londra, si accrebbe considerevolmente nel 1803, quando Angerstein acquistò la collezione Bouillon di celebri tele di Claude Lorrain. Questo complesso, che è sempre stato accessibile agli studiosi, comprendeva tele di ogni paese con capolavori di Sebastiano del Piombo, di Tiziano, di Rubens, di Rembrandt, di Poussin e di Hogarth. Trentotto dipinti vennero acquistati dal governo inglese nel 1824 per 60 000 sterline: l’acquisto costituì il fondo iniziale della National Gallery di Londra.

John Julius Angerstein

Bindo Altoviti

Collezionista appartenente a una famiglia di banchieri fiorentini, di cui ereditò a sedici anni la grande
fortuna. Era infatti figlio di Antonio Altoviti e di Clarenza Cybo, nipote di papa Innocenzo VIII. Prese in moglie una donna della nobiltà fiorentina, Fiammetta Soderini. Dotato di gusto e di cultura raffinati, divenne uno tra i più potenti banchieri di Roma e insieme committente dei massimi artisti del suo tempo. Vasari cita i due incarichi da lui conferiti a Raffaello. Il primo riguarda un ritratto di Altoviti giovane, che restò proprietà della famiglia a Roma fino al 1790, prima di essere trasferito a Firenze e poi venduto, nel 1808. Oggi si trova, con la raccolta Kress, nella National Gallery di Washington. Il secondo incarico riguardò una Sacra Famiglia, nota col nome di Madonna dell’impannata, e acquistata dal granduca Cosimo per la sua cappella. Anche Vasari fu incaricato di dipingere un quadro d’altare destinato alla cappella Altoviti nella chiesa dei Santi Apostoli a Firenze, l’Allegoria dell’Immacolata Concezione. Verso il 1550, ormai sessantenne, affidò a Benvenuto Cellini l’esecuzione del suo busto in bronzo. Tra gli altri tesori la collezione di Altoviti custodiva il cartone di Michelangelo per l’Ebbrezza di Noè.

Raffaello, ritratto di Bindo Altoviti

Águila

Fernando Espinosa, conte dell'Águila è il più rappresentativo degli eruditi e amatori d’arte sivigliani del XVIII secolo. Per lungo tempo alcade e benefattore della sua città natale, fu soprattutto bibliofilo e collezionista di pitture e disegni. Il suo corrispondente e amico Ponz, cui aveva fornito preziose notizie per il suo Viaje de España, sottolineò che aveva saputo riunire e conservare una specie di specchio storico della pittura sivigliana, arricchendo la propria collezione di altri dipinti spagnoli e stranieri con moltissimi disegni spagnoli, italiani e fiamminghi, nonché libri illustrati e incisioni di ogni scuola. La collezione fu dispersa dagli eredi del conte: un pezzo importante, comperato per
il museo spagnolo di Luigi Filippo, si trova oggi a Londra. Si tratta della grande Adorazione dei pastori attribuita alternativamente a Velázquez e a Zurbarán, e che resta peraltro anonima.

Edouard Aynard

Banchiere, deputato, fortemente affezionato alla sua città, Lione, costituì un’importante collezione di quadri, sculture e oggetti d’arte che andò dispersa in asta pubblica a Parigi nel 1913. Accanto ad alcuni dipinti del XVII secolo di Rembrandt, del XVIII secolo di Greuze e del XIX secolo di Delacroix e Puvis de Chavannes, va ricordata la serie di primitivi francesi, spagnoli, fiamminghi,
tedeschi e soprattutto italiani. Come i suoi compatrioti Carrand e Chalandon, Aynard ebbe predilezione particolare per i quadri italiani del Quattrocento.

Edouard Aynard

Julius Simon Bache

Banchiere e direttore della ditta J. S. Bache & Co., raccolse una collezione di primissimo ordine, che lasciò al Metropolitan Museum di New York. La maggior parte delle tele, acquistate con la mediazione di Duveen, riguarda le principali scuole europee dal XV al XVIII secolo. La pittura italiana del XV e XVI secolo è la più ricca, con Bellini, Botticelli, Crivelli, Domenico Ghirlandaio, Filippo e Filippino Lippi, Mantegna, Signorelli, Tura e Tiziano. La sezione fiamminga comprende pittori primitivi: Dirk Bouts, Petrus Christus, Gérard David, Memling, Rogier van der Weyden, cui va aggiunto Van Dyck. La scuola olandese del XVII secolo figura con Frans Hals, Ter Borch, Vermeer e Rembrandt. Citiamo pure ritratti di Dürer, Holbein, Velázquez e Goya. Alcuni bei dipinti francesi del XVIII secolo e ritratti di scuola inglese completano il prestigioso complesso.

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René Magritte

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Magritte visse un’infanzia e un’adolescenza simili a quelle di tutti i figli di piccoli borghesi che di
mestiere erano artigiani o commercianti. Un’infanzia trascorsa in ambienti popolari, tipici delle  città del sud del Belgio. Tra il 1898, data della nascita del pittore, e il 1910 fu un continuo traslocare da una città all’altra.
Leopold Magritte, padre di René, era commerciante nel settore dell’abbigliamento e la madre, Adeline, era modista: mestieri che misero insieme in famiglia l’artigianato delle confezioni con il commercio dei vestiti e degli accessori. Una vita agiata, quindi, che permise al giovane Magritte di vivere spensieratamente e di poter intraprendere gli studi.

L’artista ebbe due fratelli minori: Paul cercò tutta la vita di diventare musicista e compositore con scarso successo e Raymond si distinse nel commercio, come il padre. Un avvenimento segnò in particolar modo la giovinezza di René: nel 1912 la madre morì suicida. René aveva solo 14 anni. Si diceva che fossero proprio stati i tre fratelli Magritte a rinvenire il corpo della madre, che si era annegata nel fiume Sambre, vicino a Chatelet; ma il fatto non fu mai confermato. Rimasti con il padre vedovo, furono affidati alle cure di camerieri e governanti, che la famiglia fortunatamente si poteva permettere.

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Magritte iniziò poi il suo percorso artistico iscrivendosi nel 1916 all’Accademia di belle arti di Bruxelles, ma vi rimase solo due anni, dimostrando subito un disprezzo verso l’istituzione. Dopo la guerra, insieme all’amico Victor Servranckx, lavorò come disegnatore in un’industria di carta da parati. Lasciò poi l’impiego per guadagnarsi da vivere con manifesti e disegni pubblicitari. Gli amici di Magritte furono tutti scrittori, soprattutto poeti e filosofi, gente di una certa cultura. In questi anni conobbe Edouard Théodore Mesens, maestro di pianoforte del fratello, col quale collaborò successivamente alle riviste Oesophage e Marie. L’incontro con Marcel Lecomte, poeta surrealista, introdusse Magritte all’opera di De Chirico e alla poesia surrealista. Partecipò nel 1926 al gruppo dei surrealisti belgi che si riunirono nella Société du mystère. Dopo un breve passaggio attraverso l’esperienza cubista e futurista e una serie di quadri astratti, nel 1925 Magritte realizzò la sua prima opera surrealista, Il fantino perduto, solo un anno dopo la pubblicazione del Primo Manifesto del movimento surrealista.

René Magritte, Il tradimento delle immagini
Al suo arrivo a Parigi, dove visse dal 1927 al 1930, Magritte venne introdotto nel circolo di André Breton, poeta, saggista e critico d'arte francese, noto come teorico del surrealismo, intrecciando rapporti stretti con Hans Arp, Joan Mirò, Paul Éluard, tra i più importanti rappresentanti del movimento. Fino al 1936, l’influenza di De Chirico fu evidente nelle sue prospettive urbane, in cui oggetti tra loro incompatibili vengono accostati. Già dal 1923, nell’opera del pittore fu chiaro l’interesse per personaggi standardizzati, quali i suoi tipici signori con bombetta o oggetti spesso sostituti dai personaggi, creando straniamenti visuali, con l’accostamento di oggetti opposti, o al contrario affini, secondo un processo logico con uno spirito che si avvicinò al collage, tecnica che Magritte sperimentò negli anni tra il 1925 e il 1927.


Il tipo di pittura dell’artista belga rimase pressoché identica fino al 1940. Egli continuò la sua esplorazione sulle relazioni inattese tra oggetti e ambiente, mettendo in luce gli aspetti straordinari ora degli oggetti ora dell’ambiente. Alla fine degli anni Venti, Magritte esplorò il campo della scultura dipingendo una serie di calchi e gessi delle maschere funerarie di Napoleone e della Venere di Milo. Dal 1943 al 1947, il periodo “Renoir” è caratterizzato dalla ricerca del piacere di dipingere, che approda a un arricchimento della tavolozza. A questo periodo seguì, tra la fine del 1947 e l’inizio del 1948, il periodo “vache”, esplosivo ed erotico, illustrazione del potere sovversivo della tecnica pittorica.

René Magritte, Golconda
Malgrado i suoi rapporti burrascosi con il gruppo surrealista, Magritte tornò alla sua prima maniera, anche se con un accento crudele e ghignante sconosciuto al suo primo periodo: bare che rimpiazzano il modello Madame Récamier di Jacques-Louis David in Perspective e i personaggi di Manet nel Balcone. È proprio qui che si realizza la sua profonda originalità: in questo insieme di humour nero e di visione tradizionale di colori freschi e spazi ampi, nella affascinante e spontanea immediatezza della sua visionarietà, nell’ironica ambiguità del surreale guidata da un linguaggio visivo di sconcertante semplicità e perspicuità. Un pittore surrealista quindi, ma anche realista per il quale la realtà fu il mezzo privilegiato per ribaltare il convenzionale nell’enigma e pertanto rivelare il mistero che vi è celato.

Questo post si avvale di contributi bibliografici vari che potete consultare qui

Capolavori della miniatura - le Ore Medici Rothschild

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Questo storia comincia con Maddalena, nata il 25 luglio 1473, figlia prediletta di Lorenzo il Magnifico, che volle per lei un matrimonio particolarmente prestigioso con Franceschetto Cybo, figlio naturale di papa Innocenzo VIII. Queste nozze ebbero un ruolo fondamentale per la politica del Signore di Firenze, perché gli permisero di rinsaldare i rapporti con il Pontefice e, al contempo, di garantire una carriera ecclesiastica al figlio Giovanni. E allora cosa c'è di meglio per celebrare un matrimonio importante che commissionare, come fece Lorenzo, un raffinato libro d'Ore.

Vi lavorarono i più bravi artisti di Firenze, tra cui spicca il grande miniatore Mariano del Buono, che lo arricchirono di rimandi al nome dell'amata figlia: infatti sia sulla legatura (ora andata perduta) che nelle pagine interne si ritrova l'immagine di Maria Maddalena insieme a quella di San Giovanni Battista, patrono di Firenze. La giovane sposa non si separò mai dal prezioso dono che portò con sé a Roma. Dopo la sua morte il codice passò alla famiglia Doria di Genova che lo conservò fino agli inizi del Novecento. In quegli anni fu acquistato dal barone Edmond Rothschild, membro del ramo francese della celebre famiglia di banchieri. Da allora fa parte della famiglia Rothschild ed è custodito in Inghilterra, a Waddesdon Manor.


Ben ventisette spettacolari miniature ornano il codice. Le dodici pagine dedicate al Calendario sono illustrate con scenette raffiguranti i lavori dei mesi, mentre i frontespizi dei sette Offici recano iniziali figurate e cornici riccamente ornate. Altre otto pagine contengono iniziali istoriate e bordure floreali e numerose sono le piccole iniziali dorate inserite nel testo. Frequente anche l'araldica medicea: l'anello diamantato, il broncone e il pavone.

Nel 2012 il codice è stato al centro di una mostra allestita presso la Biblioteca Laurenziana di Firenze che ha riunito per la prima volta dopo cinque secoli i libri d'Ore che il Magnifico fece realizzare come doni nuziali per le figlie: accanto al codice di Maddalena furono esposti il libro d'Ore destinato a Luisa, oggi conservato a Firenze e quello appartenuto a Lucrezia, custodito a Monaco di Baviera.
Più che libri, tesori preziosi che accompagnarono la vita delle figlie del Magnifico.

Fonti: www.oremedici.it

Il Trecento. L'arte e la realtà visibile - i test di Artesplorando

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Per indicare i secoli XIV e XV lo storico olandese Johan Huizinga ha coniato la felice espressione dei "autunno del Medioevo". E in effetti in particolare il Trecento fu un secolo terminale rispetto al lungo millennio medioevale: un secolo in cui certi processi arrivarono a maturazione, ma in cui si rivelarono anche i segni di crisi, un secolo di decadenza, ma anche di trasformazione. Alla fine del Duecento e nel primo decennio del Trecento l'economia europea raggiunse il massimo grado di sviluppo possibile con l'apparato tecnologico e produttivo allora disponibile. La popolazione e la produzione agricola complessiva avevano raggiunto un livello mai toccato prima.


L'evento centrale della storia europea del Trecento fu però la grande epidemia di peste del 1348, una catastrofe dalle dimensioni epocali. Ma il Trecento fu anche il secolo della cattività avignonese del papato, per la prima volta portato via da Roma, fu il secolo in cui nelle città italiane emersero signorie e magnati, fu il secolo di una nuova geografia politica in Italia. Per l'arte in particolare fu il secolo di Giotto, colui che porto la pittura verso la modernità.
Le istruzioni per il test sono sempre le stesse: è composto da domande a risposta multipla, compilatele tutte e cliccate invia. Potrete subito dopo accedere alle risposte e capire se e quanto avete fatto bene!
Facile no? bene, allora non perdete tempo e cominciate a mettere alla prova le vostre conoscenze!

Intervista a Maria, curatrice di "Art And Cult Blog"

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Oggi conosciamo una giovane donna, curatrice di un blog che si occupa di cultura in generale, dall'arte al turismo.
Vorrei che per cominciare ti presentassi, chi sei, quali studi fai o hai fatto, quando e perchè hai iniziato a scrivere il blog, e qual è lo scopo, la missione, il fine che ti sei prefissata diventando blogger.

Mi chiamo Maria e vivo a Bari. Il blog, nato il 10 ottobre 2014 me lo sono creata per passione prima di tutto, specie per ciò che riguarda gli eventi culturali. E’ un modo, al contempo, per informare gli altri e me stessa, mi capita non di rado grazie al blog di scoprire o approfondire realtà nuove o che avevo messo nel dimenticatoio. E poi non nascondo che l’ho fatto anche per crearmi un’opportunità, so che è un’impresa molto ardua dato che vivere di arte e cultura al momento attuale, specie se si vive al Sud, sembra un’utopia però io come si dice dalle mie parti sono “capa tosta”. Riguardo i miei studi, ho una laurea in Scienze dell’Educazione e un Master in Management e Marketing dei Beni ed Attività culturali che mi ha permesso di effettuare uno stage alla Soprintendenza Archivistica per la Puglia e di aderire ad un progetto editoriale sui patrimoni culturali sconosciuti della mia regione.

Qual è il tuo rapporto, il tuo approccio con il luogo per eccellenza che custodisce le opere d'arte, cioè il museo: sei più da "turistodromo" o preferisci piccoli musei poco frequentati e quale ti sentiresti di consigliare ai lettori di Artesplorando.

Nella mia città solitamente basta andare nella Città Vecchia, che è già di per sé una miniera di arte, storia e cultura.  Tra i luoghi d’arte preferiti da consigliare: la Pinacoteca Corrado Giaquinto, Palazzo Simi, il Castello Svevo, il Museo Storico Civico.  

Che rapporto hai con le mostre? oggi spesso diventano eventi mediatici molto pubblicizzati, ma alla fine di poca sostanza. Quali sono le mostre che preferisci e se vuoi fai un esempio di una in particolare che ti ha colpito.

Generalmente sul mio blog tendo a scrivere soprattutto di eventi o mostre “underground” rispetto a quelle “mainstream” poiché solitamente le mainstream sono già ampiamente  pubblicizzate e spesso hanno costi non proprio bassi, io prediligo il più delle volte quelle meno famose ma che comunque vale la pena di andare a vedere. Riguardo le mostre che preferisco mi piacciono quelle relative ai dipinti, specie se ispirati ai grandi del passato o a correnti artistiche che mi hanno sempre affascinata come l’Impressionismo.

Se fossi il ministro dei Beni Culturali e il Presidente del Consiglio ti desse carta bianca, quale sarebbe il tuo primo provvedimento?

Cercherei innanzitutto di cambiare davvero rotta, di far entrare una volta per tutte nell’ordine di idee che “con la cultura si mangia”, che non si fa certo peccato a dirlo visto lo sterminato patrimonio artistico-culturale che ci ritroviamo ma che non sappiamo il più delle volte valorizzare e sfruttare come si deve. E poi renderei l’arte davvero accessibile a tutti, quindi abbasserei i prezzi delle mostre di cui parlavo sopra, stabilirei magari un prezzo politico di 5 euro. Rafforzerei il legame arte-turismo favorendo o incentivando convenzioni tra i luoghi d’arte e le strutture alberghiere in modo che chi viene da altre regioni o nazioni possa sentirsi agevolato sia per quanto riguarda le mostre da scoprire sia per quanto riguarda il territorio.



Cosa proporresti di leggere a una persona che si avvicini per la prima volta alla storia dell'arte? un testo scolastico, un saggio, una monografia...

Onestamente, non avendo fatto studi artistici veri e propri non saprei bene quale libro consigliare. Personalmente preferisco andare alla ricerca in quella miniera di informazioni che è Internet anche attraverso gli stessi blog, come il tuo per esempio, oppure consulto la mia cara vecchia enciclopedia. Certo, per alcuni  storici o studiosi dell’arte potrei risultare blasfema da questo punto di vista ma in effetti mi considero una “laica” dell’arte.

Arriva il Diluvio Universale e tu hai la possibilità di mettere qualche opera d'arte nell'arca di Noé, quali sceglieresti?

Visto che è anche presente nella foto profilo della mia pagina, la Gioconda indubbiamente. E poi alcune opere tra le più rappresentative dei vari periodi storici: per il Medioevo gli affreschi del Giotto presenti nella Cappella degli Scrovegni, per il Rinascimento oltre alla Gioconda di Leonardo, il David di Michelangelo e la Nascita di Venere del Botticelli, per il Seicento Giuditta che taglia la testa a Oloferne del Caravaggio e La ragazza con l’orecchino di perla di Vermeer, per il Settecento Allegoria dell’Europa del Tiepolo e Piazza san Marco verso la Basilica del Canaletto, per l’Ottocento La lezione di danza di Degas, Passeggiata sulla scogliera di Monet, Ballo al Moulin de la Galette di Renoir, Notte stellata di van Gogh, per il Novecento Guernica di Picasso, La persistenza della memoria di Dalì, e poi ancora qualche opera di Warhol, Basquiat, Keith Haring. Sicuramente ne avrò dimenticato più di qualcuno ma vediamo, se ci sarà ancora spazio sull’arca si potrà recuperare.

Con quale artista (anche non più tra noi!) ti sentiresti di uscire a cena o a bere qualcosa? e perchè?

Sicuramente Frida Kahlo. Mi aveva affascinata anni fa in un primo momento per il nome, non lo avevo mai sentito e mi aveva incuriosita. E questo grazie a Madonna, che ad una domanda dello stesso tenore, provocatrice come sempre, rispose qualcosa tipo “Hitler, Gesù e Frida Kahlo”. All’epoca non avevo ancora Internet e decisi che comunque avrei scoperto chi fosse. Detto fatto, mi comprai la sua biografia e leggendola mi ci sono proprio appassionata, la sua arte e la sua persona trasudano genuinità e passionalità.

Oggi in TV e alla radio non c'è molta arte, e cultura in generale. Tu cosa consiglieresti di guardare (o ascoltare) al lettore di Artesplorando. Può anche essere un programma non prettamente d'arte, ma al cui interno ci sia un'approfondimento artistico. In onda ora, ma anche nel passato (ovviamente valgono anche le web-tv).

Su Rai5 danno molte volte programmi interessanti di arte e cultura generale, dalla musica alla natura. Lo consiglio vivamente. 

In un ipotetico processo alla storia dell'arte tu sei la difesa, l'accusa è di inutilità e di inadeguatezza ai nostri tempi, uno spreco di tempo e di soldi. Fai un'arringa finale in sua difesa.

Signori della corte l’arte è una delle prove tangibili della bellezza dell’umanità e della natura. Se non ci fosse l’arte il mondo avrebbe molti diritti in meno di esistere. Per questo conviene raccontarla. 

Concluderei con una bella citazione sull'arte, quella che più ti rappresenta!

“Ostacolo non mi piega, il rigore lo distrugge, il rigore ostinato, il rigore destinato”. Una citazione che ho trovato nella biografia di Frida, scritta da Rauda Jamis, e attribuita a quel gran genio che ha “inventato” la Gioconda! 

Grazie a Maria per il tempo che ci ha concesso e ora ovviamente tutti a visitare Art And Cult Blog:
artandcultblog.blogspot.it






Basquiat

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Oggi riprendo la rubrica "Art si gira!!!" in cui ogni volta scopriamo un film dedicato a qualche artista.
Questa è la volta di Basquiat, un film americano del 1996, dramma biografico basato sulla vita dell'artista Jean-Michel Basquiat, diretto dal pittore, regista e sceneggiatore statunitense Julian Schnabel e scritto da J. Lech Majewski e John Bowe. Basquiat, nacque a Brooklyn nel 1960, e usò i suoi graffiti come base per creare dipinti-collage su tela, diventando uno dei più importanti esponenti del graffitismo americano e riuscendo a portare, insieme a Keith Haring, questo movimento dalle strade alle gallerie d'arte. Il cast del film è pieno di nomi eccellenti a partire dai due principali attori: Jeffrey Wright interpreta Basquiat, e David Bowie l'amico e mentore Andy Warhol. I membri del cast includono inoltre Gary Oldman, Dennis Hopper nei panni di Bruno Bischofberger; Parker Posey come la gallerista Mary Boone; oltre a Claire Forlani, Courtney Love, Vincent Gallo e Benicio del Toro in ruoli secondari.

Basquiat è sicuramente un film biografico, ma è anche un requiem e un lavoro d'amore su un anima fragile e tormentata la cui tragica fine sembrò inevitabilmente accelerata dall'abuso di droghe che l'artista fece. La prima immagine del film fa parte dei ricordi del pittore che vediamo di spalle bambino con la madre, mentre cammina per un corridoio arrivando davanti a "Guernica" di Picasso, che influenzò notevolmente la sua arte. Con un salto temporale lo vediamo uscire da una scatola di cartone tra i cespugli di un parco: è l'artista adulto che vive come un barbone per le strade di New York. Da questo momento in poi il film ci mostrerà un Basquiat alla ricerca costante del successo, attraverso i suoi lavori. Da graffitista che si firma con l'acronimo SAMO, "Same Old Shit" ("sempre la stessa merda") fino ad arrivare all'incontro cruciale con Andy Warhol e Bruno (il gallerista di Warhol) a cui vende due delle sue cartoline.


Questo incontro fortuito coincide anche con una svolta nella vita di Basquiat che comincia a essere apprezzato da pubblico e galleristi, realizzando mostre e vendendo le sue prime opere. L'artista diventa amico di Andy Warchol, con cui collabora, riuscendo in questo periodo felice anche a ripulirsi in parte da tutte le droghe di cui aveva abusato fino a quel momento. Ma purtroppo non durerà molto: a stravolgere definitivamente e inesorabilmente la sua vita arriverà una tragica notizia. Il suo unico vero amico, Warhol, muore il 22 febbraio 1987 in seguito a un banale intervento alla cistifellea. Basquiat non si riprenderà più.

Schnabel si è inserito nel film con l'aggiunta del personaggio immaginario di Albert Milo (Gary Oldman), che si basa su se stesso. Il regista ha anche aggiunto un cameo di sua madre, di suo padre e di sua figlia (come la famiglia di Milo). Schnabel stesso appare nei panni di un cameriere. Basquiat è stato il primo film commerciale su un pittore, realizzato da un altro pittore. Schnabel ha detto riguardo ciò: "So come ci si sente a essere attaccato come artista, so come ci si sente a essere giudicato come artista, so cosa vuol dire avere fama e notorietà. So cosa vuol dire essere accusato di cose che non avete mai detto o fatto. So come ci si sente a essere apprezzato come pure denigrato". Il regista non ottenne il permesso di usare le immagini dei dipinti di Basquiat nel film, per cui insieme al suo assistente di studio Greg Bogin creò dipinti nel suo stile da poter usare nella pellicola.

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La storia di Basquiat, primo artista nero di fama internazionale, è un film interessante che riesce bene a rievocare l'atmosfera della New York negli anni '80, in cui il mondo dell'arte stava diventando un grande supermercato per ricchi snob. Gli attori sanno destreggiarsi bene nei loro ruoli e in particolare David Bowie sembra far tornare in vita Andy Warhol che in effetti ebbe modo di conoscere di persona in gioventù. Il punto negativo del film sta forse nel fatto che non riesce a descrivere il personaggio Basquiat nella sua interezza: l'artista raccontato da Schnabel è aggraziato, quasi timido mentre quello reale si sa bene che usasse prostituirsi e che l'abuso di droga lo rendesse violento e irascibile. In più Schnabel circonda Basquiat di una patina dorata da genio maledetto, ricercando nel pittore quell'eroe che forse in vita non fu mai.


La verità è che questo artista fu un talento sfruttato e usato dai suoi galleristi come novità da lanciare sul mercato e la sua morte per loro fu una manna che fece alzare il valore dei quadri a livelli inauditi. Ma di ciò il film non tiene molto conto. Altro dettaglio che stona è l'invadenza dell'ego del regista, una specie di terrore di non far parte della scena, inserendosi coi suoi quadri attraverso il proprio alter ego Albert Milo.
In conclusione, non è forse fedele nel restituirci l'immagine di Basquiat, ma vi consiglio comunque la visione di questo film che resta probabilmente uno dei migliori lavori di Schnabel.

Per maggiori info QUI

Al museo con Artesplorando

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Per chi ancora non se ne fosse accorto, da un paio di mesi è iniziata una nuovissima serie di video prodotta da Artesplorandochannel: al museo con Artesplorando
Si tratta di brevi video in cui cercherò di portarvi con me in visita ai più grandi musei del mondo attraverso solo 10 opere. Una nuova sfida per Artesplorando e un modo per raccontare i musei, per preparare la visita a un turista frettoloso o semplicemente per offrire nuovi spunti ai curiosi d'arte.
Le puntate di questa web-serie avranno una cadenza mensile, ma per rimanere aggiornati basterà
iscriversi al canale e seguire le uscite dei video all'interno di una playlist apposita con il nome "al museo con Artesplorando"

Buona visione.

C.C.

Autoritratto in veste di Bacco, Caravaggio

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Autoritratto in veste di Bacco, Caravaggio
Detto anche "Bacchino malato", per il pallore del volto, nel quale è stato riconosciuto un autoritratto dell’artista, il dipinto appartiene al periodo che Caravaggio trascorse al lavoro nella bottega del Cavalier d’Arpino. Questo dipinto come il Giovane con canestra di frutta, proviene dal gruppo di opere che nel 1607 furono sequestrate al Cavalier d'Arpino dopo la pretestuosa incarcerazione per possesso illegale d’armi. Vicenda abilmente orchestrata da Scipione Borghese, avido collezionista disposto a tutto per ottenere i propri scopi.

Si tratta di un’opera allegorica in cui il protagonista viene rappresentato, con grande realismo, nei panni di Bacco, dio del vino e dell'ebbrezza. Il giovane è rivolto verso in una posa inusuale, di tre quarti, una gamba sollevata, mostrandoci fra le mani un grappolo d'uva bianca, invitante e succoso, in chiara contrapposizione con l'incarnato, pallido e malaticcio del volto. La figura è vicina a un piano di pietra su cui sono collocate due albicocche e un grappolo di uva scura. È molto probabile che Caravaggio si sia ritratto allo specchio e che eseguì l’opera durante la sua convalescenza in seguito al ricovero presso l'ospedale della Consolazione avvenuto forse per una ferita alla gamba causatagli dal calcio di un cavallo.

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E quindi tutto il dipinto, nei suoi vari elementi simbolici, sembra voler rappresentare una vittoria o un trionfo del pittore sulla malattia e la morte. Fate attenzione ai dettagli realistici che l’artista inserisce con cura nel quadro: dall’edera che si intreccia con i capelli del Bacco, agli acini ammuffiti che compaiono nel grappolo di uva gialla. In questa prima fase della sua carriera, Caravaggio è molto interessato alla descrizione naturalistica, sia del soggetto umano che di quello naturale.


Questo autoritratto in veste di Bacco non è l’unica opera dell’artista raffigurante il dio del vino. Nella Galleria degli Uffizi di Firenze è infatti custodito un secondo bacco che alza il calice per una sorta di brindisi rivolto a chi osserva il quadro. L’opera di Galleria Borghese vi offre una riflessione sul tema della malattia e della guarigione in cui Caravaggio non ha paura di soffermarsi sul pallore del volto o sul colore bluastro delle labbra di Bacco. L’artista coglie così tutta la fragilità e l’imperfezione del corpo umano.


Questo post si avvale di contributi bibliografici vari che potete consultare qui
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