Le Artesplorazioni sono una serie di video che vi guideranno tra i movimenti e i temi della storia dell’arte, rispondendo alle 5 domande: cosa, chi, dove, quando e perché. Oggi parliamo di … barbus!
Con il termine Barbus viene indicato un piccolo gruppo di giovani pittori, allievi di Jacques-Louis David che costituirono una specie di setta artistica. Fondata su ideali estetici orientati verso forme d’espressione “primitive”. I Barbus estremizzarono le posizioni del maestro fino al rifiuto della produzione artistica moderna e all’adesione incondizionata allo stile greco più antico, rifacendosi ai modelli della pittura su vaso precedenti all’arte di Fidia, il celebre scultore e progettista del Partenone. Inoltre questi artisti arrivarono a indossare costumi eccentrici ispirati ai vestiti dei greci antichi, attirandosi presto i fischi e gli insulti dei contemporanei. Secondo Delécluze, principale fonte sui Barbus, il capo carismatico del gruppo era Maurice Quay e gli altri esponenti principali erano Lucile Messageot, Jean-Pierre Franque, Joseph-Boniface Franque, Jean Broc, Antoine-Hilaire-Henri Périé, Guillaume-François Colson, e gli scrittori Jean-Antoine Gleizes e Charles Nodier.
Il video è anche sottotitolato in italiano, inglese, francese e spagnolo. Per i sottotitoli in lingua straniera puoi contribuire anche tu! Segui quindi la playlist “artesplorazioni” per non perderti mai nulla e lascia un commento sotto ai video in cui puoi tu stesso suggerirci opere oppure nuovi temi da trattare in futuro. Il tuo contributo quindi è prezioso.
Sollecitato dal desiderio di rivolta contro la società borghese e le sue manifestazioni, dada è un movimento artistico caratterizzato da uno spirito anarchico contro i valori tradizionali. L’ipotesi più nota sull’origine del nome del movimento è che sia stato scelto inserendo a caso un temperino tra le pagine di un dizionario. Questo tanto per capire le premesse di totale casualità. Attraverso atteggiamenti provocatori, ironici ed estremi questi artisti cercarono di scuotere l’opinione pubblica, strappandola dalla corruzione e dall’autocompiacimento. Il mondo dell’arte, con il suo gusto borghese e il suo interesse al valore di mercato delle opere, fu il primo bersaglio dei dadaisti. I tradizionali metodi artistici, pittura e scultura, furono abbandonati in favore di nuove tecniche come il collage, il fotomontaggio e il ready-made.
Dada ebbe origine simultaneamente negli Stati Uniti e in Svizzera e si diffuse in tutta Europa, con fortuna alterna, dal 1915 al 1922. Il dadaismo europeo fu fondato a Zurigo, ma alla fine della prima guerra mondiale si allargò in Germania e Francia. Zurigo era diventata, a causa della guerra e della neutralità della Svizzera, rifugio di agitatori e disertori provenienti da varie nazioni. Riunitisi in circostanze poco note, alcuni artisti e intellettuali fondarono, all’inizio del 1916, il Cabaret Voltaire. Divenne un vero e proprio quartier generale e al cabaret vi organizzarono varie attività sia letterarie che artistiche. I nomi più importanti legati a Zurigo e al dadaismo europeo sono quelli di Jean Arp, Hans Richter, Kurt Schwitters e Tristan Tzara. A New York invece furono fondamentali Marcel Duchamp, Man Ray e Francis Picabia. Ma vediamo meglio nel dettaglio tutte le esperienze dadaiste, nel vecchio e nel nuovo continente.
Cabaret Voltaire
New York
L’origine dada coincide con l’arrivo a New York nel giugno 1915 dei pittori francesi Marcel Duchamp e Francis Picabia. Questi avevano già dato scandalo nell’Armory Show del 1913. L’atmosfera cosmopolita dell’avanguardia newyorkese offrì terreno fertile all’ironia e all’impulso fantastico dada. Le manifestazioni di questo movimento in America maturarono intorno a circoli d’avanguardia popolati da varie personalità. In particolare furono importanti Alfred Stieglitz, fotografo direttore di gallerie, fondatore dell’Armory Show, e W. C. Arensberg, mecenate e collezionista dai gusti audaci. In questo ambiente Duchamp elaborò le sue prime opere, e Picabia le sue tele meccanomorfiche. In queste tele, sorelle dei ready made di Duchamp, macchine assurde e oggetti d’uso vengono promossi a opere d’arte.
Marcel Duchamp, Fontana
Vero manifesto del movimento newyorkese è, nel 1917, l’esposizione nella Grand Central Gallery, dove Duchamp, alias Richard Mutt, propose un orinatoio intitolato Fontana. Poco dopo Picabia fece uscire a New York la rivista 391 che aveva fondato a Barcellona. Ma, con la partenza di Picabia per l’Europa, il gruppo cominciò presto a disgregarsi. Duchamp partì a sua volta per la Francia nel maggio 1921, e a questo punto l’episodio newyorkese di dada poté considerarsi concluso.
Berlino, Colonia e Hannover
L’animatore del dada berlinese fu Hülsenbeck, giuntovi nel febbraio 1917 con tutta l’esperienza di Zurigo. Nel corso dell’estate di quell’anno assunse dei chiari connotati politici, nel drammatico clima della Germania vinta. Un’altra personalità importante a Berlino per il dada fu il disegnatore e pittore Georg Grosz, crudo interprete della borghesia e dell’esercito tedeschi. Le sue caricature restano realistiche, ma partecipano dello spirito sovversivo dadaista. Anche i pittori Otto Dix, Rudolf Schlichter, e Georg Scholz fecero parte del movimento. A Colonia, dada nacque dall’amicizia tra i suoi due più puri geni plastici, Hans Arp e Max Ernst. Nell’aprile del 1920 proprio a Colonia venne realizzata una mostra scandalosa nella birreria Winter. Il pubblico rimase sconvolto e intervenne la polizia che sciolse brutalmente il movimento.
Man Ray, le violon d’Ingres
Il movimento Dada di Hannover si limita all’attività del solo Kurt Schwitters, a partire dal 1918. Schwitters abbandonò allora la pittura non figurativa per elaborare la sua tecnica originale, consistente nell’assemblare oggetti e scarti presi dalla vita di tutti i giorni. Schwitters del resto non aderì del tutto al dadaismo: assegnò al proprio movimento il nome di Merz e seguì un itinerario autonomo, giungendo a trasformare la propria casa in un assemblaggio gigantesco, il Merzbau.
Parigi
Domina il dadaismo di Parigi l’incontro tra avanguardie locali e artisti dei movimenti americani. L’impulso decisivo in particolare arrivò dal gruppo di artisti e intellettuali costituitosi intorno alla rivista Littérature, fondata dai futuri surrealisti. Il movimento parigino presto però si divise in due tendenze antagoniste: la prima, dominata da Tzara, restò fedele allo spirito di Zurigo. La seconda, guidata da Breton, con la sua esigenza di serietà e di metodo anticipò il surrealismo. L’esperienza dada anche a Parigi si concluderà nel 1922.
Tre opere a confronto: 1 Arp, 2 Picabia, 3 Duchamp
Dada nacque da un senso di disillusione conseguente alla prima guerra mondiale, al quale alcuni artisti reagirono con ironia, cinismo e nichilismo. La carneficina senza precedenti della guerra spinse i dadaisti a mettere in dubbio i valori della società che l’aveva originata, dimostrando come quei valori fossero falliti sul piano morale. Il dadaismo, mettendo in crisi e smentendo i concetti e i metodi tradizionali, aprì la strada ai successivi esperimenti artistici. In effetti lo spirito dei dadaisti non è mai scomparso del tutto ed è stato portato avanti, ad esempio, dalla pop art.
Jean Arp: 1 Pianta-martello (forme terrestri) / 2 Torse / 3 Testa e conchiglia / 4 Scarpa azzurra rovesciata con due tacchi sotto una volta nera.
Palazzo Venier dei Leoni a Venezia, sede della Collezione Peggy Guggenheim, ospita fino al 2 settembre 2019 la mostra La natura di Arp. Oltre 70 le opere selezionate dell’artista franco-tedesco Jean Arp ( 1886-1966). Tra sculture in gesso legno bronzo pietra collage disegni tessuti e libri illustrati. La rassegna è l’occasione per rileggere un autore che si è sentito a proprio agio fra le diverse definizioni che hanno voluto inquadrarlo: dadaista, surrealista, astratto. E che ha ripensato radicalmente le forme d’arte consolidate. Rendendolo uno dei creatori più influenti del 900. Fonte di ispirazione per diverse generazioni di artisti, tra i fondatori del movimento Dada, ha realizzato una serie di configurazioni che oscillano tra l’astrazione e la rappresentazione.
Nuove strategie creative
Profondamente colpito dalle distruzioni e dai massacri causati dalla Prima Guerra Mondiale, totale è il suo rifiuto ad ogni forma di militarismo e di nazionalismo, Arp aspira a modalità creative che riflettano i processi che nota nella natura: dalla pietra che si stacca dalla montagna, al fiore che sboccia, all’animale che si riproduce. I meccanismi che la natura mette in atto quindi. Che lo hanno influenzato nell’individuazione dei processi come fondamento delle sue opere. Il legame instaurato con la natura e il ruolo che questa ha avuto nell’opera di Jean Arp, è il tema che guida la mostra monografica a cura di Catherine Craft.
Alcune opere
Iniziamo con i rilievi: Pianta e martello del 1916 e Scarpa azzurra rovesciata con due tacchi sotto una volta nera del 1925. Sono invenzioni che spiazzano. Accostando elementi che non dovrebbero avere niente in comune. Per esempio, il martello e la pianta. Il cui senso slitta. Arp adottando plasticità elementari, quasi infantili, che sembrano dettate dal caso, le traduce in sculture rigorose e semplici. Eleganti e umoristiche. Ma senza cadere nella provocazione fine a sé stessa.
A partire dagli anni Trenta inizia a creare una serie di forme astratte che chiama Concrezioni. Prima scolpite nel gesso e poi fuse nel bronzo. Sono sculture che rimandano alla crescita, alla metamorfosi. Composizioni con qualcosa di imprevedibile. Che riecheggiano l’impulso generativo della natura. Dove scompaiono le tracce narrative, presenti in alcune realizzazioni precedenti. Come in Tre oggetti fastidiosi su un volto.
Testa e conchiglia del 1933 ha le stesse caratteristiche levigate rigonfie e tondeggianti delle Concrezioni. Anche se non siamo di fronte ad una creazione continua. Sia -fisicamente che concettualmente- l’opera è caratterizzata da due parti distinte. Torse, con le sue linee ondulate e sinuose, sintetizza gli elementi fondamentali del corpo umano. In particolare, quello femminile. Evocandone l’eterna seduzione.
La mostra
La natura di Arp, Palazzo Venier dei Leoni-Collezione Peggy Guggenheim, Venezia, fino al 2 settembre 2019.
Fausto Politino
Laureato in filosofia, iscritto all’ordine dei pubblicisti di venezia e già collaboratore del Mattino di Padova. Ora scrivo per la Tribuna di Treviso. Potete seguirmi anche su Twitter: PolitinoF.
Questo dipinto è opera di Leonardo da Vinci, pittore, ingegnere e scienziato, uomo d’ingegno e talento universale del rinascimento, nato a Vinci, piccolo paese vicino a Firenze, nel 1452. Leonardo si occupò di architettura e scultura, fu disegnatore, trattatista, scenografo, anatomista, musicista, progettista e inventore. Insomma uno dei geni più grandi che l’umanità abbia mai generato. Non sappiamo quale fosse la destinazione di questo dipinto, né chi fu il committente e ad oggi resta una delle creazioni più enigmatiche di Leonardo. L’opera non è finita e rappresenta San Girolamo, teologo romano, padre ed erudito della Chiesa. Curiose sono le vicende che il dipinto attraversò nel corso della storia: all’inizio dell’Ottocento troviamo l’opera citata nel testamento della pittrice svizzera Angelica Kauffmann.
Alla morte della Kauffmann se ne smarrirono ancora le tracce, finché fu trovato e comprato dallo zio di Napoleone, il Cardinal Joseph Fesch. La storia vuole che il cardinale trovò la tavola divisa in due. La parte inferiore era nella bottega di un rigattiere romano dove costituiva il coperchio di una cassetta, mentre la testa del santo si trovava dal suo calzolaio dove fungeva da piano per uno sgabello. In effetti l’opera di Leonardo è tagliata in cinque pezzi, ma non abbiamo la certezza che questo racconto sia veritiero. Ad ogni modo alla morte del cardinale il dipinto fu messo all’asta per essere infine acquistato da papa Pio IX per la Pinacoteca Vaticana.
San Girolamo viene rappresentato come eremita penitente nel deserto. È vestito con pochi stracci, nella mano destra tiene la pietra che usava per battersi il petto e con la mano sinistra compie un gesto di umiltà. Il viso del santo guarda in alto forse verso un crocifisso non dipinto. Come sfondo vediamo un paesaggio abbozzato che conferma l’interesse del pittore per lo studio dell’atmosfera e della natura. Nella parte destra, sotto un arco roccioso, sembra esserci lo schizzo della facciata di Santa Maria Novella, importante chiesa di Firenze, mentre ai piedi del santo c’è il fidato leone, ricorrente nelle immagini di Girolamo. Osservate la straordinaria resa anatomica che Leonardo usa per realizzare il corpo del santo. I muscoli asciutti ma scattanti, i tendini in vista, la testa scavata e ossuta. Abbiamo di fronte a noi una potente immagine di devozione e naturalismo.
Dieci opere d’arte tra alba e tramonto, due momenti della giornata magici che gli artisti hanno saputo rappresentare con grande maestria. Nuovo video della serie “10 momenti di …”, realizzato da Artesplorando con lo scopo di offrirvi dei punti di vista originali sull’arte.
Tra alba e tramonto. Due momenti della giornata affascinanti e magici per diversi motivi. Luce che sorge, luce che lentamente cede il passo all’oscurità. Spesso nel corso della storia dell’arte gli artisti hanno trovato ispirazione osservano il mutare del paesaggio in questi istanti. Oppure si sono divertiti con racconti mitologici legati ad Apollo e al suo carro che solca il cielo. Ad ogni modo anche in questo caso sarà un’esplorazione che va oltre i consueti recinti della storia dell’arte.
Troverai un breve commento alle seguenti muse: Joseph Mallord William Turner, la valorosa Temeraire, 1938-39 Claude Lorraine, porto al tramonto, 1643 Eugene Delacroix, studio del cielo al tramonto, 1849 Giorgione, il tramonto, 1506-10 Claude Monet, tramonto a Venezia, 1908 Vincent van Gogh, campo di grano con mietitore al sorgere del sole, 1889 Claude-Joseph Vernet, alba: pescatori in partenza, 1747 Claude Monet, impression: soleil levant, 1873 Caspar David Friedrich, alba vicino a Neubrandeburg, 1835 Charles de La Fosse, alba con il carro di Apollo, 1672
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Breve biografia della vita e delle opere di Filippo de Pisis, pittore e scrittore italiano. Uno tra i maggiori rappresentanti della pittura italiana della prima metà del Novecento. Nuovo video della serie artisti in 10 punti realizzato con lo scopo di farvi conoscere i protagonisti dell’arte. In questi brevi video avrete modo di conoscere in pochi minuti le caratteristiche principali, le curiosità e alcuni aspetti meno noti di molti artisti.
Pseudonimo di Filippo Tibertelli, Filippo de Pisis è stato un pittore e scrittore italiano. Cresciuto nell’ambiente colto della Ferrara dei primi del Novecento, ebbe una formazione da autodidatta. Il poeta Corrado Govoni lo introdusse nel mondo letterario e realizzò la prefazione del libro di poesie scritte da De Pisis: i canti della Croara. De Pisis aderì al futurismo con un atteggiamento velatamente ironico e una vocazione più spiccatamente metafisica. Si iscrisse alla Facoltà di Lettere a Bologna e dalla sorella venne introdotto allo studio di Nietzsche e della teosofia. Proprio in questi anni di formazione elaborò quell’idea di bellezza d’ascendenza greca, che andava ritrovando nelle figure maschili dei giovani popolani.
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De Pisis a Ferrara. Opere nelle collezioni del Museo d’Arte Moderna e Contemporanea Filippo de Pisis https://amzn.to/2VrdklQ Filippo De Pisis. Dipinti. 1916-1951 https://amzn.to/2DBmGBn
Non sappiamo con precisione quando o perché sono state create le prime opere d’arte e forse non lo sapremo mai. Inizialmente i nostri antenati costruirono armi per la caccia e solo in seguito, dopo l’80.000 a.C., si realizzarono collane, pitture rupestri e statuette. Se per arte intendiamo attività come la costruzione di templi e di case, non c’è popolo al mondo che non sia artista. Se, invece, intendiamo per arte qualcosa di raro e squisito di cui godere nei musei e nelle mostre, il discorso è diverso. Dobbiamo comprendere che questa accezione d’arte è stata introdotta solo di recente e che molti dei pittori, scultori, costruttori del passato agirono seguendo altri scopi. Spesso nel passato l’atteggiamento verso sculture, dipinti, costruzioni era lo stesso. Queste non venivano considerate opere d’arte, bensì creazioni con una determinata funzione.
Le Veneri
I primi manufatti preistorici che possiamo in un certo senso chiamare arte sono le cosiddette “Veneri”. Queste sculture figurative sono ricavate da roccia, argilla, osso o avorio e rappresentano corpi femminili nudi o poco vestiti con accentuati i caratteri sessuali. Seni molto pronunciati, fianchi enormi, genitali sproporzionati, sono tutti elementi caratteristici di queste statuette che inoltre sono spesso prive di mani, piedi e perfino dei volti. La più famosa statuetta di questo tipo è la Venere di Willendorf, realizzata in pietra calcarea, ritrovata in Austria nel 1908. Questa rappresentazione eccessiva di alcuni aspetti del corpo femminile fanno pensare a una personificazione della fertilità. Durante l’Era glaciale infatti avere forme abbondanti era sicuramente una rarità, quindi le rotondità di queste statuette costituivano un simbolo di speranza, di sopravvivenza e di abbondanza.
La Venere di Willendorf ha però un dettaglio che la distingue da tutte le altre: i capelli sono finemente intrecciati o decorati con perline o forse si tratta di un copricapo rituale. Talismani o amuleti, idoli religiosi, celebrazioni della sessualità femminile, arte erotica, ma anche bambole con una funzione educativa. Fin dalla preistoria, la rappresentazione del corpo umano fu comunque uno dei maggiori temi dell’arte. Gli archeologi continuano a interrogarsi sulla funzione di queste statuette che in effetti rimangono un mistero ancora tutto irrisolto. Ad ogni modo queste Veneri sono tra i più grandi capolavori artistici della preistoria.
Jan Vermeer, donna che legge una lettera davanti alla finestra
Johannes Vermeer (Delft 1632-1675), è uno dei più grandi pittori dell’arte olandese del 17° secolo. La luce, in un rapporto equilibrato con l’ombra, è il fattore fondamentale nell’impianto delle opere. Dove spesso richiama situazioni ispirate alla quotidianità. Marcel Proust definisce la sua Veduta di Delft, dipinta nel 1660, il più bel quadro del mondo.
Particolare con Cupido in alto
Il dipinto nel dipinto
In questo periodo Vermeer è al centro dell’attenzione. Esperti e appassionati della sua arte sono in all’erta. Il motivo è La donna che legge una lettera davanti ad una finestra aperta realizzata intorno al 1657. Uno dei 35 dipinti attribuiti all’artista. Oggi alla Gemälde Galerie di Dresda. Al centro del quadro c’è una giovanissima. Assorta. Concentrata mentre legge, sguardo basso, un foglio stropicciato che tiene tra le mani. Che cosa si potrebbe intravedere nella sua espressione. Sta sorridendo? È triste? È delusa, commossa? Il tavolo coperto da uno spesso tappeto, in parte scostato, in primo piano include una cesta di frutta raffigurata in bilico. Semirovesciata. Una tenda pesante tiene idealmente distante l’osservatore dalla scena. Il muro sullo sfondo è spoglio, anzi lo era.
Jan Vermeer, donna in piedi alla spinetta
Spunta Cupido
È venuto alla luce che la donna che sta leggendo, in realtà non è sola. La radiografia effettuata nel 1979 aveva già manifestato la presenza di un dipinto nel dipinto. Un’immagine inedita: Cupido, dio dell’amore, con gli immancabili arco e frecce. Si pensava che fosse stato lo stesso Vermeer a nasconderlo con uno strato di pittura. Si è invece scoperto che responsabile dell’azione sia qualcun altro, si vede dai colori della cancellazione, anni dopo la sua scomparsa. Anche se la sagoma mitologica è ancora parzialmente coperta, il restauro non è terminato, la Gemälde Galerie ha deciso di mettere in mostra il quadro fino al sedici giugno 2019. Gli interrogativi prima posti possono trovare una risposta. La presenza di Cupido, raffigurato anche nella Donna davanti alla spinetta databile 1672, National Gallery Londra, ci conferma che il tema sottostante il soggetto del quadro è l’amore.
Fausto Politino
Laureato in filosofia, iscritto all’ordine dei pubblicisti di venezia e già collaboratore del Mattino di Padova. Ora scrivo per la Tribuna di Treviso. Potete seguirmi anche su Twitter: PolitinoF.
Quest’opera ci narra una storia tratta dall’Antico Testamento. Sansone e Dalila. Sansone, l’eroe ebreo dalla forza prodigiosa, si innamorò di una giovane donna, Dalila. Questa venne corrotta dai Filistei, nemici di Sansone, per sedurlo e carpire il segreto dietro cui si celava questa sua grande potenza. La donna, interrogandolo senza insospettirlo, scoprì che la sua forza risiedeva tutta nei capelli che Sansone non aveva mai tagliato. E fu così che mentre l’uomo dormiva, forbici alla mano, gli venne rasato il capo. A quel punto, svuotato del suo vigore, venne finalmente catturato e imprigionato dai Filistei.
Rubens raffigura la scena in un interno, a lume di candela. I Filistei stanno aspettando alla porta con una fiaccola, uno di loro taglia i capelli a Sansone, mentre una donna anziana fa più luce con una candela. In una nicchia dietro ai personaggi c’è una statua raffigurante la dea dell’amore Venere con Cupido. Un riferimento alla causa che portò alla prigionia e alla morte Sansone? Il dipinto fu commissionato da Nicolaas Rockox, assessore di Anversa, in Belgio, per la sua casa di città tra il 1609 e il 1610. In esso è evidente l’influenza degli antichi, ma anche di artisti del calibro di Michelangelo e Caravaggio.
Un’opera sensuale ed erotica
Questa grande tavola rientra in quel genere di opere che stuzzicano il nostro interesse con quel misto di terrore per quello che sta accadendo e sollievo per non essere nei panni di qualcun altro. Il pittore infatti coglie il momento prima della cattura di Sansone. L’uomo è abbandonato al sonno con il possente braccio inerte, la testa appoggiata sul grembo di Dalila. Lei appoggia una mano sulla schiena muscolosa dell’eroe, quasi a volerlo tranquillizzare, ma sta facendo solo il suo interesse, per incassare la ricompensa.
L’opera ha un che di sensuale e di erotico che traspare dal corpo disteso dell’eroe, da quello di Dalila col seno scoperto, ma anche dai drappi che circondano la scena, tutti realizzati con colori caldi e avvolgenti. Il viola della tenda, l’oro e l’amaranto della veste di Dalila, il marrone della pelliccia che cala dal torso di Sansone. Il dipinto era destinato a essere esposto in un’abitazione privata, sopra a un camino e questi colori ricchi e caldi sembrano fatti apposta per essere illuminati dalle fiamme di un focolare. Sansone e Dalila racchiudono passione, tradimento, suspense e violenza. Tutti gli ingredienti che oggi spesso troviamo nelle serie tv o nei film di successo.
L‘audioquadro è un nuovo modo per conoscere i più grandi capolavori della storia dell’arte. In maniera semplice e in pochi minuti. Qui vi parlerò di incubo di Johann Heinrich Fussli. Un’opera in grado di raccontarci chi è questo artista e qual è il suo modo di fare arte.
Johann Heinrich Fussli, secondogenito dello scrittore e ritrattista Johann Caspar, lesse fin da giovanissimo i testi di Johann Jakob Bodmer, che gli fecero conoscere le grandi figure della letteratura mondiale, destinate a costituire la principale fonte della sua ispirazione. Educato nella religiosità protestante di indirizzo zwingliano, nel 1761 prese i voti. Ma due anni dopo lasciò Zurigo per motivi politici e si trasferì a Berlino e poi a Londra, sua patria d’elezione. Inizialmente dedicatosi alla scrittura, che per qualche tempo fu la sua fonte primaria di sostentamento, cominciò ben presto a illustrare le opere dei suoi talenti preferiti, tra cui soprattutto Shakespeare.
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L‘audioquadro è un nuovo modo per conoscere i più grandi capolavori della storia dell’arte. In maniera semplice e in pochi minuti. Qui vi parlerò di la barca di Dante di Eugene Delacroix. Un’opera in grado di raccontarci chi è questo artista e qual è il suo modo di fare arte.
Il primo capolavoro dell’artista e opera fondamentale del Romanticismo la vedete qui, La barca di Dante, che presenta già delle innovazioni tecniche che caratterizzarono tutto il suo percorso. Le figure possenti, il cromatismo acceso e l’espressione di una profonda sofferenza interiore. Delacorix intendeva sicuramente colpire il pubblico della mostra del Salon parigino. Nei canoni imposti dall’Accademia, il grande formato della tela era destinato ai soggetti storici ma, in questo caso, il pittore si ispira alla Divina Commedia di Dante Alighieri.
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Fin dalla preistoria gli uomini hanno sepolto i morti in luoghi speciali. Luoghi che erano riservati proprio a questo scopo. Spesso i corpi sono ritrovati dagli archeologi insieme a corredi funebri di vario tipo, il che ci fa pensare che ci fosse una cerimonia e che gli oggetti servissero ad accompagnare il defunto nell’aldilà. A partire dal 10.000 a.C. le necropoli dov’erano custodite queste tombe divennero via via più sofisticate, delimitate da grossi massi, ma anche da strutture in pietra. In questi luoghi è normale ritrovare gioielli, oggetti ornamentali, armi e altri prodotti, sepolti con i morti. Più un defunto era importante è più ricco era il corredo che lo accompagnava nella tomba. Con l’emergere dei primi sovrani, nobili e capi militari, vennero realizzate tombe sempre più sontuose. Fu con i regni dell’antico Egitto che l’arte funeraria si espresse per la prima volta in tutto il suo splendore.
Il 3.000 a.C. segna l’inizio della tradizione di seppellire i faraoni e i loro familiari in complessi tombali sempre più ricchi. Parallelamente si sviluppò l’arte egizia che mostrava sempre una funzione rituale, spesso associata al defunto. Un aspetto fondamentale delle tombe egizie era la realizzazione di una statua del morto, solitamente in posizione seduta, da mettere insieme al corpo all’interno della tomba. Queste statue secondo gli antichi egizi erano il luogo di riposo eterno dell’anima o forza vitale del defunto. Tra gli esempi più straordinari di queste opere occupano un posto importante Rahotep e Nofret, forse non molto conosciuti dal grande pubblico.
Quando nel 1871 le statue di questo principe e di sua moglie furono scoperte, a sud del Cairo, gli operai si spaventarono a tal punto che fuggirono terrorizzati. Questo perché realizzate in maniera estremamente realistica con addirittura gli occhi in quarzo azzurro levigato. Scolpite nella pietra calcarea e dipinte, le due statue a grandezza naturale mostrano i due defunti seduti su sedili dallo schienale alto. La posa è formale, con un braccio piegato sul petto. Rahotep ha i capelli neri corti e porta dei sottili baffi. Indossa un kilt corto bianco e al collo ha una collana con amuleto a forma di cuore. La moglie Nofret indossa un abito lungo fino alle caviglie e una splendida collana dai colori sgargianti. La parrucca lunga fino alle spalle è tenuta ferma da un diadema con motivi floreali.
Nonostante tutti questi dettagli, queste statue non volevano essere ritratti fedeli e l’identità era chiarita dai geroglifici posti sugli schienali. Chiaramente questo è solo un esempio, ma le sculture e le sepolture reali egizie erano opere enormi e grandiose. Pensiamo alla magnifica necropoli di Giza con le piramidi dei faraoni Cheope, Chefren e Micerino, insieme alla celebre Sfinge dedicata a Chefren. Oppure pensiamo ai templi rupestri di Ramses II ad Abu Simbel, ma anche alla ricchissima tomba di Tutankhamon nella Valle dei Re di Tebe. La ricchezza dell’arte funeraria egizia finì dopo il 3.000 a.C., quando l’influenza degli imperi greco e romano si diffuse in tutto il Mediterraneo. Corredi ricchissimi, statue, sarcofagi, dipinti alle pareti… sono moltissime le espressioni artistiche che rendono l’arte funeraria egizia forse la più bella e complessa della storia dell’umanità.
Continua l’esplorazione …
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C.C.
Questo post si avvale di contributi bibliografici vari che potete consultare qui
Come per la maggior parte del lavoro di Vermeer, il dipinto che vedete qui, Donna in piedi alla spinetta, non è datato, anche se lo stile con cui è realizzato indica un lavoro relativamente tardo. Questa tela può essere accostata a un’altra di Vermeer sempre conservata nella National Gallery: Giovane donna seduta a una spinetta, probabilmente dello stesso periodo. Protagonista del dipinto è una donna illuminata dolcemente dalla luce che entra dalla finestra alle sue spalle. Ha i capelli raccolti in un chignon che lascia ricadere dei riccioli sulla fronte. Veste un corsetto azzurro decorato con nappe che discendono sulle maniche dell’abito di raso giallo, abbellito da nastrini e perline.
La protagonista sta suonando una spinetta o “virginale”. Si tratta di uno strumento musicale con tastiera, simile al clavicembalo, in cui le corde vengono pizzicate per produrre il suono, e non martellate, come avviene ad esempio nel pianoforte. A differenza del clavicembalo aveva dimensioni ridotte e divenne molto popolare perché facilmente collocabile anche in piccole stanze. Venne infatti chiamato “virginale” proprio perché spesso veniva suonato da giovani donne all’interno delle mura domestiche e mai in concerto. Colpisce lo sguardo che la donna rivolge all’artista, a un amico, a noi, quasi come per invitarci a occupare un posto accanto a lei, sulla sedia foderata di velluto azzurro.
L’ambiente in cui ci trasporta l’opera è una casa olandese, di una famiglia benestante, con quadri alle pareti, un pavimento rivestito in marmo e un battiscopa con piastrelle bianche e blu, tipiche della produzione della città di Delft in Olanda. Il piccolo paesaggio a sinistra e il dipinto che decora il coperchio della spinetta assomigliano a opere di un collega di Vermeer, Pieter Groenewegen. Il secondo quadro, attribuito a Cesar van Everdingen, mostra Cupido con in mano una carta. Quest’opera ha un significato simbolico e si può riferire al concetto di fiducia nell’amore oppure, in combinazione con la spinetta, al tradizionale binomio di musica e amore. La carta, in particolare, è da intendere come la fedeltà di un sentimento rivolto a una sola persona. Non a caso diversi amorini li ritroviamo anche come decorazione del battiscopa.
È straordinaria la capacità che questo artista ha nel rendere diversi materiali cambiando il tocco della pennellata. Guardate ad esempio le perle della collana realizzate con semplici punti di bianco o la manica ottenuta con strati di colore denso. È il virtuosismo che distingue un maestro da un semplice pittore.
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Giorgio Morandi, natura morta con oggetti in viola
Le nature morte i paesaggi i fiori e le incisioni di Giorgio Morandi sono in mostra a Firenze al Museo Novecento fino al 27 giugno 2109. La rassegna si articola in una trentina di opere realizzate tra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta del 900. A 55 anni dalla sua scomparsa. L’artista infatti muore a Bologna nella sua casa di via Fondazza nel 1964. In quell’occasione Roberto Longhi, il grande storico dell’arte che ne comprese l’assoluto valore in un rapporto di reciproca ammirazione durato trent’anni, scrive: “Non vi saranno altri nuovi dipinti di Morandi: questo è, per me, il pensiero più straziante”. Dai ricordi legati al loro lungo frequentarsi, Longhi ci mette al corrente di pittori che hanno contribuito alla formazione di Morandi tramite la profonda conoscenza che ne aveva: Giotto, Masaccio, Piero, Bellini, Tiziano, Chardin, Corot, Renoir, Cézanne.
Da notare che la lista non comprende i nomi di Botticelli, Pollaiolo, Michelangelo. Forse perché, chiarisce Longhi, si metteva sulla difensiva “dovunque vedeva pungere anche un sospetto di eloquenza, di turgidezza, di agitazione, di retorica della violenza fisica, della forza, del titanico”. Un retroterra iconico/culturale di tutto rispetto che dà l’idea di quale fosse il fondamento della favola volgarepittore delle bottiglie, come lo definiva la critica a lui contemporanea. Che non aveva intuito la portata universale della sua ricerca.
Giorgio Morandi, natura morta
La complessità del linguaggio visivo
Il linguaggio visivo di Morandi è raffinato e complesso. Scandito da vasi scatole barattoli. E poi le bottiglie, vuote e polverose. Decontestualizzate. Estraniate dal loro uso. Le bottiglie restano tali. Ma neutralizzate. Il loro significato come utensile viene sospeso. Ciò che le rende uniche sono le relazioni cromatiche luminose plastiche. Il disporsi controllato nello spazio. La sospensione metafisica. L’infinita varietà degli schemi delle nature morte. Ma soprattutto sono figure senza figura. Oggetti che non hanno oggettualità, contrariamente al cubismo analitico che nelle sue scomposizioni mantiene i referenti fissi, storici o naturali, in quanto si presentano come forme, simulacri che racchiudono l’interiorità dell’artista. Siamo di fronte alla mimesi e alla sua negazione. Ciò che consente a Morandi, lo ha fatto notare Longhi, di attestarsi con i suoi oggetti “al di qua delle secche dell’astrattismo”.
Alcune opere
In Natura morta con oggetti in viola del 1937 con i volumi che tendono verso l’alto, Longhi vi legge un intenso tracce che richiamano Piero della Francesca. Nelle forme cubiche e nella bottiglia del 1954, Morandi si è costruito i solidi geometrici oggetto della tela. I toni crema, fangosi, azzurro cenere, i viola polverosi, “si situano ben al di sotto degli strati connessi con la pura e semplice percezione”. Hanno a che fare “con zone e con falde della coscienza” (Stefano Agosti: Il testo visivo, Christian Marinotti edizioni, 2006).
La mostra
Exit Morandi, Museo Novecento, Firenze, fino al 27 giugno 2109.
Fausto Politino
Laureato in filosofia, iscritto all’ordine dei pubblicisti di venezia e già collaboratore del Mattino di Padova. Ora scrivo per la Tribuna di Treviso. Potete seguirmi anche su Twitter: PolitinoF.
Pittore e disegnatore francese, Georges Seurat è stato fondatore ed esponente di spicco del neoimpressionismo. Figlio di genitori agiati, non dovette mai preoccuparsi di guadagnare da vivere e proseguì la sua ricerca artistica senza pensare ad altro. La formazione artistica di Seurat seguì i canoni dell’insegnamento tradizionale e il pittore dopo essersi esercitato nel disegno con copie da dipinti, calchi e illustrazioni, s’iscrisse nel 1877 all’Ecole des beaux-arts. Sin dal 1877 affittò uno studio con Aman-Jean, conosciuto alla scuola municipale di disegno. I suoi studi però vennero interrotti dal servizio militare nel 1879. Nel maggio 1879 Seurat e Aman visitarono la IV Esposizione impressionista, restandone colpiti in maniera inattesa e profonda. All’Ecole des beaux-arts Seurat rivolse inoltre il proprio interesse a Piero della Francesca e alle opere antiche e dei grandi maestri classici.
Georges Seurat, i bagnanti ad Asnières
Dopo il servizio militare l’artista ritornò a Parigi nel 1880 e per i successivi anni si dedicò al disegno. In effetti era un fantastico disegnatore, tanto che il disegno, inteso sia come schizzo preliminare sia come lavoro compiuto, ebbe sempre un ruolo importantissimo nel suo lavoro. Lavorava con aree tonali estese e vellutate e usava il pastello su carta a grana grossa. Avido lettore, Seurat frequentò assiduamente le biblioteche parigine studiandovi incisioni e riproduzioni e i trattati di pittura, di estetica e di scienza. Si diede l’obiettivo di stabilire un sistema razionale per raggiungere quel tipo di effetto di colore vibrante che gli impressionisti avevano raggiunto istintivamente.
Georges Seurat, Domenica pomeriggio all’isola della Grande Jatte
Il metodo di Seurat
Il metodo che ideò era quello di collocare sulla tela piccoli tocchi di colore puro producendo un effetto di grande luminosità. Il critico Felix Feneon coniò il termine pointillisme in riferimento a questa tecnica pittorica che si avvale di una miriade di punti di colore. Anche se Seurat preferiva il termine divisionismo.
Il primo dipinto di grandi dimensioni di Seurat, Bagnanti ad Asnieres, mostra chiaramente l’applicazione delle sue teorie del colore. Fu respinto al Salon ufficiale, ma esposto al Salon des Refuses. L’opera sorella, Domenica pomeriggio all’isola della Grande Jatte, probabilmente il suo quadro più famoso, fu esposto alla settima mostra degli impressionisti.
Gerorges Seurat veniva spesso annoverato tra i simbolisti, anche se questi ultimi più tardi se ne dissociarono. Ma in realtà Seurat era un solitario, schivo e sempre al lavoro nel proprio atelier. L’artista era talmente dedito al lavoro e se ne stava così appartato che fino alla sua morte poche persone sapevano dell’esistenza della moglie e di un figlio. La moglie, Madeleine Knobloch, è rappresentata nel dipinto Donna che si incipria, realizzato nel 1890. Verso gli ultimi anni di vita, Seurat si dedicò a dipingere marine e soggetti di intrattenimento con un interesse particolare verso la danza e il circo che fu il soggetto del suo ultimo dipinto.
Georges Seurat, il circo
La morte improvvisa
Presentato al Salon des Indépendants nel 1891, il circo non era compiuto né verrà mai finito. Qualche giorno dopo l’apertura della mostra una malattia fulminante, probabilmente meningite, portò Seurat alla morte a soli 31 anni e la scomparsa dell’artista fu molto sentita nel mondo artistico. Il lavoro di Seurat fu molto influente ma i suoi allievi non mostrarono la stessa ispirazione. Per l’abilità di composizione l’artista si colloca al di sopra dei suoi seguaci ma anche di tutti i pittori del tempo. Pianificava le sue opere con straordinaria cura e per questo motivo non hanno niente dell’istante che passa, tipico dell’impressionismo. Sono il frutto di una ricerca scientifica dell’armonia.
Continua l’esplorazione!
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Breve biografia della vita e delle opere di Paolo Veronese, artista che celebrò i fasti e le ricchezze di Venezia. Uno tra i maggiori rappresentanti della pittura italiana del Cinquecento. Nuovo video della serie artisti in 10 punti realizzato con lo scopo di farvi conoscere i protagonisti dell’arte. In questi brevi video avrete modo di conoscere in pochi minuti le caratteristiche principali, le curiosità e alcuni aspetti meno noti di molti artisti.
Autore di grandiose decorazioni per i più bei palazzi veneziani e non solo, Paolo Veronese è considerato uno dei tre grandi pittori veneti insieme a Tiziano e Tintoretto. Deve il suo soprannome alla sua città di origine, Verona, perché il suo vero nome era Paolo Caliari. Figlio di un tagliapietra, Veronese si forma nella città natale, nella bottega di Antonio Badile, dove ha come compagno Giovan Battista Zelotti, maggiore di due anni. Gli anni di studio trascorsi a Verona sono determinanti per la formazione dello stile originale di Veronese.
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L‘audioquadro è un nuovo modo per conoscere i più grandi capolavori della storia dell’arte. In maniera semplice e in pochi minuti. Qui vi parlerò di la cattedrale di Salisbury di John Constable. Un’opera in grado di raccontarci chi è questo artista e qual è il suo modo di fare arte.
L’opera che qui vi mostro venne realizzata nel 1828, su incarico del vescovo di Salisbury, amico di Constable, che decise anche il taglio prospettico con cui doveva essere ritratta la cattedrale. L’alto prelato è rappresentato a sinistra, in primo piano, mentre passeggia con la moglie e le indica l’edificio sacro. Alle pareti e all’alto campanile della chiesa gotica, che risplende nel sole evidenziando la filigrana della pietra, si contrappone la cornice morbida dei grandi alberi. Qui la casa di Dio diventa un simbolo della storia della nazione e dell’ordine armonioso di tutte le cose. L’efficacia romantica è accentuata dal fatto che in Inghilterra le cattedrali sorgevano spesso fuori dai centri delle città ed erano circondate da grandi spazi di campagna.
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Le Artesplorazioni sono una serie di video che vi guideranno tra i movimenti e i temi della storia dell’arte, rispondendo alle 5 domande: cosa, chi, dove, quando e perché. Oggi parliamo di … colonia di Abramstevo!
Questo è il nome con cui si designa un gruppo di artisti russi legati alla proprietà terriera del mecenate Savva Mamontov. Mamontov, che fece fortuna costruendo ferrovie, acquistò il terreno ad Abramstevo per dare ospitalità ad artisti di fama, alcuni dei quali si fermarono per molti mesi, durante l’estate. Un luogo in cui godere degli stimoli del paesaggio circostante e della compagnia di artisti e letterati. Uno di essi, Viktor Vasnecov, disse di Mamontov: “c’era in lui una sorta di corrente elettrica che accendeva l’energia delle altre persone. Dio gli donò lo speciale talento di stimolare la creatività negli altri”.
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Può sembrare alquanto inusuale trovare in un grande museo come la National Gallery un dipinto raffigurante un cavallo. Ma quando l’opera è tanto straordinaria e il cavallo in questione una vera e propria leggenda, la cosa non risulta poi così strana.
Questo splendido destriero infatti è il discendente di uno dei tre cavalli arabi fatti giungere in Gran Bretagna per creare un allevamento di purosangue. Whistlejacket venne alla luce nel 1749 e non fu certamente un cavallo comune. Il nome forse deriva da una bevanda a base di gin e melassa chiamata appunto Whistlejacket che presenta un forte colore scuro che in effetti può richiamare al manto del cavallo.
La sua impresa più famosa fu la vittoria conseguita nell’agosto del 1759 in una corsa su quattro miglia ottenuta nei confronti del favorito Brutus. Vittoria che fece guadagnare ben 2000 ghinee al suo proprietario, il secondo marchese di Rockingham.
Il marchese era un grande mecenate e sostenitore di Stubbs, così chiese all’artista di realizzare un grandioso ritratto del suo Whistlejacket. Secondo alcuni autori del periodo l’intenzione originaria era quella di commissionare un ritratto equestre di Giorgio III, ma è più probabile che Stubbs abbia voluto mostrare solo il cavallo in tutta la sua bellezza.
Uno splendido ritratto, frutto di un grande studio
Lo splendido purosangue è colto mentre si impenna sulle zampe posteriori, pronto a lanciarsi al galoppo. Realizzato in tutta la sua monumentalità, a grandezza naturale e messo in risalto da uno sfondo neutro. L’artista si applicò per anni allo studio dell’anatomia equina e qui ne vediamo il risultato. Ogni piccolo dettaglio, dalla muscolatura, al manto, alle vene, alla coda e alla criniera, concorre per restituirci un’immagine di maestosa vitalità. Pensate che l’artista, aiutato dalla sua compagna Mary Spencer, mummificò molti animali morti, appendendo i loro corpi al soffitto e sostituendo gradualmente i liquidi corporei con grasso animale caldo. Questo processo permetteva alle membra di solidificarsi senza decomporsi. A questo punto Stubbs procedeva a separare e dissezionare tessuti, muscoli e organi, raffigurando tutto in accurati disegni che furono poi utilizzati da altri artisti e persino da veterinari.
Grazie a questo minuzioso studio il pittore sapeva bene come realizzare certi particolari che conferissero al cavallo un aspetto vitale. Dalle narici allargate, alle orecchie curve, al corpo possente, all’occhio eccitato e luccicante. L’assenza poi di qualsiasi bardatura suggerisce che la natura è solo apparentemente dominabile dall’uomo e che è sempre destinata a trionfare.
Safet Zec è nato nel 1943 a Rogatica, in Bosnia Erzegovina. Ha conosciuto lo sradicamento. La fuga dalla sua terra devastata dalla guerra civile negli anni Novanta. L’ottusa atrocità di quei due ragazzi, Admira e Boško, massacrati dai cecchini nell’assedio di Sarajevo del 1993. Non furono seppelliti per sette giorni e sette notti, perché lui era cristiano e lei musulmana. Oggi Zec vive a Venezia. Una serie di opere può essere vista fino al 31 ottobre 2019 nella chiesa veneziana di Santa Maria della Pietà.
In lui convivono la tensione civile, la condizione alienante del rifugiato. L’urlo incredulo contro ogni forma di violenza e la ricerca artistica di chi ha saputo guardare Michelangelo, Vermeer, Caravaggio, Tintoretto, Goya, Rembrandt, Francis Bacon e Lucien Freud. Di chi ha saputo riflettere sulla loro pittura, impossessandosi delle loro tecniche che gli hanno consentito l’originale impaginazione prospettica e compositiva dei dipinti che la critica più attenta gli riconosce.
Un impatto narrativo immediato
Il retroterra iconico, che sostiene le sue immagini strazianti, coinvolgenti, dirette, disperate, spasmodiche, consente all’osservatore quel residuo di controllo razionale, di distanza emotiva, per riflettere sull’umanità ferita nel profondo senza lasciarsi frantumare dall’emozione. La pittura di Zec ha un impatto narrativo immediato. Non ci sono schermate simboliche che chiedono impegnativi scavi interpretativi. Sono immagini che agiscono in profondità, nell’intimo dell’essere. Se ci sono simboli, sono d’immediata lettura Chi ha vissuto sulla propria pelle l’assurda violenza dell’uomo sul proprio simile. Di chi demonizza e disumanizza l’altro, non ricorre alle sovrastrutture concettuali qualche volta fine e a stesse. La sofferenza, quella vera, quella degli ultimi che hanno visto l’orrore in faccia, non chiede di essere rappresentata come fosse un’illustrazione. Ma di essere condivisa. Di essere oggetto di com-passione.
Safet Zec, mani per il pane
Soffermiamoci a guardare il quadro mani per il pane. E come ricevere un pugno nello stomaco. Magari qualcuno vi può leggere una certa enfasi. Nell’accentuata gestualità. Ma il messaggio arriva diretto. Coi i dorsi e le palme di quelle mani agonizzanti che si affastellano protese verso l’alto. Nell’attesa del sostentamento che sta per arrivare. Quel pane spezzato striato di sangue che dovrebbe garantire la salvezza. E non solo quella fisica.
La mostra
Safet Zec, chiesa di Santa Maria della Pietà, Venezia, fino al 31 ottobre 2019.
Fausto Politino
Laureato in filosofia, iscritto all’ordine dei pubblicisti di venezia e già collaboratore del Mattino di Padova. Ora scrivo per la Tribuna di Treviso. Potete seguirmi anche su Twitter: PolitinoF.