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Quando il fumetto si fece in sette per i suoi lettori

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Maurice Languereau, Bécassine
Riprendiamo oggi la rubrica #IconaFumetto che ripercorre per voi la storia di questa forma d'arte, tra illustrazione e cinema.
Siamo sempre ai primi del Novecento, ma dall'America, in cui abbiamo visto che il fumetto conobbe un ascesa vertiginosa, ci spostiamo nel Vecchio Continente. In Europa i racconti per immagini mantennero le caratteristiche ottocentesche con i testi ancora a bordo vignetta e in rima. La società Europea, più tradizionale, ancora non conobbe l'accelerazione americana del mercato e dei gusti del pubblico. Ma sarà sempre dall'America che arriveranno nuove idee per lo sviluppo e la diffusione dei fumetti.

Una di queste, la più rivoluzionaria, fu quella di inserire i Comics all'interno dei quotidiani tutti i giorni, e non più solo la domenica. Tuttavia, in cerca di una collocazione all'interno del normale fascicolo feriale, i racconti per immagini non potevano portar via troppo spazio alle notizie, né potevano ricorrere ai colori. Per ovviare a questo problema nacquero accanto alla "tavola domenicale", la più piccola "striscia giornaliera". Una piccola rivoluzione che, diffusasi anche in Europa, moltiplicherà per sette la frequenza di rapporto tra lettori e fumetti il cui linguaggio si farà più colloquiale e confidenziale: si tratteranno temi quotidiani e familiari gettando le basi per le storie umoristiche e avventurose.

Louis Forton, Les Pieds Nickelés
Nel 1905 Maurice Languereau, editore del periodico francese "La Semaine de Suzette", scrive con lo pseudonimo di Caumery il primo episodio delle vicende di Annaik Labornez, soprannominata Bécassine (sciocca come una beccaccia), ingenua servetta di un villaggio bretone. Le sue storie sono a quadretti ma senza nuvolette, con il testo disposto al piede di ogni vignetta.
Passiamo poi ai tre inseparabili furfanti Croquignol, Filochard e Ribouldingue, ai margini della società civile di cui sono antagonisti, protagonisti di Les Pieds Nickelés. Vivendo di piccoli e medi imbrogli sono dei veri e propri fannulloni che non voglio darsi da fare. I tre personaggi nacquero nel 1908 dall'idea di Louis Forton sulle pagine del settimanale francese "L'Epatant".

Attilio Mussino, Bilbolbul
Invece in Italia il primo periodico che pubblicò storie a disegni fu il "Corriere dei Piccoli", supplemento domenicale illustrato del "Corriere della Sera". A partire dal primo numero uscito il 27 dicembre 1908, ospitò sulle sue pagine, tra gli altri, Bilbolbul, curiosa invenzione dell'illustratore Attilio Mussino. Si tratta di un negretto che mette in pratica tutte le metafore utilizzate nei modi di dire: se diventa "rosso per la vergogna" cambia realmente colore e così via se "si fa in quattro", o "mette le ali ai piedi", o "gli cadono le braccia".

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In America, la prima striscia giornaliera esordisce nel 1907 sul "San Francisco Chronicole". Mutt and Jeff di Bud Fisher sono le avventure comiche di uno spilungone, scommettitore e imbroglione (Mutt) che incontra spesso un piccoletto (Jeff) con cui comincerà a far coppia fissa in un classico duo da articolo "il".
Una serie domenicale invece che tenta di introdurre della divertita critica sociale è The Newlyweds in cui George McManus mette in scena le movimentate vicende di una coppia di sposi newyorkesi alle prese con i capricci del loro figlioletto, viziandolo in tutti i modi pur di tenerlo buono.


Un altro autore importante per la storia dei Comics, ma forse poco noto è Charles William Kahles che realizza Clumsy Claude tra il 1906 e il 1912, una serie di cadute rovinose, goffaggini distruttive e maldestre azioni del simpatico Claude. Ma il personaggio più longevo di questo autore è Hairbreadth Harry, nato nel 1906 e portato avanti fino al '31. Sono il racconto delle peripezie del bel giovanotto, generoso difensore di vedove e orfanelle, che però introduce all'interno dei fumetti un elemento nuovo: la suspense. L'autore infatti lascia i lettori con il fiato sospeso da una domenica a l'altra. Negli anni Venti divenne protagonista di ben sei film.

Continua l'esplorazione ...

Se vuoi scoprire tutta la storia del fumetto segui l'etichetta #iconafumetto

Fonti: Gulp!100 anni a fumetti, a cura di Ferruccio Giromini, Marilù Martelli, Elisa Pavesi, Lorenzo Vitalone, Electa, Milano, 1996

Intervista a Frida, curatrice del blog Scoria dell'arte

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Riprendo la rubrica "c'è arte nella blogosfera" per la seconda volta nel giro di poco tempo, perché recentemente mi sono imbattuto in nuovi blog che credo dobbiate conoscere meglio. Oggi è il turno di Frida, una giovane donna che dopo una laurea e lo scontro con la realtà lavorativa nel campo dei beni culturali, ha deciso di aprire un blog molto, molto originale.
Vorrei che per cominciare ti presentassi, chi sei, quali studi fai o hai fatto, quando e perchè hai iniziato a scrivere il blog, e qual è lo scopo, la missione, il fine che ti sei prefissata diventando blogger.

Un saluto a tutti i lettori di Artesplorando! Mi presento a voi e al web come Frida L. V. Vargas, pseudonimo che racchiude alcune delle mie passioni: l’arte di Frida Kahlo, la musica di Chavela Vargas e la cultura messicana. Nata e cresciuta a Napoli tra colori, pennelli e odore di trementina, dopo il diploma artistico ho approfondito la mia passione per la Storia dell’arte con un percorso di studio in Conservazione dei Beni Culturali iniziato presso l’Università di Urbino e conclusosi con il conseguimento del diploma di laurea presso l’Università di Napoli. Alla fine del 2015, raggiunta la  35° primavera ed una profonda disillusione verso le istituzioni moderne, ho cominciato a riflettere sull’apertura di un blog inteso come spazio in cui (senza prendersi troppo sul serio) trattare, attraverso la satira e l’ironia, di personaggi politici, celebrità, vizi e malcostume del mondo moderno, senza però abbandonare la passione per i capolavori della pittura. Nascono così, nel febbraio 2016, le prime foto-manipolazioni dei dipinti di Scoria dell’Arte: un blog che abbraccia trasversalmente l’arte per soffermarsi sulle “scorie” della società contemporanea ma anche su eventi e personaggi che rendono “digeribile” questo mondo. Se consideriamo il vero significato del termine blog, mi sentirei di affermare che Scoria dell’Arte se ne distanzia un po’ poiché si basa su una forma di comunicazione principalmente visiva e, solo in secondo luogo, testuale. Per tale ragione non mi definirei una vera blogger, quanto piuttosto una “manipolatrice d’immagini” che si diletta nel web.

Qual è il tuo rapporto, il tuo approccio con il luogo per eccellenza che custodisce le opere d'arte, cioè il museo: sei più da "turistodromo" o preferisci piccoli musei poco frequentati e quale ti sentiresti di consigliare ai lettori di Artesplorando.

Generalmente non faccio distinzioni tra piccoli e grandi musei: laddove la natura delle collezioni incontra i miei gusti e la capacità di fornire il servizio (che ne costituisce poi la vera finalità museale) soddisfa le aspettative, non posso dire di preferire l’uno all’altro. Certo, ammirare le prestigiose collezioni custodite nelle più grandi istituzioni museali, dai Musei Vaticani al Louvre di Parigi, è un richiamo a cui sono in molti a rispondere (compresa la sottoscritta) affrontando stoicamente quelle file interminabili che inevitabilmente si vengono a creare. Ma anche la visita di un piccolo museo, poco frequentato perché spesso al di fuori dei classici canali di promozione, può rivelarsi un’esperienza straordinariamente sorprendente proprio perché non ci si aspetta di trovare altrettanta eccellenza artistica… e l’Italia è sicuramente la Terra dei piccoli musei che non ti aspetti! 

Che rapporto hai con le mostre? oggi spesso diventano eventi mediatici molto pubblicizzati, ma alla fine di poca sostanza. Quali sono le mostre che preferisci e se vuoi fai un esempio di una in particolare che ti ha colpito.

Se parliamo di arte contemporanea, (quella del XXI secolo per intenderci) allora non posso definirmi un’assidua frequentatrice di mostre. Sarò sincera, e forse anche un po’ all’antica, ma non credo che tutto ciò che oggi ci viene proposto sia realmente riconducibile al concetto di arte. Quest’ultimo, per quanto soggettivo, vago e mutevole possa essere, credo che affondi ancora le sue radici in un sistema valoriale non solo prettamente estetico. 
Insomma, non condivido alcune forme di espressione artistica ideate nella società contemporanea per essere fruite con le modalità e con i tempi tipici della società contemporanea.
Ma d’altronde, non sempre ciò che oggi siamo abituati a definire arte in passato era considerato tale e, ovviamente, per la formulazione di un giudizio alla mostra bisogna andarci! 



Se fossi il ministro dei Beni Culturali e il Presidente del Consiglio ti desse carta bianca, quale sarebbe il tuo primo provvedimento?

Impossibile: non ho le competenze e non vorrei mai appartenere alla “Casta”! Ma ammettiamo per assurdo che lo fossi, probabilmente tra le prime cose a cui lavorerei ci sarebbe una seria regolamentazione sull’impiego di volontari nel settore dei beni culturali.
Troppo spesso ormai si affida al lavoro gratuito compiti ed attività proprie di professionisti del settore ai quali, nel frattempo, si richiede una formazione che, tra corso di laurea, specializzazioni, dottorati e chi più ne ha più ne metta, spesso risulta impegnativa anche in termini economici e non sempre poi si rivela essere un investimento per il futuro! Non credo che alla base ci sia solo un problema di risorse, quanto piuttosto una mancanza di volontà e la perdurante “visione limitata” che l’arte, dopotutto, non sia poi così prioritaria…
Ma mentre cercherei di risolvere l’annosa questione del lavoro gratuito nei beni culturali, in Senato e Parlamento già avrebbero approvato una mozione di sfiducia ai miei danni, quindi passiamo alla prossima domanda…

Cosa proporresti di leggere a una persona che si avvicini per la prima volta alla storia dell'arte? un testo scolastico, un saggio, una monografia...

Per una visione d’insieme proporrei di iniziare con un classico, La storia dell’arte di Gombrich, semplice, scorrevole anche per chi è completamente a digiuno in materia.

Arriva il Diluvio Universale e tu hai la possibilità di mettere qualche opera d'arte nell'arca di Noé, quali sceglieresti?

Se dovessi scegliere di salvare dalla distruzione qualche opera d’arte a vantaggio delle future generazioni, nell’arca di Noè metterei almeno un esempio di ciascuna corrente artistica. 
Invece, una scelta estremamente soggettiva comprenderebbe: Le tre età della donna di Gustav Klimt; Giallo, rosso e blu di Vasilij Kandinskij; La Vergine delle rocce di Leonardo da Vinci; Corpus Hypercubus di Salvador Dalí; La sposa del vento di Oskar Kokoschka; L’abbraccio di Egon Schiele; Atlante, uno dei Prigioni di Michelangelo Buonarroti e potrei continuare ad oltranza se non passo alla domanda successiva

Con quale artista (anche non più tra noi!) ti sentiresti di uscire a cena o a bere qualcosa? e perchè?

Raggiungerei Frida Kahlo e Diego Rivera nella loro residenza (Casa Azul) a Coyoacan in Messico per discorrere e conversare, tra tequila e pesadillas, di arte, pittura, politica e cultura messicana…ma qualsiasi altro argomento andrebbe bene! Mi piacerebbe inoltre incontrare Hilla von Rebay, la pittrice e mecenate tedesca che ha coinvolto il filantropo Solomon R. Guggenheim in una delle più avvincenti storie del collezionismo privato: il Solomon R. Guggenheim Museum di New York.
Ma mi piacerebbe incontrare anche Marina Abramovich per la quale nutro profonda stima.

Oggi in TV e alla radio non c'è molta arte, e cultura in generale. Tu cosa consiglieresti di guardare (o ascoltare) al lettore di Artesplorando. Può anche essere un programma non prettamente d'arte, ma al cui interno ci sia un'approfondimento artistico. In onda ora, ma anche nel passato (ovviamente valgono anche le web-tv).

Tra i programmi televisivi ideati e condotti da Alberto Angela e il canale tematico Rai 5, anche gli appassionati d’arte hanno finalmente una motivazione per pagare il canone! Di Alberto (e Piero) Angela sicuramente consiglio Ulisse – Il piacere della scoperta, un programma di divulgazione ad ampio spettro con approfondimenti artistici davvero rilevanti.
Su Rai 5, tra documentari ed approfondimenti, è possibile immergersi nel mondo dell’arte quasi a tutte le ore: dall’Impressionismo alle performing arts, dalla Street Art alle nuove frontiere dell’arte.  

In un ipotetico processo alla storia dell'arte tu sei la difesa, l'accusa è di inutilità e di inadeguatezza ai nostri tempi, uno spreco di tempo e di soldi. Fai un'arringa finale in sua difesa.

Ciascun essere umano esprime sé stesso in maniera differente attraverso atteggiamenti e pratiche che vanno al di là di un’apparente utilità. 
L’arte è un mezzo di conoscenza, una finestra che si apre sul mondo interiore e che mette in comune l’artista con tutto il genere umano attraverso l’emozione che trasmette, unica per ciascuno di noi. Osservare una qualsiasi opera d’arte diventa il modo attraverso il quale ognuno di noi interpreta ciò che ci circonda ed è l’emozione che ne deriva ad arricchirci, in ogni dove e in ogni tempo.
E se questa è inutilità, spreco di tempo e di denaro, allora spogliamoci di tutte le cose altrettanto inutili e superflue per vedere ciò che resta…

Concluderei con una bella citazione sull'arte, quella che più ti rappresenta!

Sono d’accordo con Leo Longanesi quando, con sarcasmo e lungimiranza, affermava: “l’arte è un appello al quale troppi rispondono senza essere stati chiamati”.

Grazie a Frida per la disponibilità a raccontarci un po' di sé e ora vi consiglio di andare direttamente a leggere il suo irriverente blog Scoria dell'arte:
scoriadellarte.blogspot.it

Hello Museo ai Musei Vaticani

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Oggi vado a ripescare per voi la rubrica "hello museo", nella quale recensisco la presenza dei musei sull web. Vi parlerò di uno dei musei più visitati al mondo: i Musei Vaticani. Più che un museo una galassia di musei che racchiudono dei capolavori straordinari. Quindi molto probabilmente penserete che un'istituzione del genere sia all'avanguardia anche nella sua attività internet e social, ma in realtà vi riserverà delle cattive sorprese. I Musei Vaticani hanno un sito tradotto in inglese, francese, spagnolo e tedesco che trovate QUI disponibile in due lingue: italiano e inglese.

La prima cosa che salta all'occhio è chiaramente l'aspetto grafico che in effetti non brilla per originalità e modernità. E' molto semplice e scarno, ma devo dire abbastanza ricco in contenuti.
Dalla home page potete osservare gli eventi più recenti e in cima alla pagina avete la possibilità di scaricarvi la cartina dei musei (un po' confusa in realtà), accedere a un fornitissimo negozio on-line e fare la prenotazione della vostra visita, scegliendo tra moltissime possibilità. Sono disponibili visite in treno, visite notturne, visite guidate per singoli, con guida esclusiva. Potete fare una colazione al museo, visitare la residenza pontificia di Castel Gandolfo, accedere a laboratori didattici e molto molto altro. Manca un servizio di mailing list.


La barra a sinistra del sito vi da l'accesso a molte informazioni come ad esempio la storia dei Musei i vari settori in cui si suddividono le collezioni con la possibilità di approfondimento. Trovate inoltre molte altre informazioni sui servizi, la didattica, tirocini, pubblicazioni, le basiliche papali ecc ecc. Quindi, un sito che farebbe rizzare i capelli in testa a qualsiasi web designer, ma tutto sommato utile nel guidare il visitatore a preparare la sua visita.
Passando ai social arriviamo alle dolenti note. Ebbene in Musei Vaticani ad oggi non sono presenti in nessun social network. Personalmente trovo che sia una grave mancanza perché se è vero che certo non hanno bisogno questi musei di attirare pubblico o farsi pubblicità, è altrettanto vero che gli spazi nei social network non servono solo a farsi conoscere. Credo che avere una pagina Facebook, un profilo Twitter o Instagram sia un modo importante per costruire un legame con il pubblico che visita il museo o che lo visiterà. Per i Musei Vaticani sarebbe poi anche un modo per togliersi di dosso quell'immagine di istituzione sacra, irraggiungibile e un po' distaccata.

Ma veniamo ai voti che, come saprete, vanno da una a cinque stelline (*****)!
Presenza sul web ** Voto basso per la totale assenza sui social network.
Funzionalità ed utilità effettiva **** Qui un buon voto perché, pur nei miglioramenti che sempre si possono realizzare, le informazioni che i Musei Vaticano danno ai visitatori virtuali sono buone.
Dialogo e coinvolgimento del pubblico * Sul coinvolgimento siamo nell'insufficienza più grave perché in effetti i Musei non offrono iniziative sul web.
Voi cosa ne pensate? sono stato troppo severo?
Intanto vi invito ad andare a visitare il sito dei Musei Vaticani e a scoprirne la storia e le collezioni.
Alla prossima recensione!

Aline Charigot

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Oggi riprendo la rubrica "Le Muse e gli artisti" in cui ricerchiamo insieme la vera fonte d'ispirazione dei più grandi talenti dell'arte. E' la volta di un impressionista, lo stesso che abbiamo visto parlando di Suzanne Valadon (QUI).
Renoir incontrò Aline Charigot, una giovane sarta di vent'anni, nel 1879, quando era quasi un quarantenne, restando folgorato dalla sua bellezza.
Il padre di Aline era un viticoltore di Essoyes, piccolo paese della Borgogna. La madre di Aline era anche lei una sarta. Quando Aline aveva solo 15 mesi, il padre partì per l'America e sua madre trovò un posto di lavoro lontano da Essoyes. Aline visse quindi con lo zio e la zia fino a quando la madre si trasferì a Parigi nel 1872. Due anni più tardi Aline si unì a lei iniziando a lavorare come sarta.

Renoir incontrò Aline nel negozio di formaggi di Madame Camille, in Rue Saint-Georges, di cui era un affezionato cliente, apprezzando particolarmente il Brie che l'artista definì "il re dei formaggi". 
Aline, una rossa dal fisico perfetto, dal naso all'insù e dal sorriso delizioso, diventò presto la musa e poi l'amante dell'artista. Il proprietario dell'atelier dove lavorava Aline, le disse più volte di iniziare la ricerca di un marito "ricco, e non troppo giovane". Ma Aline era attratta dal suo vicino-artista, anche se non era né ricco né bello: con le guance incavate, la barba rada e le sopracciglia folte. Il figlio di Renoir, Jean, scrisse nel suo libro che il padre iniziò a ritrarre sua madre molto prima della loro conoscenza. 

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Infatti, in molte tele, la sua modella sembrava molto simile Aline che ha sorprendentemente coinciso con il prototipo femminile che l'artista aveva già creato nelle sue opere. 
Nel 1879, Renoir nel suo dipinto Canottieri a Chatou ritrae Aline in un abito rosso, in piedi sulla riva della Senna vicino a Edmond Renoir, vestito con una camicia bianca. 
Nel 1881, la giovane apparve in un altro dipinto di Renoir La colazione dei canottieri. Lei è la donna con il cappello con i fiori e un cane pechinese tra le mani, nell'angolo in basso a sinistra della tela. L'uomo a sinistra è Alphonse Fournaise, il figlio del proprietario del ristorante in cui si svolge la scena; la ragazza, appoggiata alla ringhiera, è la sua affascinante sorella Alphonsine; Gustave Caillebotte, molto amico di Renoir e Angèle, una modella di Montmartre, sono dall'altra parte del tavolo rispetto ad Aline. Sono presenti altri amici di Renoir: Maggiolo, Ephrussi, Lestringuèz, Lhote, Ellen Andrée e Jeanne Samary con i guanti neri.


Lo stesso anno Renoir, che visse a Capri, creò uno dei suoi dipinti migliori: La bagnante bionda, con Aline come modello. Secondo alcune fonti, l'artista si recò in Italia da solo e dipinse Aline attingendo dalla sua memoria. Aline e Renoir si sposarono 10 anni dopo, nel 1890, a Parigi, anche se il loro primo figlio Pierre nacque nel 1885: l'artista dipinse fiori sulle pareti dell'appartamento del medico che aiutò Aline nel parto, e Gustave Caillebotte diventò il padrino del giovane Pierre. Aline amava il buon cibo e il buon vino, e nella loro casa a Montmartre un ospite poté sempre fare affidamento su un piatto abbondante di manzo con verdure.

Pierre-Auguste Renoir, Canottieri a Chatou
Nel 1883, Renoir eseguì due pannelli decorativi per Durand-Ruel, suo mercante di riferimento: La Danse à la Campagne e La Danse à la Ville. L'amico dell'artista Paul Lhote fu il modello maschile per entrambi i dipinti, Aline posò per la campagna, mentre Suzanne Valadon, amante di Renoir, interpretò la ragazza in città. Nel 1886 Renoir dipinse Aline mentre allattava il loro bambino.  
Nel 1894 nacque il secondo figlio Jeane e nel 1901 Claude.
Dal 1903, i Renoir vissero nella città di Cagnes-sur-Mer, che è a metà strada tra Antibes e Nizza. In un primo momento andarono in affitto, ma ben presto comprarono villa Colette con vecchi alberi di ulivo e un orto dove Aline coltivò verdure ed erbe aromatiche.

Pierre-Auguste Renoir, La colazione dei canottieri
Nel 1914 scoppiò la prima guerra mondiale e figli maggiori di Renoir furono chiamati dal servizio militare per combattere sul fronte. 
Dopo qualche tempo, Pierre venne ferito all'avambraccio, e Jean fu colpito da un proiettile all'altezza del femore, costringendolo a letto in ospedale. Queste disgrazie si aggiunsero alla condizione di salute precaria di Aline che per anni soffrì di diabete, tenendolo sempre nascosto al marito. 
Aline morì a Nizza il 27 giugno del 1915, all'età di 56 anni: rimase al fianco di Renoir per 25 anni, sopportando i tradimenti del marito. Musa, amante, moglie e madre premurosa, donna immortale grazie alle opere dell'artista.

Questo post si avvale di contributi bibliografici vari che potete consultare qui

I 10 letti più belli della storia dell'arte

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Dal letto di Tracy Emin, coperto di preservativi e mozziconi di sigarette, venduto per più di 2,5 milioni di sterline, all'intimità di coppia in quello di Rembrandt, per giungere alla Bambina malata di Munch: il letto nell'arte è la culla della nostra solitudine, dell'erotismo e delle paure.


  • Edouard Manet – Olympia (1863)


Il letto su cui la prostituta di Manet si adagia è una sorta di arazzo di lino biancastro, scintillante di complicati festoni. Tanto il ritratto di Olympia è severo e più reale dei nudi tradizionali a cui fa il verso, quanto il suo letto è una parodia dei letti lussuriosi su cui Tiziano e Velazquez esibivano le loro veneri.

  • Vincent van Gogh – Camera da letto (1888)


I colori potenti e le forme arrotondate della camera da letto di Van Gogh nella Casa Gialla, la mancata comunità artistica che l'artista aveva fondato ad Arles, hanno il loro centro emozionale nel letto. Si tratta del giaciglio di un asceta, di un solitario, di un sognatore estasiato dalle visioni dell'Ideale. Questo letto vuoto contiene l'anima tormentata dell'artista.

  • Robert Rauschenberg – Letto (1955)


A memoria d'uomo, il primo artista che mostrò il suo letto come opera d'arte fu Robert Rauschenberg. Si tratta di un lavoro molto personale, una reliquia del suo rapporto sessuale con Cy Twombly (che ha scarabocchiato sul cuscino) e Jasper Johns. E tuttavia è anche un dipinto che, appeso verticalmente, diventa l'equivalente di una tela, un letto espressionista-astratto.

  • Tracey Emin – Il mio letto (1998)


L'opera di Emin, venduta a 2.5 milioni di sterline, è poetica e suggestiva. Cosa c'è di più intimo dell’andare a letto? Trasformando il suo stesso letto in arte, senza dipingerlo o appenderlo al muro, come ha fatto Rauschenberg, Emin ha creato un readymade pungente nello stile dell'orinatoio di Duchamp. Tuttavia, quest’opera richiama anche i letti di Van Gogh e Aubrey Beardsley, e parla di amore, sesso, sogni e morte. È un'opera d'arte profondamente umana.

  • Eugene Delacroix – la morte di Sardanapalo (1827)


Sebbene dal punto di vista tecnico somigli più a un divano, non c'è nessun'altra opera d'arte che utilizzi un arredo così simile a un letto come il grande materasso coperto di rosso, steso su elefanti dorati, che riempie il capolavoro decadente di Delacroix. Questo grande triclinio ricorda la Zattera della Medusa in cui Gericault mostra un gruppo di sopravvissuti al naufragio. Delacroix trasforma la zattera in un letto e la scena di terrore in una di sensuale sofferenza.

  • Rembrandt – Il letto francese (1646)


In questo pezzo d'arte erotica di Rembrandt, meravigliosamente senza pretese, non vengono mostrati ninfe o satiri, ma una vera coppia olandese, forse l'artista e la sua amante Hendrickje Stoffels, mentre fanno l'amore nel loro confortevole letto. Si avverte la tranquillità della stanza e la serenità della coppia mentre si avvolge in un abbraccio.

  • Aubrey Beardsley – Autoritratto a letto (1900)


Molto prima che Tracey Emin creasse il suo monumento alla vita bohémienne, Beardsley cedette ai sogni decadenti in questo suo autoritratto in cui svanisce quasi del tutto nel letto riccamente ornato, sopra al quale un’iscrizione in francese recita “per gli dei, non tutti i mostri sono in Africa!”. L’autore identifica l’arte con la sensualità, la sessualità e l’inconscio, in altre parole, con lo stare a letto.

  • Edvard Munch – Bambina malata (1907)


In quest’opera terrificante e straziante, Munch ritrae una bambina morente, puntellata nel suo insalubre lettino, emaciata e debole. Questo quadro ci ricorda che il letto è anche il luogo dell’eterno riposo.

  • Vittore Carpaccio – Il sogno di Sant’Ursula (1497-98)


Questo quadro è una meravigliosa rappresentazione di una camera rinascimentale. Nella stanza di Ursula ci sono dei fiori, una libro delle ore da leggere e un sontuoso letto rosso, nel quale la donna non sogna l’amore, ma Dio. Nel sonno fa esperienza di una visione che la porterà a diventare una martire. Il letto, quindi, può essere anche un luogo pericoloso.

  • Piero della Francesca – Il sogno di Costantino (1452-66)


Prima della battaglia decisiva, l’Imperatore Costantino fa un sogno profetico. La sua branda sembra comoda e finemente decorata; sopra di essa, Piero dipinge il telone della tenda in modo che richiami il mondo dei sogni, che volteggia sull’uomo che dorme nel suo letto profetico.

Fonti: traduzione di Beatrice Righetti da www.theguardian.com 

Mi chiamo Beatrice Righetti, sono laureata in Mediazione Linguistica e Culturale all’Università di Padova e sono un’appassionata traduttrice. Studio inglese, russo, tedesco e spagnolo, e nel tempo libero mi dedico all’arte e alla letteratura. Per questo, credo fortemente nella divulgazione artistica e culturale, specialmente se integrata nel nostro vasto e poliedrico panorama internazionale.

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Ermafrodito dormiente

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Oggi vi riporto a Galleria Borghese per conoscere un'insolita e curiosa opera proveniente dall'antichità.
La statua d’epoca romana si identifica tra le riproduzioni migliori dell’Ermafrodito dormiente, di cui ci sono note circa venti copie sparse nel mondo. Il particolare soggetto prese vita presso gli antichi greci e rappresenta Ermafrodito, figlio di Ermete e Afrodite. Platone, nel suo indagare le origini dell’uomo e della donna, riconobbe l’esistenza di un essere perfetto e unico che racchiudeva in sé entrambi i sessi, prima che questi venissero distinti nel maschio e nella femmina.

L’Ermafrodito viene descritto anche da Ovidio nelle sue Metamorfosi in un brano che è all’origine del successo figurativo di questo bizzarro soggetto. La madre di tutte le copie dell’Ermafrodito dormiente è da attribuire a Policle, scultore appartenente a una famiglia di artisti ateniesi del II secolo a.C. Il personaggio mitologico viene rappresentato disteso nel sonno, adagiato su di un morbido materasso si gira di lato, svelando dal lenzuolo le sue nudità dall’ambigua sessualità ed emanando un grande potere di mistero e seduzione. A seconda del punto di vista con cui la osserviamo quindi, la figura inverte la propria apparenza da femminile a maschile. Anche la natura del sonno dell’Ermafrodito è ambivalente, innocente o torbida rispetto all’interpretazione che gli vogliamo dare.

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Una curiosità: l’opera nella ricostruzione della raccolta dei Borghese all’epoca di Camillo, sostituì quella dello stesso soggetto, restaurata da Gian Lorenzo Bernini e trasferita al Louvre nel 1807, dove si trova ancora oggi. Camillo Borghese fu infatti costretto a vendere la statua al cognato Napoleone Bonaparte, di cui aveva sposato la sorella Paolina. Originariamente l’opera non era esposta liberamente dai Borghese, per paura che questa creatura dalla sessualità così ambigua potesse turbare gli ospiti più sensibili in visita a palazzo. Per questo motivo era conservata gelosamente in un armadio di legno che raramente veniva aperto, mostrandone il bizzarro contenuto. Sia la testa che il materasso su cui è appoggiata la figura, sono il risultato di restauri successivi. Capolavoro tra i più famosi e suggestivi dell’antichità, l’Ermafrodito dormiente ci colpisce ancora oggi, forse perché tutti noi non siamo relegati a un solo sesso, ma dobbiamo convivere, seppur inconsciamente, con entrambi.


Questo post si avvale di contributi bibliografici vari che potete consultare qui


Giorgio de Chirico, un pittore metafisico

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Giorgio De Chirico nacque a Volo di Tessaglia, in Grecia, il 10 luglio 1888, ma era un italiano ed è annoverato tra i più importanti pittori del nostro Paese. Il padre era ingegnere ferroviario; i treni, il vapore e la ferrovia, entrarono naturalmente nella personale mitologia del pittore.
Giorgio aveva un fratello minore, Andrea Francesco Alberto, che prenderà poi il nome d’arte di Alberto Savinio e si distinguerà per il suo talento di scrittore, compositore e pittore. Alla morte del padre, avvenuta nel 1905, era ormai chiara la passione che legava il giovane De Chirico all’arte figurativa.

Sostenuto dalla madre, affettuosa quanto ferma definitrice dei destini dei due fratelli (Giorgio la chiamava “mamma baronessa”), l’artista si trasferì a Monaco. Nel centro bavarese, Giorgio seguì corsi dell’Accademia, come quelli di Chiaroscuro, per lui decisivo, e di Pittura; visitava anche regolarmente la Neue Pinakothek, il museo d’arte moderna voluto da Lodovico I nel 1849. Furono anni decisivi per il pittore che entrò in contatto con la serietà e il rigore dell’insegnamento tecnico e con l’ambiente giovanile, ricco di umori e di cultura, di discussioni e di lettura. In questa stagione conobbe le attività di Klinger e di Böcklin, due dei principali esponenti del simbolismo tedesco, che furono decisive per il suo percorso artistico.

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Dopo questo periodo, De Chirico cambiò stile di vita e viaggiò molto: soggiornò a Firenze tra il 1909 e il 1911, e qui cominciò a delinearsi quella che poi sarebbe stata la sua cifra stilistica. In questo percorso di crescita, che maturava lentamente e si definiva con fatica, un contributo importante gli venne dall’ambiente fiorentino, e in particolare dall’opera dello scrittore, poeta e aforista Giovanni Papini, impegnato nell’interpretare e raccontare la realtà in maniera del tutto inusuale. Ma quello che attrasse De Chirico nelle letture di Papini, furono i racconti che mescolavano descrizione e avvenimento a meditazione e spiegazione.

Giorgio de Chirico, canto d'amore
Il frutto di queste suggestioni, il pittore lo colse a Parigi tra 1911 e il 1915, dove rimarrà fino allo scoppio della Prima Guerra Mondiale. Nella capitale francese si dedicò a un apprendistato difficile, perché ciò che cercava era estraneo alle sperimentazioni d’avanguardia in voga in quegli anni. De Chirico studiò e lesse molto, osservando sia il cubismo sia quanto proponevano artisti come Maurice Denis, Paul Gauguin e Henry Rousseau. A Parigi ebbe i suoi primi contatti pubblici: al Salon d’Automne, nel 1912, con tre tele, poi l’anno successivo all’altra rassegna in calendario, il Salon des Indépendents dove propose La melanconia di una bella giornata, buon esempio dello stile a cui l’artista aspirava. De Chirico non aveva a disposizione una critica che ne definisse in modo adeguato le intenzioni, tranne quella del poeta Apollinaire, a cui seguirà, con più adesione lo scrittore, poeta e pittore Ardengo Soffici.

Giorgio de Chirico, ritratto di Guillaume Apollinaire
Proprio Apollinaire definì alcuni caratteri dell’artista che sarebbero state avvisaglie di tutto il suo lavoro successivo: l’indifferenza per l’esattezza formale, le suggestioni intinte di cupo romanticismo, le figure allusive e la costruzione a sorpresa dei suoi dipinti. L’intenzione era di fare un’arte in cui l’emozione venisse ricreata per lo spettatore attraverso la stranezza degli oggetti messi in scena. Il risultato era, spesso e volentieri, una composizione allegorica, in cui il quadro narrava le ragioni di una pittura modernamente intesa. Comparve in questi anni il manichino, una delle immagini topiche di De Chirico, che richiamava aspetti del lavoro del pittore e diventò un vero e proprio personaggio, significativo nelle sue pose quanto libero da espressioni psicologiche troppo legate alla presenza umana.
Giorgio de Chirico, le muse inquietanti
Arriviamo dunque al periodo più cruciale nella vita e nella formazione dell’artista. Nel 1915, De Chirico si arruolò, insieme al fratello Savinio, a Ferrara, città carica d’un misto di nuovo e antico, di presenze umane e ambienti storici, di cultura cattolica e realtà ebraica. Queste contrapposizioni offrirono al pittore materia viva su cui lavorare per ricavare le proprie opere. Nella città emiliana strinse molte amicizie importanti tra cui quella con il poeta Corrado Govoni, o quella con Filippo De Pisis, allora giovanissimo poeta, o ancora la difficile ma proficua amicizia con Carlo Carrà, a sua volta alle prese con una propria maturazione artistica. Qui, nella stagione che sarà chiamata “metafisica”, per indicare quel lavoro sulla realtà che cerca oltre i confini più banali e accertati, De Chirico dipinse, scrisse e polemizzò, preparandosi, con l’aiuto e il sostegno degli scrittori Soffici e Papini, a trarre i frutti della sua raggiunta maturità artistica.


L’artista riuscì ad affermarsi e a ottenere molti riconoscimenti anche se dovrà attendere ancora qualche anno per acquisire il successo economico. Non va dimenticata l’esperienza da collaboratore che fece nella rivista Valori Plastici, dove interventi e polemiche lo posero più direttamente a contatto con la realtà culturale del tempo, attenuando, anche in pittura, simbolismi e allegorie troppo complesse da decifrare. Diverse opere tra il 1920 e il 1922 segnarono una trasformazione nell’opera di De Chirico: dalla classicità evocata da protagonisti fantastici, quali Mercurio, Apollo ed Edipo, passò alla Roma contemporanea, raccontando stanze, terrazze, con persone mescolate a statue e resti
archeologici, trattando sempre più spesso il tema dell’autoritratto, fra narcisismo e coscienza del proprio ruolo.

Giorgio de Chirico, autoritratto
La sua pittura continuò un percorso di cambiamento: non dipinse più grandi piazze assolate ma nature morte con simboli geometrici e cibo. De Chirico divenne dapprima figura di precursore di temi che saranno cari ai surrealisti, poi proprio da loro fu contestato per la fissazione sulle medesime tematiche, vietando una qualsiasi forma di evoluzione. Pur tra incomprensioni e rifiuti, il nome dell’artista divenne molto conosciuto, realizzando in Italia diverse mostre personali. Dal 1925 al 1931 fu di nuovo a Parigi, dove rilasciò dichiarazioni polemiche nei riguardi dell’arte all’epoca promossa in Italia. Dipinse in questo periodo alcuni fra i suoi quadri più importanti, a conferma che, se la stagione degli anni Dieci fu la più culturalmente ricca, non finì lì il suo lavoro, che ebbe un lungo periodo di grande qualità.


Nel 1936 e 1937 si stabilì a New York, dove la galleria Julien Levy espose le sue opere. Collaborò inoltre con le maggiori riviste di moda del tempo, Vogue e Harper’s Bazaar e lavorò come decoratore d’interni, realizzando per esempio una sala da pranzo presso la Decorators Picture Gallery, assieme a Pablo Picasso e Henry Matisse. L’attività di De Chirico si fece sempre più fitta, non solo per le mostre e le rassegne in Europa e America, ma anche per l’attività di scenografo, illustratore e prolifico pittore nel mercato internazionale. In quegli anni realizzò molti ritratti, una serie numerosa di vedute veneziane, temi di varia letteratura, e rifacimenti, copie, rivisitazioni di opere metafisiche del passato.
Morì a Roma il 20 novembre del 1978, al termine di una lunga malattia. Pochi mesi prima, in occasione del suo novantesimo compleanno, era stato tardivamente celebrato in Campidoglio. Toccò infatti all’America l’avvio di una decisa e attenta rivalutazione del pittore, tenuto in disparte dalla critica italiana per lo scarso interesse che suscitava la sua produzione finale.

Questo post si avvale di contributi bibliografici vari che potete consultare qui

Accademie e corporazioni. Gli esempi più celebri nel mondo

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Accademia di San Luca a Roma
In un post precedente (QUI) abbiamo scoperto la storia delle corporazioni di artisti e delle accademie, luoghi di promozione e insegnamento della storia dell'arte.
Vediamo ora quindi una rapida carrellata delle prime corporazioni e accademie che videro la luce, come si trasformarono nel tempo, arrivando in alcuni casi fino ai giorni nostri:

Accademia di San Luca a Roma

L’istituzione raccoglieva fin dal 1478 i pittori romani in una corporazione, le cui riunioni avevano luogo nella chiesa di San Luca sull’Esquilino, non lontano da Santa Maria Maggiore. La vera costituzione dell’accademia risale però al 1577, data in cui il pittore Girolamo Muziano ottenne da papa Gregorio XIII un testo che regolamentava la professione dell'artista. Nel 1593 il pittore Federico
Zuccari, che era successo a Muziano, divenne il primo di una serie di principi dell’accademia, sia italiani che stranieri.

Per due secoli questa istituzione svolse un ruolo fondamentale nella formazione e nella consacrazione dei pittori italiani o stranieri e servì di modello a tutte le accademie create in Europa nel XVII e nel XVIII secolo. L’antica sede dell’accademia in via Bonella venne distrutta nel 1934 e oggi è ospitata a palazzo Carpegna in via della Stamperia dove fa bella mostra una ricca raccolta di tele e sculture. La sua attività viene tutt'oggi portata avanti dai più illustri artisti e critici d’arte italiani contemporanei.

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Accademia di Bologna

Non si conosce l’anno in cui Ludovico, Agostino e Annibale Carracci fondarono l’accademia denominata prima dei Desiderosi, più tardi degli Incamminati, e sono pochi gli elementi per tracciare una storia delle sue origini. Si trattava di una scuola istituita nella bottega dei Carracci all’incirca nel 1585-86, con caratteri che la rendevano diversa sia dalle altre scuole locali, dove l’insegnamento
era limitato ai rudimenti del mestiere, che dalle accademie del tempo, nate dalla volontà conservatrice di un principe o di un gruppo di artisti. I Carracci infatti concepivano l’insegnamento in senso ampio e in piena libertà d’azione, con spirito innovatore anche nel rapporto con gli scolari, i quali venivano trattati come veri discepoli o eredi spirituali. L’accademia costituiva un centro di vita culturale aperto e vivace, con il concorso dei giovani più svegli della città e con interventi di uomini di lettere e di scienze. Vi si tenevano letture, discussioni, gare in un’atmosfera familiare e cordiale. Il principio artistico fondamentale su cui poggiava l’insegnamento era il ritorno alla natura come esperienza prima da cui muovere per ogni rappresentazione, anche idealizzante.

L'interno dell'attuale Accademia di Bologna
Modelli ideali erano Tiziano, Veronese, Correggio, ma non per imitarne le maniere, bensì per tentare di ripetere il processo creativo per il quale quei grandi maestri erano giunti a supreme idealizzazioni partendo sempre da un’esperienza naturalistica. Le possibilità che offriva questo modo di vedere l'insegnamento dell'arte erano moltissime e infatti dall'accademia bolognese uscirono pittori diversi tra loro come Reni, Domenichino e Guercino. Ognuno venne lasciato libero d’interpretare il naturale secondo la propria inclinazione, senza pregiudizi. Si facevano schizzi dal vero e studi di nudi in posa, paesaggi e scene di strada, ritratti e caricature, si attingeva dal repertorio figurativo tradizionale e si inventavano nuovi temi. Ma, scomparsi i Carracci, fu inevitabile che l’accademia cessasse la sua attività e chiuse i battenti verso la fine del secondo decennio del Seicento.

Académie royale de peinture et de sculpture

L’accademia reale di Parigi, istituita il 10 febbraio 1648, derivava dai progetti che lo scultore Sarrazin, i pittori Van Egmont e Le Brun, nonché Charmois, loro portavoce presso Mazzarino, elaborarono per difendere gli interessi professionali dei pittori. Protetta da Mazzarino e diretta da Le Brun, venne costituita durante il XVII secolo da dodici "anziani", che impartirono un insegnamento
fondato sul disegno dal vero. Vi erano ammessi, sin dall’inizio, quattro membri della corporazione, finché, nel 1654, non si instaurò un vero e proprio monopolio accademico.
A partire dal 1663 essa rafforzò la propria istituzionalità: le vennero assegnate sovvenzioni e gli artisti del re, la cui produzione dovrà alimentare le Maisons royales, furono costretti ad aderirvi. Dal 1667 si tennero le prime esposizioni pubbliche delle opere presentate dai concorrenti al petit prix e al grand prix, nonché dei lavori eseguiti dai membri dell’accademia.

L'attuale Académie des beaux-arts de France
Durante il XVII secolo occupò varie sedi: nello studio di Charmois, nell’Hôtel de Clisson, nell’alloggio delle gallerie del Louvre ceduto da Sarrazin; poi le vennero assegnati ambienti in Palais Royal; infine, nella parte antica del Louvre. Agli inizi del XVIII l'accademia cominciò ad ammettere un numero maggiore di pittori stranieri e vivacizzò la vita artistica mediante salons organizzati al Louvre a partire dal 1737. Base della didattica rimase il disegno dal vero e in generale tutto ciò che avesse attinenza con il disegno. Come accadde per la maggior parte delle accademie europee, la reazione neoclassica le conferì nuovo slancio; poi David ne chiese la soppressione in nome di un’accademia libera e universale, e la Convenzione la sciolse nel 1792. Venne ricostituita con nuovi statuti nel 1795, assumendo il nome di Académie des beaux-arts de France.

Académie de France à Rome

Filiale romana dell’Académie royale de peinture et de sculpture, venne istituita l’11 febbraio 1666, su progetto di Le Brun. Poussin rifiutò di esserne il rettore, e la carica venne conferita a Charles Errard. L’accesso era riservato agli allievi dell’Académie royale, ma era pure concesso ad alcuni "protetti". Il concorso del Prix de Rome selezionava ogni anno due pittori che, per tre anni e quattro mesi, ne divenivano pensionati. Questi pochi borsisti dovevano "formarvisi al buon gusto e alla maniera degli antichi", producendo copie dei capolavori dell’antichità e del Rinascimento. L’istituzione era strettamente legata alla romana Accademia di San Luca. La didattica s’imperniava allora sul disegno dal vero e sull’anatomia.

L'Académie de France à Rome 
L’accademia subì un breve declino alla fine del XVIII secolo. Nel 1792 la Convenzione decretò la soppressione della carica di direttore, tuttavia l’istituzione sopravvisse e gli artisti continuarono a concorrere per il Prix de Rome. A partire dal 1795, posta sotto l’egida dell’Institut, l’Ecole nationale des arts doveva essere diretta per sei anni da un pittore nominato dal Direttorio; i pensionanti venivano designati dall’Institut per cinque anni. Col nome di Ecole des beauxarts à Rome, ebbe come nuova sede villa Medici. Durante tutto l’Ottocento, il successo nel Prix de Rome venne considerato dai pittori il coronamento dei propri studi. Dal 1970 l’Académie de France è soggetta a un nuovo regolamento, ma continua la sua attività d'insegnamento, promozione e appoggio di artisti emergenti.

Accademie private a Parigi, XIX e XX secolo

Nella seconda metà del XIX secolo la formazione di un’arte indipendente comportò la fondazione a Parigi di numerose accademie private. Alcune erano libere, e consentivano agli artisti di eseguire schizzi di nudo per una sola giornata; altre erano costituite da parecchi studi, dove alcuni professori correggevano gli allievi sia nel disegno, sia nella pittura. Per la maggior parte gli artisti frequentavano contemporaneamente più accademie. Vi trovavano studi ben illuminati, modelli e il consiglio di docenti di fama internazionale, ma non solo: contrapponendosi a una didattica ufficiale, vi trovavano soprattutto una libertà sufficiente a soddisfare la loro ricerca di valori ideologici e di nuovi modi espressivi.
Una delle più antiche fu l’Académie Suisse, aperta verso la metà del secolo da un modello di nome Suisse. Qui ci si esercitava allo schizzo senza correzioni. La frequentarono Delacroix e Courbet, e anche Manet. Nel 1857 Monet vi incontrò Pissarro, prima di entrare nello studio di Gleyre; Cézanne, che si preparava all’ammissione all’Ecole des beaux-arts, vi conobbe nel 1861 Pissarro e Guillaumin.

Studenti all'Accademia Julian
Nel 1868 Rodolphe Julian fondò la prima accademia a margine dell’Ecole des beaux-arts preparando gli allievi al concorso di Roma. Nei suoi studi gli allievi lavoravano liberamente sotto la guida di maestri dell’epoca, alcuni dei quali di fama, come Bouguereau. Qui si formò nel 1888, su iniziativa di Sérusier, il gruppo dei Nabis. Nel 1904 l’accademia aveva tra gli allievi Derain e Léger. Era dotata di parecchi studi: quelli del passage des Panoramas, quelli della rue du Dragon dove si stabilì nel 1890, quelli del n. 51 in rue Vivienne, riservati agli studi per le donne, e della rue de Berri, dove tuttora esiste. Nel 1902 vennero istituiti corsi serali: l’insegnamento era vario e comprendeva corsi di illustrazione, di arti grafiche, di composizione e nel 1906 venne creato un corso per bambini. Numerosi Prix de Rome uscirono dall’Académie Julian.

Accademia Vitti
Alla fine dell’Ottocento erano attive anche altre accademie. Per esempio Gauguin lavorava nello studio libero, detto accademia, che il modello italiano Colarossi aveva aperto e per qualche tempo insegnò nell’Académie Vitti prima di tornare a Pont-Aven nel 1887. Quella aperta nel 1896 da Carrière orientava gli artisti verso uno studio sensibile della natura, nello stesso tempo intellettuale e figurativo: Carrière tollerava le libertà coloristiche di allievi come Matisse, Derain e Puy, che s’incontrarono nel suo studio nel 1899.
L’Académie de la Grande-Chaumière fu, dalla fondazione nel 1902, un centro dell’arte indipendente. Situata al n. 14 dell’omonima strada, era rinomata per la buona illuminazione degli studi, la grande varietà dei modelli e l’attività culturale che offriva agli artisti.

Accademia de la Grande-Chaumière 
Nell’Académie Frochot, posta nello studio di Toulouse-Lautrec, tennero corsi Gleizes e Metzinger. Guérin, assistito da Dunoyer de Segonzac, ebbe numerosi allievi all’Académie de la Palette, nonché all’Académie moderne a Montparnasse, dove insegnarono Friesz, Lhote e Léger. Nelle due sedi, in rue du Départ e in rue d’Odessa, dell’Académie Lhote, fondata negli anni ’20, venivano impartiti corsi di ritratto, incisione, schizzo e composizione. Le numerose accademie private, nonché i molti studi di artisti, fecero di Parigi, e del quartiere di Montparnasse in particolare, un centro artistico vivace, che esercitò un'influenza sugli artisti stranieri di passaggio a Parigi. Sotto questo aspetto le accademie di Julian e Lhote svolsero un notevole ruolo. Anche i altri paesi vennero create alcune accademie indipendenti ad immagine di quelle parigine: quelle dello scandinavo Josephson e dell’inglese Hansen.

Accademia Lhote
Le accademie private oggi funzionanti a Parigi derivano spesso da fondazioni dell’inizio del secolo. Per la maggior parte sono divenute istituti che preparano all'ammissione nelle grandi scuole e centri culturali dove s’insegnano, oltre alla pittura e al disegno, varie discipline come le arti grafiche pubblicitarie, l’arredamento e la fotografia. Alcune esistono ancora, per esempio l’Académie Frochot; altre si sono fuse: l’Académie Goetz venne assorbita nell’Académie Lhote, l’Académie de la Grande-Chaumière ha assimilato l’antico studio Colarossi e l’Académie Charpentier; infine, il Centro culturale di arti figurative di rue du Dragon deriva dall’associazione tra la scuola di Met de Peningen e l’Académie Julian.

Saint Martin’s Lane e Royal Academy of Arts 

In Gran Bretagna, durante la maggior parte del XVIII secolo le scuole e le accademie di belle arti dipendevano dalla privata iniziativa degli artisti e dei loro protettori. Vennero create numerose scuole e accademie, ma poche durarono a lungo o acquistarono vera importanza. La più fiorente fu l’accademia di Saint Martin’s Lane, fondata nel 1720 da Louis Chéron e Vanderbak, cui Hogarth diede nuovo impulso nel 1734. Nel 1750 serviva ancora come luogo di lavoro e d’incontro per artisti che cercavano modelli dal vero; lo stesso Reynolds vi disegnò dal 1755 in poi. Prima del 1750 poche furono a Londra le mostre d’arte contemporanea; nel 1761 ebbe luogo la prima esposizione pubblica organizzata dall’accademia di Saint Martin’s Lane, presso la Società per l’incoraggiamento delle arti, dell’industria e del commercio.

Royal Academy di Londra
Numerose petizioni però richiedevano la creazione di un’accademia reale e nel 1765, una patente reale venne accordata alla Società degli artisti, che confluì il 10 dicembre 1768 nella Royal Academy appena fondata. Fin dagli inizi la Royal Academy si specializzò nell’organizzazione di mostre annuali e il numero delle opere presentate continuò a crescere durante il primo trentennio. L’importanza delle esposizioni dipendeva da fattori economici, sempre impliciti nella gestione di un’accademia autonoma e privata. Era finanziariamente alimentata dal denaro proveniente dalle mostre, poiché, malgrado la fondazione reale che le procurava rispettabilità e rango sociale, fu sin dall’inizio un’associazione privata: statuto che conserva ancora oggi. Il carattere indipendente e privato della Royal Academy l’ha man mano trasformata, senza che essa abbia perduto il suo aspetto sociale, in un’istituzione conservatrice, distaccata dalle correnti artistiche dominanti. Dal 1869 ha la sua sede nella Burlington House, vasto edificio settecentesco ampliato nell’Ottocento. Conserva numerosi cimeli dei suoi membri principali e di opere di alcuni di loro e organizza ogni anno, oltre alle tradizionali mostre degli accademici, prestigiose esposizioni d’arte antica.

Cina

Gli Han disponevano di un Ufficio della Porta Gialla, creato nel II secolo a. C. e raggruppante, per botteghe, tutti gli artigiani, tra i quali i pittori. La situazione subordinata di questi ultimi senza dubbio durò molto a lungo, poiché si deve attendere l’VIII secolo della nostra era prima che essi sembrino godere di uno status sociale privilegiato. In quest’epoca infatti l’imperatore Hiuan-tsong dei Tang li fece entrare accanto ai migliori prosatori e poeti del tempo nella sua celebre accademia letteraria della Foresta dei pennelli. Nel X secolo i dinasti locali di Tch’eng-tou e di Nanchino istituirono le prime accademie note di pittura, raggruppando i pittori investiti di incarichi ufficiali o impegnati nella sorveglianza delle collezioni di palazzo. I primi sovrani Song ne seguirono l’esempio e raccolsero a K’ai-fong, loro capitale, i talenti dispersi in tutta la Cina; fu però Houei-tsong, ultimo imperatore dei Song del Nord, a organizzare all’inizio del XII secolo la prima accademia imperiale di pittura.

China Central Academy of Fine Arts
Gli accademici pittori vi si trovavano su un piano di uguaglianza con i loro colleghi letterati dell’accademia Han-lin; i membri più importanti erano investiti di cariche ufficiali a corte. L’accademia divenne pure un collegio d’insegnamento artistico, organizzato sul modello delle accademie letterarie. Maestri e allievi rivaleggiavano nell’illustrazione di temi indicati dallo stesso imperatore, che designava come vincitore colui che avesse dato prova della massima ingegnosità intellettuale. Gli imperatori Song, letterati e conoscitori raffinati, sempre mecenati e talvolta essi stessi pittori, svolsero un ruolo notevole nella pittura del loro tempo. Dopo un’eclissi sotto gli Yuan, l’accademia di pittura venne restaurata dai Ming, ma lo spirito autoritario degli imperatori, che avvilirono i loro artisti al rango di semplici artigiani esecutori, fu causa di una rapida decadenza. Benché carichi di onori, i pittori di corte rimasero assoggettati al gusto formalistico e puntiglioso dei loro signori, al punto che alcuni di loro si videro esiliati per aver commesso falli di etichetta. Si deve giungere all’epoca contemporanea e alla rivoluzione perché sia creata a Pechino nel 1920 un’accademia di belle arti che insegna le tecniche tradizionali e quelle occidentali e che tuttora esiste.

Giappone

L’Ufficio della pittura della corte di Heian, creato prima dell’886, segna l’inizio dell’avanzamento sociale dei pittori giapponesi; nel precedente Ufficio della pittura dell’epoca Nara, essi avevano ancora rango di artigiani organizzati in botteghe. Uno dei membri del nuovo Ufficio doveva essere il fondatore della prima scuola conosciuta in Giappone, la scuola Kose, che lo diresse fino all’XI secolo. Qualche personalità emerge qua e là, ma quest’Ufficio resta un laboratorio di corte dove si trasmettono le ricette della pittura profana ufficiale. Il periodo di riforme dell’epoca Meiji vedrà, dopo la creazione nel 1888 di un’accademia privata di belle arti per iniziativa del critico d’arte Okakura Kakuzÿ, la fondazione nel 1919 dell’Accademia imperiale di belle arti, che impartisce tuttora l’insegnamento delle tecniche occidentali e che ha svolto un notevole ruolo nell’educazione di numerosi pittori contemporanei, sia giapponesi sia cinesi o coreani.

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I vasi di fiori di Ludger tom Ring

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I due vasi di fiori dipinti dall'artista tedesco Ludger tom Ring nel 1562 sono i più antichi esempi autonomi di quest'iconografia a essere arrivati fino a noi. Rappresentano gigli bianchi e iris gialli contenuti in due vasi datati sul collo e attraversati da una scritta elicoidale a caratteri dorati. Il testo in latino non è completamente leggibile, ma parrebbe riportare questa frase: "in verbis in herbis et in la(pidus deus)", cioè in italiano, "nelle parole, nelle piante, nelle pietre è Dio".

Ai fiori verrebbe quindi associato un significato religioso, sia in quanto oggetti in cui c'è la presenza di Dio, sia in quanto simboli della salvezza, infatti le due specie di fiori sono entrambe spesso associate alla purezza di Maria. Ma qual è lo scopo di queste due opere? E' possibile che i vasi fossero pensati come pannelli decorativi per l'interno di una farmacia: ciò costituirebbe un ulteriore elemento di spiegazione del riferimento alla salvezza contenuto nella scritta e collegherebbe la loro stessa invenzione anche a una precisa destinazione funzionale.

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La realizzazione da parte dell'artista di questi fiori parte sicuramente da un'osservazione accuratissima degli originali dal vivo: infatti sono dipinti in modo molto preciso, con la massima attenzione alle gradazioni di colore e una grande cura alla consistenza, leggerezza e delicatezza delle forme. Tutte qualità pittoriche che sono rese ancora più eclatanti perché associate alle forme solide, geometriche e semplificate dei pesanti vasi in alabastro.
L'osservazione del dato reale qui diventa la norma.

Scopri di più ...

Questo post fa parte di una serie di piccoli giochi di curiosità dedicati alle nature morte. Leggi altro seguendo l'etichetta #naturemorte(nonmorte)

Fonti: La natura morta, Luca Bortolotti, Giunti editore, Prato, 2003

Le sculture del Partenone. Un inno al genio e alla libertà

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Le sculture del Partenone in un fedele disegno di Jacques Carrey
Abbiamo già ammirato il Partenone, nella sua bellezza architettonica (QUI) e nella rivoluzione artistica che generò (QUI). Oggi vedremo più da vicino le sue straordinarie sculture per avere poi un quadro completo.
A ricevere l'incarico da Pericle, per sovrintendere i lavori del Partenone, fu Fidia, nel 448 a.C. La città di Atene si imbarcò con questo progetto in un'impresa molto costosa e laboriosa ed è molto probabile che la commissione formata per seguire tutta la faccenda, pretese un progetto di massima che includesse anche le sculture.
Una volta approvati i progetti, i lavori poterono partire a pieno ritmo.

Il Partenone fu un grande affare per tutte le botteghe artistiche di Atene, che ricevettero l'incarico di realizzare metope, fregi e sculture frontonali. Si perché chiaramente un solo uomo non si sarebbe potuto imbarcare in un'impresa del genere: serviva fare squadra. Molto probabilmente molte officine si trasferirono direttamente sull'Acropoli sotto la guida di Fidia, abile organizzatore e sicuramente persona di grande carisma e fascino. Fare lavorare nello stesso spirito, ottenendo una qualità alta e un'omogeneità espressiva da un numero così rilevante di artisti e artigiani, non fu una passeggiata.
E l'impresa diventa ancora più complessa se si pensa che Fidia chiamò di proposito nel gruppo anche artisti di rilievo con uno stile completamente diverso da lui. Il risultato fu che in tutte le botteghe lo stile superbo di Fidia si impose, lasciando il segno nell'arte ateniese, greca e con una visione più ampia, occidentale.

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La decorazione scultorea e pittorica venne studiata per ravvivare ed esaltare la struttura architettonica del Partenone. La cromia era limitata al rosso, azzurro e oro su alcuni dettagli. Le sculture, in marmo delle cave del monte Pentelico, erano dipinte e arricchite da dettagli in bronzo forse dorato. Purtroppo le sculture del tempio, distribuite su novantadue metope (formelle), per una lunghezza di centosessanta metri, sono giunte fino a noi in pessime condizioni. I danni furono causati da una miriade di vicissitudini: il tempio divenne chiesa cristiana con strazianti adattamenti, poi i turchi ne fecero una polveriera, colpita dai veneziani ed esplosa. Ma il colpo di grazia lo diede Lorg Elgin, ambasciatore della Gran Bretagna presso l'impero ottomano, che ottenuto un permesso dal governo nel 1801, asportò quanto poté di ciò che non era ancora stato danneggiato o saccheggiato e lo trasportò in patria al British Museum, dove è possibile ammirare molti dei frammenti del tempio. I disegni eseguiti dal pittore Carrey prima dell'esplosione del Partenone, avvenuta nel 1687, sono ad oggi un prezioso documento per capire l'originale integrità del tempio.
Ma vediamo ora nel dettaglio le decorazioni:

Un collage delle metope

Le metope

All'incirca quadrate, erano quattordici sui lati corti, trentadue sui lunghi. Sul lato occidentale è rappresentata un'Amazzonomachia, lotta di amazzoni, simboleggiante la guerra contro i persiani. Del lato nord, l'unica metopa leggibile è la trentaduesima, ma il tema svolto si pensa che trattasse la guerra di Troia, con gli dei che assistevano alla lotta. Gli stessi danni li troviamo nel lato orientale che raffigurava una Gigantomachia. Si sono conservate meglio le metope del lato sud, probabilmente perché di più difficile accesso dato che da quella parte dell'Acropoli il pendio è più scosceso. Il tema dominante qui è una Lotta tra centauri e lapiti, un popolo mitico della Tessaglia noto per avere liberato quella regione dai mostruosi centauri, chiaro riferimento della lotta tra razionalità e bestialità. I contendenti sono in parte nudi, in parte coperti da mantelli e clamidi. Al contegno espressivo dei lapiti fa da contraltare l'intensa gamma d'emozioni dei centauri.

Un collage del fregio

Il fregio

Il lunghissimo fregio di centosessanta metri all'interno della cella, il più grande complesso di sculture dell'antichità, rappresenta la processione delle panatenee, la maggiore festa religiosa di Atene. Il lato occidentale del fregio ospita un corteo di cavalieri con un personaggio che li guida. Sul lato settentrionale ancora una cavalcata: i cavalieri sono preceduti da carri e seguiti da anziani, da portatori di offerte, da musici e da portatori di vittime sacrificali. Sul lato meridionale la tematica si ripete. Su quello orientale le fanciulle offrono ad Athena il sacro peplo alla presenza degli eroi e degli dei. L'unica distinzione tra mortali e dei sta nel fatto che questi ultimi raggiungono seduti l'altezza dei mortali. Sono presenti in tutto il fregio trecentocinquantacinque figure, che riescono a vivere di vita propria, pur integrandosi nell'insieme. Con un rilievo bassissimo, solo cinque centimetri di aggetto, gli scultori riuscirono a risolvere tutti i dettagli. Come nel caso delle metope, Fidia ideò il progetto del fregio, intervenendo di persona dove necessario.

Collage sculture frontoni

I frontoni

Anche i frontoni sono in pessime condizioni. Quello orientale racchiudeva ai lati il Sole sul carro che sorgeva dal mare e Selene, personificazione della luna, che con la sua quadriga vi si tuffava, mentre al centro, perduta, era rappresentata la nascita di Athena. Rimane poco anche delle altre divinità che assistevano al prodigio. L'alternanza di moto e stasi, la tensione dei nudi, la ricchezza dei panneggi che svelano le forme sottostanti e il grande realismo, contribuiscono alla straordinaria novità di queste sculture. Più complessa e dinamica è la scena sul frontone occidentale. E' la lotta tra Athena e Poseidone per il possesso dell'Attica, con la partecipazione di divinità ed eroi. La scena è concitata, l'anatomia vibrante, i panneggi leggeri e i gesti eclatanti, tutte caratteri che riassumono la sensibilità rivoluzionaria del maestro del Partenone. Le figure dei due frontoni sono enormi e impegnarono decine di scultori, ma anche qui si avverte l'idea e la mano di Fidia, che molto probabilmente forniva i modelli da riprodurre e forse interveniva personalmente nel lavoro delle botteghe. Insomma vi lavorarono in tanti, ma è impossibile distinguere una differenza stilista tra metope, fregio e frontoni, segno questo che il maestro del Partenone fu solo uno: Fidia.

Copia di Copenaghen della testa di Athena Parthenos

La grande statua di Fidia

Tutte queste sculture convergevano nel capolavoro assoluto di Fidia: l'Athena Parthenos, una statua d'oro e d'avorio simbolo del genio e della libertà degli ateniesi. La statua era alta dodici metri e furono impiegati per la sua costruzione circa mille chili d'oro, le parti nude erano in avorio, gli occhi di pietre, forse preziose. La dea indossava una lunga veste, recava sul petto una testa di Gorgone d'avorio, aveva il capo coperto da un elmo con al centro una sfinge e ai lati dei grifi. Nella mano destra teneva una Nike, la dea della vittoria, coronata d'oro, mentre con la sinistra reggeva lo scudo rotondo, decorato all'esterno con una testa di Gorgone e da un'amazzonomachia. Dallo scudo si affacciava Erichtonios, eroe attico con le sembianze di serpente, accudito alla nascita da Athena. Una lancia poggiava sulla spalla sinistra mentre una gigantomachia ornava le suole dei sandali. Purtroppo per farci un'idea dobbiamo osservare le copie giunte fino a noi, spesso inconsistenti anche se fedeli. L'unica parte riprodotta fedelmente è la testa di cui la replica di Copenaghen ci mostra un'impetuosa giovinezza, uno sguardo perentorio e un'eleganza senza eguali.
Un inno al genio e alla libertà.

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Il Lezionario Farnese

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Riprendiamo il nostro viaggio attraverso la miniatura, parlando del prezioso Lezionario Farnese.
Questo splendido manufatto venne conservato nella Cappella Sistina in Vaticano per oltre due secoli e si disse all'epoca che era in grado di rivaleggiare con gli affreschi alle pareti in quanto a bellezza.
Un libro tanto strabiliante da far esclamare a Giorgio Vasari: "tanto bello, anzi ammirabile e stupendo, che io mo confondo a pensarlo". Quel capolavoro, utilizzato fino alla fine del XVIII secolo per le funzioni liturgiche più importanti svolte nella Cappella Sistina, è proprio il Lezionario Farnese.



Il manoscritto venne commissionato a metà del Cinquecento da Alessandro Farnese, cardinale e nipote di papa Paolo III. Era un dono che il cardinale volle fare alla Cappella Sistina: l'opera quindi doveva essere all'altezza dell'ammiratissimo Giudizio Universale appena terminato da Michelangelo. Per questo motivo la sua realizzazione venne affidata al pittore di miniature più celebre dell'epoca: Giulio Clovio.

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Nel Cinquecento questo artista si era aggiudicato le più entusiastiche definizioni: il "Michelangelo della miniatura", il "piccolo Buonarroti", ecc ecc. Giulio Clovio nacque intorno al 1498 nell'odierna Croazia e cominciò a lavorare al servizio del cardinale Farnese dal 1498, per il quale realizzò anche il celebre manoscritto chiamato Ore Farnese. Giulio lavorò ben nove anni per realizzare il codice che decorò con una serie di scene a tutta pagina di grandi dimensioni. Traendo spunto dall'arte di Michelangelo e Raffaello, diede alle scene una trionfante monumentalità, utilizzando colori alle volte delicati oppure cangianti, esprimendo a pieno il suo caratteristico stile.


A dare l'idea di trovarci di fronte a una vera e propria galleria di dipinti su pergamena, contribuiscono le cornici dorate che circondano ogni scena, decorate con putti, maschere e fiori. Il Lezionario rimase custodito nella Cappella Sistina fino al 1798, quando, duranti i tumulti dell'occupazione napoleonica, venne trafugato. Dopo varie vicende e traversie che ne fecero perdere la preziosa legatura originaria, il manoscritto finì acquistato dal collezionista inglese John Towneley. E fu proprio Towneley a commissionare una nuova legatura in velluto rosso che ancora oggi possiamo ammirare, con fibbie e cantonali dorati e lo stemma in porcellana della sua famiglia.

Fonti: www.lezionariofarnese.it

Il gotico internazionale - i test di artesplorando

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Alla fine dell'Ottocento lo storico francese Jean Courajod definì la tendenza dominante nelle arti europee intorno al 1400 "Courant internationale", da cui il termine italiano di "gotico internazionale". Più recentemente lo storico dell'arte tedesco Erwin Panofsky ha sottolineato come il carattere internazionale delle manifestazioni artistiche dell'epoca derivò dal fatto che nessuna città o nazione aveva un ruolo culturale dominante. I termini che troverete in questo test fanno proprio riferimento a questo periodo storico-artistico.



Un periodo in cui si verificò la decadenza delle istituzioni politiche medievali, in cui vi fu il grande scisma d'Occidente e in cui nacque lo stato moderno.
Le istruzioni per il test sono sempre le stesse: è composto da domande a risposta multipla, compilatele tutte e cliccate invia. Potrete subito dopo accedere alle risposte e capire se e quanto avete fatto bene!
Facile no? bene, allora non perdete tempo e cominciate a mettere alla prova le vostre conoscenze!

Frida Kahlo

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La biografia di Frida, senza la quale sarebbe impossibile capirne il lavoro artistico che ne è la registrazione meticolosa e ossessiva, è presto detta. Nacque a Coyoacán, una delegazione di Città del Messico, nel 1907. Era figlia di Guillermo Kahlo, un fotografo tedesco nato a Pforzheim, nell'odierno Baden-Württemberg, da una famiglia ebraica di origine ungherese, e di Matilde Calderón y González,
un’agiata messicana di origini spagnole e amerinde. Da subito la vita di Frida fu segnata da problemi di salute: forse affetta da spina bifida, fu colpita dalla poliomielite a sei anni e camminò sempre con grandi difficoltà. Fin dall'adolescenza rivelò un carattere molto forte, insieme a una particolare attitudine artistica e a uno spirito libero e appassionato, avverso nei confronti di ogni convenzione sociale.

Studiò dapprima al Colegio Alemán, una scuola tedesca, per poi iscriversi nel 1922, volendo formarsi come medico, alla Escuela Nacional preparatoria. Qui conobbe un gruppo di studenti chiamati i Cachuchas, fautori del socialismo nazionale, e iniziò a dipingere i ritratti dei compagni di studio per
passatempo. Il gruppo ammirò il rivoluzionario José Vasconcelos e si occupò nello specifico di letteratura; tutto ruotava attorno alla figura di Alejandro Gómez Arias, studente di diritto e giornalista, capo spirituale e ispiratore dei Cachuchas e di cui Frida si innamorò. Coetanea della rivoluzione messicana, al finire di un’adolescenza che la vide quindi protagonista vivace e anticonformista della svolta democratica nel suo paese, nel 1925 Frida andò incontro a uno spaventoso evento che, alla lettera, le frantumò il corpo e la vita in due.

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Infatti quando l’artista aveva appena diciotto anni, ebbe la vita spezzata da un terribile incidente
d'autobus: si ruppe in tre punti la colonna vertebrale, si fratturò diverse ossa e un corrimano dell'autobus le entrò nel fianco trapassandole il corpo. A farla sopravvivere fu la passione per la vita, e la pittura divenne la terapia che le diede la forza di affrontare trentadue interventi chirurgici. Da qui in avanti la sua vita sarà un calvario di sofferenze, ricoveri ospedalieri e operazioni mediche, che non
le impediranno comunque di vivere in prima persona e con intensità i più importanti avvenimenti politici di quegli anni e una serie di tormentose passioni amorose. Frida inoltre diede vita a uno straordinario corpus artistico contenente più di duecento opere pittoriche, tutte rigorosamente a fuoco su di lei. Uscita dall'ospedale infatti fu obbligata ad anni di riposo nel letto di casa, con il busto
completamente ingessato.


Questa condizione la portò a concentrarsi nella lettura di libri sul movimento comunista e a dipingere. Il primo lavoro di Frida fu un autoritratto, che regalò al ragazzo di cui era innamorata. I genitori, vista la nuova passione della giovane donna, decisero di donarle un letto a baldacchino con uno specchio sul soffitto che le permettesse di guardarsi, e le comprarono dei colori per dipingere. Cominciò così la sequenza di autoritratti nei confronti dei quali l’artista stessa affermò: "Dipingo me stessa perché passo molto tempo da sola e sono il soggetto che conosco meglio". Una volta tolto il gesso riuscì a camminare di nuovo, ma con dolori che dovette sopportare per tutta la vita. Deciso quindi che
l’arte era la sua strada Frida, per partecipare economicamente al sostegno della sua famiglia, un giorno portò i propri dipinti al più famoso pittore dell'epoca in Messico, Diego Rivera, per avere la sua opinione.
Frida Kahlo, autoritratto con scimmia
Lo stile moderno di Frida colpì molto Rivera, tanto che decise di prenderla sotto la propria ala protettrice, guidandola nella scena culturale e politica messicana. Nel 1928 la giovane donna
si iscrisse al Partito Comunista Messicano, diventandone un'attivista. Assistette a molte manifestazioni innamorandosi nel frattempo del suo mentore, Diego Rivera. Cosciente dei continui tradimenti a cui sarebbe andata incontro, nel 1929 decise di sposarlo. Ma Frida era una donna forte e seppe rispondere alle sofferenze sentimentali con numerosi rapporti extraconiugali che anche lei si
concesse, incluse diverse esperienze omosessuali. Tra i suoi amanti figurarono, fra i tanti altri e altre, il rivoluzionario russo Lev Trockij e il poeta André Breton.

Frida Kahlo, autoritratto con collana di spine
Fu inoltre amica e probabilmente amante di Tina Modotti, militante comunista e fotografa nel Messico degli anni Venti. Forse esercitarono un certo fascino su Frida Kahlo anche la russa Aleksandra Kollontaj, che visse in Messico dal 1925 al 1926 come ambasciatrice di Mosca, la ballerina, coreografa e pittrice Rosa Rolando e la cantante messicana Chavela Vargas. Il marito Rivera fu poi chiamato negli USA all’inizio degli anni Trenta per realizzare il dipinto murale all'interno del Rockefeller Center di New York, e gli affreschi per l’Esposizione universale di Chicago e Frida lo seguì. Durante il soggiorno a New York la donna rimase incinta, ma il suo fisico, inadeguato a un tale evento, le procurò un aborto spontaneo: questo tragico episodio la turbò
molto e decise di tornare in Messico col marito.


I due artisti stabilirono di abitare in case separate, ma unite da un ponte, in modo da avere ognuno i propri spazi. Nel 1938 Marcel Duchamp, che insieme a Kandinsky, Mirò e Tanguy, fu un suo
fervente estimatore, la ospitò a Parigi e l’aiutò a montare la sua prima mostra europea. La mostra fu decisa da Breton, che volle fare della pittrice la bandiera del surrealismo internazionale, nonostante fosse evidente che la Khalo non volesse essere contenuta in nessuna gabbia teorica e tanto meno in una corrente artistica. Nel 1939, a causa del tradimento di Rivera con Cristina Kahlo, la sorella di Frida, divorziarono. Malgrado i tradimenti però Rivera non smise mai di amarla e un anno dopo tornò da Frida con una nuova proposta di matrimonio che lei accettò anche se con diverse riserve. E così i due artisti si risposarono nel 1940 a San Francisco.

Frida Kahlo, io e i miei pappagalli
Il rapporto tra la Kahlo e Rivera però non fu sono d’amore, ma anche di scambio creativo: Frida infatti assimilò da Diego uno stile naïf, che la condusse a dipingere piccoli autoritratti influenzati dall'arte popolare e dalle tradizioni precolombiane. Il suo scopo era, utilizzando soggetti estratti dalle civiltà native, di dichiarare la propria identità messicana. Nel 1953 Frida Kahlo fu tra coloro i quali firmarono per richiedere la grazia per i coniugi Rosenberg, comunisti americani condannati a morte e poi giustiziati a New York per supposto spionaggio a favore dell'URSS. Ma per la Kahlo si avvicinava inesorabilmente la fine. Le sue condizioni di salute si aggravarono e pochi anni prima della sua morte all’artista venne amputata la gamba destra, ormai in cancrena. La pittrice si spense per un’embolia polmonare a 47 anni nel 1954.


Fu cremata e le sue ceneri furono trasportate nella sua Casa Azul. Le ultime parole che scrisse nel diario furono: “Spero che la fine sia gioiosa e spero di non tornare mai più”. Le opere della Khalo, dopo un periodo di oblio che andò dal 1954, anno della sua morte, al 1977, quando i circuiti internazionali la riscoprono, hanno raggiunto oggi quotazioni da più di un miliardo di dollari. Dal 1958 Città del Messico le ha dedicato un museo ricavato nella Casa Asul di Avenida Londres dove l’artista nacque, visse e morì e che Rivera donò alla città alla morte della moglie. Di lei André Breton, teorico della scuola surrealista, scrisse: “L’arte di Frida Khalo è un nastro intorno a una bomba”. Mentre Pablo Picasso, in una lettera inviata a Diego Rivera disse: “Né Derain, né tu, né io siamo capaci di dipingere una testa come quelle di Frida Khalo”. Per lei la pittura rimase comunque un’incidente di percorso, un’esigenza ben espressa dall’artista quando disse: “Dipingo la mia realtà. La sola cosa che so è che dipingo perché ne ho bisogno e dipingo tutto quello che mi passa per la testa”.

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Intervista a Jessica e Alejandra, curatrici di Art e Dettaglio

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Riprendo dopo un po di tempo l'ormai celebre rubrica del blog dedicata agli art blogger: "c'è arte nella blogosfera". Oggi conosceremo Alejandra e Jessica le curatrici di Art e Dettaglio.
Questo blog di recente nascita è un contenitore di amore e passione per tutto ciò che riguarda l’arte. Secondo queste due giovani storiche dell'arte, i dettagli significano molto: si può apprezzare davvero la genialità degli artisti solo guardando le loro opere così da vicino da poterle toccare.

Vorrei che per cominciare vi presentaste, chi siete, quali studi fate o avete fatto, quando e perché avete iniziato a scrivere il blog, e qual è lo scopo, la missione, il fine che vi siete prefissati diventando blogger.

Ci siamo conosciute  tra i banchi universitari, abbiamo seguito insieme lo stesso corso di Storia dell'Arte all'università La Sapienza di Roma. Siamo diventate prima amiche e poi "colleghe" visto che condividiamo la stessa viscerale passione per tutto ciò che riguarda l'arte! Entrambe avevamo la stessa idea: raccontare l'arte in modo diverso, "più sentito", per avvicinare quante più persone possibili alla materia ma cosa più importante per far conoscere a tutti il nostro immenso patrimonio artistico. Sembra assurdo ma molta gente non sa neanche chi ha dipinto la Cappella Sistina...se vivi in Italia è una vergogna!!!  

Qual è il vostro rapporto, il vostro approccio con il luogo per eccellenza che custodisce le opere d'arte, cioè il museo: siete più da "turistodromo" o preferite musei poco frequentatati e quale vi sentireste di consigliare ai lettori di Artesplorando.

Noi siamo amanti di ogni luogo. Andiamo spesso in giro alla ricerca della bellezza, ci fermiamo ammiriamo e fotografiamo anche un affresco o un mosaico meraviglioso conservato anche in piccoli paesi e per questo spesso abbandonato a se stesso. Ci sentiamo di dire ai lettori che non esiste soltanto il museo, in Italia abbiamo arte in ogni angolo, però ovviamente la visita al museo è imprescindibile! Spesso ci piace visitarli in occasione delle aperture serali, c'è una magia che rende il museo diverso...e soprattutto per chi si trova a Roma e vuole vedere in serenità i Musei Vaticani beh questa è l'unica alternativa!!! 

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Che rapporto avete con le mostre? Oggi spesso diventano eventi mediatici molto pubblicizzati, ma alla fine di poca sostanza. Quali sono le mostre che preferite e se volete fate un esempio di una in particolare che vi ha colpito.

Ogni volta che esce l'annuncio di una nuova mostra la mettiamo subito in agenda per andarla a vedere quanto prima, sia per amore e per curiosità e sia perché le mostre di oggi sembrano sempre eventi imperdibili, un'occasione che non puoi perdere e che non ritornerà più. Ecco questo concetto di mostra può essere fuorviante ma per noi che siamo amanti dell'arte la visita al museo ci sta anche senza un grande nome in esposizione. 
Ci sono le collezioni permanenti che sono già di per se meravigliose e possono essere viste più volte...ti lasceranno sempre qualcosa di nuovo ad ogni visita! 
L'ultima mostra che ci ha emozionato è stata quella sulla fotografia di Gianni Berengo Gardin a Palazzo delle Esposizioni di Roma. Vedere la realtà con i suoi occhi e lo spaccato dell'Italia, della nostra storia e di quello che siamo è stato davvero da brividi. 

Se foste il ministro dei beni culturali e il Presidente del Consiglio vi desse carta bianca, quale sarebbe il vostro primo provvedimento?

Il dovere del Ministro dei beni culturali è senz'altro sistemare la situazione catastrofica in cui ci troviamo oggi. Non è possibile che non ci sia una coscienza artistica nelle scuole in un Paese come l'Italia. Innanzitutto partiremmo da lì, dalla formazione dei cittadini che saranno la classe dirigente del futuro. Sensibilizzarli all'arte e al tema è la prima cosa. Poi toglieremmo tutta quella gente incompetente che ti accoglie all'interno di qualsiasi galleria o museo. Se fai una domanda di arte in pochi sanno darti una risposta esaustiva, allora il loro ruolo qual è?!
I luoghi d'arte non hanno bisogno di uscieri che aprono e chiudono soltanto le porte, hanno bisogno di Storici dell'arte. 

Cosa proporreste di leggere a una persona che si avvicina per la prima volta alla storia dell'arte? Un testo scolastico, un saggio o una monografia?

Per chi si avvicina per la prima volta alla storia dell'arte noi consigliamo di leggere i nostri articoli d'arte e con nostri intendo tutti quelli degli Art Blogger in generale! La lettura sul web è adatta a tutti, è breve e coincisa, è accattivante ed è immediata a portata di un click! 


Arriva il Diluvio Universale e voi avete la possibilità di mettere qualche opera d'arte nell'arca di Noè, quali scegliereste?

Una di noi salverebbe in qualche modo l'intera Cappella degli Scrovegni e l'altra l'Ultima cena!!!  

Con quale artista, anche non più tra noi, vi sentireste di uscire a cena o a bere qualcosa? Perché?

Sicuramente andremmo volentieri a cena con Jackson Pollock sarà stato un tipo divertente!!!  

Oggi in TV e alla radio non c'è molta arte, e cultura in generale. voi cosa consigliereste di guardare (o ascoltare) al lettore di Artesplorando. Può anche essere un programma non prettamente d'arte, ma al cui interno ci sia un'approfondimento artistico. In onda ora, ma anche nel passato (ovviamente valgono anche le web-tv).

Il canale di SkyArte oggi offre tanti bei documentari sulle nostre bellezze artistiche e poi Alberto Angela con Ulisse ci tiene ottima compagnia mettendoci tanta passione! 

In un ipotetico processo alla storia dell'arte voi siete la difesa, l'accusa è di inutilità e di inadeguatezza ai nostri tempi, uno spreco di tempo e di soldi. Fate un'arringa finale in sua difesa.

Tutti quando ci chiedono "di cosa ti occupi" alla nostra risposta sbarrano sempre gli occhi, come se l'arte fosse qualcosa di anormale ed inutile. Forse non tutti si rendono conto che le opere d'arte che deteniamo in Italia raccontano la nostra storia, rappresentano la nostra cultura e la nostra umanità. Siamo stati fortunati ad aver ereditato tutta questa bellezza che neanche ci meritiamo, quindi è nostro dovere sopra ogni cosa proteggerla, valorizzarla e amarla soprattutto! Un mondo più sensibile è sicuramente un mondo migliore. 

Concluderei con una bella citazione sull'arte, quella che più vi rappresenta!

La nostra citazione preferita cade proprio a pennello con quanto appena detto: la bellezza salverà il mondo...ma solo se il mondo sarà in grado di salvare la bellezza!!!  

E con questa splendida citazione salutiamo Alejandra e Jessica e ... tutti a leggere Art e Dettaglio:

Hokusai Manga

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Nuovo post della rubrica "Art si gira!!!" in cui ogni volta scopriamo un film dedicato a qualche artista. Oggi vi porto nel lontano Giappone.
Hokusai Manga, meglio conosciuto a livello internazionale con il titolo di Edo porn, è un film biografico del 1981 basato sulla vita dell'artista giapponese Katsushika Hokusai (1760-1849) e diretto da Kaneto Shindo. Il film trae ispirazione visiva e narrativa dall'omonima raccolta dell'artista contenente moltissimi disegni e schizzi, concentrandosi sulla curiosa storia che sta dietro alla creazione della celebre opera di intitolata Il sogno della moglie del pescatore. Si tratta di un film che segue le peripezie dell'artista, vissuto tra XVIII e XIX secolo, nell'epoca Edo, partendo dagli esordi più poveri per arrivare al successo in tarda età con le sue opere più famose, tra cui i celebri disegni erotici.

Nonostante il titolo intrigante dato a questo film nella versione inglese, Edo porn, in realtà si tratta di una biografia storica di Katsushika Hokusai, le cui opere seppero combinare la stampa xilografia, gli inchiostri colorati, e una raffigurazione molto stilizzata di paesaggi e personaggi. Il titolo giapponese di questo film è comunque Hokusai manga, prendendo il nome dal taccuino dell'artista pubblicato intorno al 1814. Questo preziosa raccolta di disegni e la sua famosa collezione di xilografie intitolata Trentasei vedute del monte Fuji, contribuirono a renderlo una vera celebrità quando era vivo, ma dopo la sua morte ancora di più. Il lavoro di Hokusai infatti non influenzò solo le giovani generazioni di artisti in Giappone, come Hiroshige e Kuniyoshi, ma affascinò molti pittori europei come gli impressionisti francesi (vedi post sul "giapponismo").


Un sottoinsieme dei disegni contenuti nell'Hokusai manga erano i cosiddetti Shunga, stampe erotiche raffiguranti amanti in varie pose più o meno esplicite e alcune molto fantasiose. Così gli Shunga erano in sostanza l'espressione delle fantasie erotiche dei giapponesi durante il periodo Edo, oltre che una tradizione artistica a cui Hokusai si dedicò intensamente. Un tema che ossessionava particolarmente l'artista era la rappresentazione di una donna posseduta da un grande polipo tentacolare: probabilmente non ci vuole un grande sforzo d'immaginazione per capire che Hokusai fu il padre dei moderni fumetti Hentai, espressione di tutte le più folli perversioni erotiche.

Ma la narrazione del film va anche ben al di là di questi evidenti elementi biografici e include molte altre realizzazioni artistiche oltre che le relazioni personali dell'artista. Tra queste l'importante rapporto che legò Hokusai a sua figlia Oi che fu accanto a lui per tutta la vita e che divenne anch'essa una celebre artista. Ma in questo film emerge anche il fascino di Hokusai e la sua ossessione per la bella modella Onae che aggiunge alla trama un pizzico di intrico e turbamento interiore.

E' chiaro però che la relazione più profonda e importante esplorata è quella tra Hokusai e Kyokutei Bakin (1767-1848) un amico intimo dell'artista nonché celebre scrittore. Kyokutai è infatti l'autore del poema epico La storia degli otto cani dei Satomi di Nansô, un incredibile racconto contiguo che segue le imprese di otto fratelli samurai, coraggiosi e onesti mentre vagano in tutto il paese incontrando varie sfide. Hokusai dal canto suo fece le illustrazioni per diverse opere dell'amico Kyokutei.

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Ma veniamo al giudizio sul film: si tratta tutto sommato di una biografia piuttosto lineare che ci presenta una figura storica molto nota, ma forse il regista si è soffermato troppo solo su alcuni aspetti della società dell'epoca. Vengono descritti accuratamente i passatempi più popolari degli abitanti di Edo, odierna Tokyo: terme, bordelli, osterie e piaceri squallidi sono infatti portati in primo piano, mentre mancano completamente i samurai, la nobiltà e la politica del tempo.
Il pubblico giapponese e la storia in generale ricordano Hokusai in una luce molto favorevole, e qui, nonostante le sue fissazioni edonistiche, dominanti nella trama del film, emerge il ritratto di un individuo molto nobile e disciplinato, espressione perfetta delle qualità giapponesi: tenacia e dedizione totale al proprio lavoro.
Consigliato si, ma solo a chi non si lascia scandalizzare troppo facilmente dalle fantasie della mente umana, incluse le più basse perversioni erotiche.

Per maggiori info QUI

Fumetto come teatro dell'esistenza quotidiana

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Nuovo post dalla rubrica #IconaFumetto che ripercorre per voi la storia di questa forma d'arte, tra illustrazione e cinema.
Oggi vedremo che il fumetto all'inizio del Novecento cominciò ad interessarsi non più ai marginali, i ricconi, o i poveri, in parole povere agli "altri", ma si rivolse verso la classe sociale dei lettori. Ecco che il teatro dell'esistenza quotidiana, familiare, venne riproposto sulle strisce disegnate con ironia, spingendo i lettori alla finestra, per ridere dei vicini, ma non solo. Questi racconti aiutarono le persone a guardarsi allo specchio per ridere di se stessi. Fu allora che il fumetto scoprì la sua vocazione democratica di commento sociale, satira di costume, analizzando la realtà sempre da diversi punti di vista.

In questa dinamica di rapporti tra genitori e figli, tra mariti e mogli, tra nonni e nipotini, tra fratelli, cugini, vicini di casa, lattai, postini e così via si inserisce dal 1912 Polly and Her Pals di Cliff Sterret. In questa serie vediamo le disavventure domestiche degli anziani genitori e parenti vari di una ragazza festaiola di nome Polly.
La più famosa family strip è però senza dubbio Bringing Up Father, uscita nel 1913 e tradotta in Italia come Arcibaldo e Petronilla o come Zenobaldo e Domitilla. Questo capolavoro di George McManus, ex-disegnatore di moda racconta di come l'improvvisa ricchezza proveniente da una vincita miliardaria non cambi la personalità semplice dell'immigrato irlandese Jiggs, mentre trasforma la moglie e la figlia in due insopportabili arricchite con ambizioni mondane.

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Abie the Agent di Harry Hershfield affronta con allegra serietà le problematiche degli affari e della politica dal punto di vista delle minoranze etniche, in questo caso ebraiche. Uscito nel 1914 venne definito "il primo fumetto adulto d'America" e fu anche il primo in cui i personaggi quando pensano lo fanno all'interno di "nuvolette mosse" diverse dalle altre.
Ribattezzato in Italia Meo Bichico, sul "Corriere dei Piccoli", Boob McNutt di Rube Goldberg, prodotto dal 1915, è uno dei più strambi protagonisti dei primi comics. Vestito sempre molto casual e capace solo di mettersi nei guai, questo sciocco biondone ci introduce in un universo pieno di sorprese e di divertenti invenzioni linguistiche. Valse al suo autore il premio Pulitzer nel 1948.


Sidney Smith nel 1917 crea The Gumps in cui vediamo le disavventure di una tipica famiglia del ceto medio. Il padre di famiglia si chiama Andy, la madre Min e il figlio Chester che insieme a cani e gatti si trovano a dover superare le piccole tribolazioni quotidiane.
Barney Googleè un ometto fanatico di tutti gli sport, per i quali arriva a dimenticare anche la famiglia. Creato dalla fantasia di Billy De Beck, comincia ad uscire dal 1919 e nel 1934 gli si affianca una nuova spalla comica, lo zotico e rumoroso Snuffy Smith, tanto invadente che pochi anni dopo gli ruberà il ruolo di primo mattatore.


Nel 1918 le automobili non sono ancora un argomento diffuso, ma Frank O. King creando Gasoline Alley pone al centro di un fumetto le disavventure di un gruppo di amici alle prese con i problemi tecnici delle automobili. Nel 1921 appare un neonato trovatello che verrà adottato dal giovane Walt Wallet, diventando il fulcro della strip. Questo fumetto inoltre è il primo a procedere "in tempo reale" facendo invecchiare i propri personaggi in base al vero scorrere degli anni.

Continua l'esplorazione ...

Se vuoi scoprire tutta la storia del fumetto segui l'etichetta #iconafumetto

Fonti: Gulp!100 anni a fumetti, a cura di Ferruccio Giromini, Marilù Martelli, Elisa Pavesi, Lorenzo Vitalone, Electa, Milano, 1996

I bamboccianti. Quotidianità tra realismo, ironia e stereotipi

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Un collage di opere di Pieter van Laer detto "Bamboccio"
Un nome strano e un po' buffo a dire il vero, "bamboccianti". Sicuramente molti di voi, visitando uno dei tanti musei italiani, si saranno imbattuti in un quadro appartenente a questo curioso gruppo di pittori. Ma da dove nasce questo nome?
Il termine compare per la prima volta nella Satira sulla Pittura scritto dal pittore Salvator Rosa, alla metà del quinto decennio del Seicento, e nella lettera dell'artista Andrea Sacchi al collega Francesco Albani, scritta da Roma nel 1651 e pubblicata dallo storico dell'arte bolognese Carlo Cesare Malvasia nella Felsina pittrice. In entrambi i testi sono elencate le caratteristiche di un genere pittorico detto "bambocciata", i cui autori sono chiamati bamboccianti. Presto questo termine venne usato dagli scrittori d’arte in modo negativo per indicare i seguaci, per lo più fiamminghi e olandesi, di Pieter van Laer, soprannominato "bamboccio".

A Roma a partire dal quarto decennio del Seicento e fino alla fine del secolo, i bamboccianti dipinsero scene di genere di soggetto popolare e romano, in tele di formato ridotto e a piccole figure. I temi della bambocciata consistono in episodi di vita contadina e urbana e hanno come protagonisti contadini, straccioni e mendicanti, a volte raffigurati realisticamente, ma più spesso caratterizzati in chiave grottesca. Studi recenti sull’evoluzione della bambocciata e sui suoi protagonisti hanno chiarito come la tematica bambocciante risalga solo in parte alla produzione di Van Laer: si ritrova infatti solamente in un piccolo numero di opere databili verso la fine del suo periodo romano in cui compaiono per la prima volta il motivo dei giocatori di morra e le figurine di straccioni che presto i suoi seguaci renderanno popolari.

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Furono infatti riprese da Andries Both a Roma dal 1634 in opere in cui mostra di condividere anche gli interessi paesistici di Van Laer, ambientando le sue scene popolari a piccole figure in una cornice urbana attentamente osservata nella successione di spazi e nei contrasti luminosi. Alcuni dei suoi temi furono ripresi dal fratello Jan Both, che nella sua produzione più specificamente bambocciante, limitata al soggiorno romano, si dimostrò però più interessato alla resa degli effetti luminosi e atmosferici del paesaggio urbano. Questo aspetto conferma la stretta relazione che, almeno in un primo tempo, unì paesisti e bamboccianti.

Una serie di opere di Jan Both
Questo mix d’interessi caratterizzò la produzione di Thomas Wijck, attivo a Roma fra il 1640 e il 1642. Tema dominante delle opere presumibilmente eseguite in Italia sono infatti i cortili e le piazzette di una Roma animata da figurine di lavandaie e venditrici di frutta. Nei disegni eseguiti dal vero e successivamente rielaborati Wijck sembra attratto, come i paesisti italianizzanti, dalla continuità tra antico e nuovo e dal contrasto tra i resti ancora imponenti e suggestivi della Roma antica e la loro riutilizzazione nella città moderna.

Un collage di opere di Thomas Wijck
L’opera di Jan Miel invece, attivo a Roma fino al 1658, si condensa in dipinti di soggetto rustico con scene di vita contadina, spesso replicate con poche varianti. Jan Miel può dirsi responsabile
dell’invenzione e della diffusione dei motivi iconografici che fino alla fine del XVII secolo caratterizzeranno la bambocciata: come ad esempio i Cavadenti e le numerose scene di carnevale.
Michelangelo Cerquozzi è un altro bambocciante, autore di battaglie, nature morte e di soggetti
sacri e profani a piccole figure. La sua produzione si distacca da quella del fiammingo per una vena narrativa molto più varia e articolata, la felice differenziazione dei tipi fisici e una più esatta percezione di situazioni tipicamente italiane.Nelle sue opere migliori viene meno quella tendenza alla tipizzazione che costituisce il limite del realismo bambocciante.

Un insieme di bambocciate di Jan Miel
Altre opere inserite nel gruppo delle bambocciate appartengono a: un anonimo Maestro dei Mestieri romani, probabilmente attivo a Roma nella seconda metà degli anni ’40 e identificato da alcuni studiosi con il giovane Johannes Lingelbach;  Anton Goubau, direttamente influenzato da Jan Miel, mentre; Theodor Helmbreker, con cui il genere si conclude.
Del tutto isolata è la figura di Michael Sweerts che sarebbe improprio definire solo bambocciante.
Benché i temi delle opere eseguite durante il soggiorno romano richiamino la produzione dei bamboccianti, se ne distaccò per l’impegno profondamente realista e serietà con cui raffigura un’umanità lacera e diseredata senza mai cedere al gusto per l’aneddoto e per la narrazione briosa che distingue invece la più tipica bambocciata. Solo a Sweerts e al suo particolare realismo si addice la definizione di "caravaggista a passo ridotto" con cui Roberto Longhi nel 1943 inaugurò la riscoperta dei bamboccianti.

Michael Sweerts, il grande giorno della lavanderia

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Le feste e l'effimero nel barocco

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G.G. De' Rossi, corte e "possesso" di Alessandro VII
Abbiamo già visto come gli apparati, gli addobbi e gli ornamenti, collegati a feste o particolari ricorrenze, siano molto comuni nella storia dell'arte. La festa però è uno dei momenti più emblematici dell'età barocca in particolare. La festa infatti divenne da un lato uno strumento celebrativo del potere politico e religioso, dall'altro fu la massima affermazione del fine culturale del secolo: la ricerca della "meraviglia". Tutti gli stati italiani e stranieri furono impegnati nell'organizzazione di feste che ebbero come caratteristica quella d'essere destinate al più vasto pubblico possibile, quello popolare e borghese, generalmente escluso dai festeggiamenti privati ed elitari dell'aristocrazia.

Le occasioni di queste feste  erano le più disparate, sia di natura sacra che profana: quelle sacre erano collegate a eventi fondamentali per la Chiesa, come la Pasqua, la Quaresima, la canonizzazione di santi o l'elezione di nuovi papi. Gli eventi profani erano molto spesso collegati alla vita dei regnanti e alle vicende politiche degli stati alleati; oppure erano feste popolari di antica tradizione come il Carnevale.

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Tutti questi diversi tipi di festa erano però accomunati da alcune caratteristiche: in primo luogo l'ambientazione che era esclusivamente o prevalentemente la città. Nell'ambiente urbano si snodavano processioni e trionfi, si collocavano archi trionfali lungo le strade, apparati decorativi e d'illuminazione mobili sulle facciate di case, palazzi e chiese; la città con i suoi spazi e le sue architetture era protagonista dell'evento.
Nell'incisione che riproduce la processione del "possesso" di Alessandro VII, un gesto simbolico che veniva compiuto da ogni papa appena eletto, vediamo il corteo del pontefice che dal Vaticano, luogo della sua elezione, arriva al Laterano, palazzo del potere pontificio. Il corteo si snodava per le vie dell'Urbe toccando i luoghi più significativi della Roma seicentesca, quali il Colosseo o il Campidoglio.

Girolamo Rainaldi, apparato effimero per la facciata di San Pietro
Altro aspetto molto interessante è il ruolo dell'effimero in queste feste. Infatti tutto ciò che veniva realizzato per questi eventi era destinato poi a essere smantellato, tranne in rarissimi casi. Ed è per questo motivo che le testimonianze giunte fino a noi sono quasi esclusivamente di tipo archivistico. La facciata effimera di San Pietro progettata dall'architetto Girolamo Rainaldi in occasione della canonizzazione di san Carlo Borromeo nel 1610 è un esempio: alta 30 metri, era realizzata in legno e tela, e in essa si trovavano i ritratti di 35 santi vescovi di Milano. Sovrapposta alla facciata della basilica piacque molto al pubblico dell'epoca, ma di essa non è rimasta traccia.

Il teatro di Gian Lorenzo Bernini per la canonizzazione di santa Elisabetta
di Portogallo
A coordinare l'allestimento e i progetti di una festa era quasi sempre un architetto, molto spesso quello più in vista alla corte. Famose sono le "regie" di Gian Lorenzo Bernini sia presso la corte di papa Urbano VIII che, dopo il suo trasferimento in Francia, presso quella francese. Basti ricordare la canonizzazione di Elisabetta del Portogallo, evento che portò alla realizzazione di un teatro, ovvero una struttura effimera all'interno della basilica di San Pietro e precisamente all'incrocio dei bracci, sotto la cupola. Quello berniniano venne fatto in legno, decorato con finti marmi, stucchi e dorature, abbellito con 24 colonne intervallate da statue di 14 regnanti portoghesi, dipinti con i miracoli della santa e stendardi. Ma anche di questo splendido apparato non ci resta più nulla se non un'incisione, ricordo di quella festa dell'effimero che fu il barocco

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Caspar David Friedrich

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Caspar David Friedrich, autoritratto
Caspar David Friedrich nacque nel 1774 a Greifswald, in Pomerania, città tedesca di 5.000 abitanti sulle rive del mar Baltico, annessa alla Prussia nel 1815. Caspar fu il sesto dei dieci figli di Gottlieb Adolf, fabbricante di sapone e di candele, e di Sophie Dorothea Bechly. Dura e triste fu la sua vita, orfano di madre a sette anni, gli morì la prima sorella, Barbara, quando questa aveva appena venti mesi e l'altra, Elisabeth, già grande, quando lui di anni ne aveva diciassette. La morte è costantemente presente nello spirito dei romantici, ma a maggior ragione fu presente nella vita di questo artista.

Anche la natura però è una costante, grandiosa e temibile, la natura con gli alberi morti e le architetture in rovina, i cimiteri e le lande nebbiose e desolate. Friedrich ebbe a che fare fin da giovane con questa natura immensa e crudele, infatti quando era appena un ragazzo, nel 1787, quasi affogò. Il giovane artista appena tredicenne stava pattinando sulla superficie ghiacciata di un lago, quando questa si ruppe sotto il suo peso e lui cadde nelle sue gelide acque. Fu salvato dal fratello Johann che purtroppo però, nello sforzo di combattere contro l’acqua e il ghiaccio, annegò.

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Anni dopo, questo episodio tragico, ispirerà il pittore che immortalerà quella stessa natura matrigna e talvolta terribile, narrando in un suo dipinto il disastro di una sfortunata spedizione al Polo Nord, nel Mare Artico. Friedrich cominciò a cimentarsi nella pittura nel 1790, sotto la guida dell'artista Johann Quistorp all'università di Greifswald. È proprio da questo momento che l’artista ebbe modo di avvicinarsi alla natura e al paesaggio perché Quistorp era solito portare i propri allievi a dipingere all’aperto. Furono anni decisivi per il pittore che, unendo la passione per la teologia con quella per la pittura di paesaggio, cominciò a formare il proprio stile. Quattro anni dopo, Friedrich iniziò gli studi all’importante Accademia d'Arte di Copenaghen, la più prestigiosa dell'Europa settentrionale, dove allenò le sue capacità artistiche copiando le statue antiche.

Gli alberi sono tra i protagonisti delle opere di Friedrich
Dopo gli studi all’accademia di belle arti di Copenhagen, dove conobbe le opere di importanti artisti del suo tempo, Friedrich si stabilì a Dresda, frequentando poeti, letterati e altri pittori della sua generazione. Raccolse i primi successi con grandi disegni a seppia, dalla tecnica precisa, che rappresentarono soprattutto luoghi dell’isola di Rügen, la più grande della Germania, situata nel mar Baltico. Per Friedrich l’affermazione come artista arrivò nel 1805 quando ottenne il primo premio a un concorso a Weimar, diretto dal famoso Johann Wolfgang von Goethe. Le sue profonde riflessioni sulla natura e un’osservazione scrupolosa della realtà gli avevano consentito di trovare la propria originalità e questa piacque molto alla critica del tempo. Nonostante i molti viaggi che fece in Europa, ritornò a più riprese in patria creando con questo contatto uno stile di paesaggio caratteristico, cominciando a usare anche la tecnica a olio.

Caspar David Friedrich, quadro d'altare di Tetschen
Nel Quadro d’altare di Tetschen impiegò una veduta suggestiva per tradurre, attraverso la pittura, la propria emozione religiosa. È però forse l’opera Monaco sulla riva del mare l’espressione più perfetta della sua concezione trascendentale del paesaggio. Nuovi viaggi sulle rive del Baltico nel 1809, poi nel 1810 sui monti dei Giganti, e nello Harz, catena montuosa nella Germania settentrionale, nel 1811, arricchirono di temi il suo repertorio artistico. Tra i paesaggi di questo periodo si possono citare l’Arcobaleno, il Paesaggio del monte dei Giganti, l’Abbazia nel bosco e il Mattino sul monte dei Giganti che sono tra le opere più incisive di questa fase.

Caspar David Friedrich, monaco in riva al mare
Lo scrittore, poeta e drammaturgo tedesco Johann Wolfgang von Goethe, che in precedenza aveva già premiato Friedrich al concorso di Weimar, s'interessò talmente alla sua pittura che lo andò a trovare tra il 1810 e il 1820 ricavandone una grande impressione dalla vista del quadro Monaco sulla riva del mare. Nel 1810 l’artista divenne membro dell'Accademia di Berlino e sempre lo stesso anno, il principe ereditario prussiano comprò due dei suoi quadri. Eppure nel 1816 Friedrich decise di prendere le distanze dalla Prussia, impegnandosi nel giugno dello stesso anno per ottenere la cittadinanza sassone. Il pittore non solo ottenne la cittadinanza, ma diventò anche un membro dell'Accademia Sassone, con un compenso di 150 talleri all'anno.

Caspar David Friedrich, donna al tramonto del sole
Nel periodo seguente, la ricerca di universalità limitò l’espressione della sua fantasia e del suo linguaggio formale, ma questo lo portò a una nuova evoluzione, seguita a due viaggi sulle rive del Baltico nel 1815 e nel 1818 e a un evento che cambiò la sua vita. Il 21 gennaio 1818 Friedrich sposò, con grande sorpresa dei suoi amici, una ragazza di umili origini: Caroline Bommer, figlia di un fattore. La coppia ebbe tre figli: la primogenita, Emma, arrivò nel 1820. Il matrimonio non ebbe un particolare effetto sulla personalità dell’artista, ma va notato che nelle tele dipinte in questo periodo emerse un nuovo senso di leggerezza. Da questo momento il pittore si ispirò più strettamente alla natura preferendo motivi idillici e il colore stesso si arricchì di maggiori tonalità. In questi anni l’artista portò a termine uno dei suoi dipinti forse più suggestivi: Viandante sul mare di nebbia.

Caspar David Friedrich, viandante sul mare di nebbia
Quest’opera è veramente entrata nella cultura di massa, ispirando scrittori, registi, cantanti e collegandosi indelebilmente all’idea malinconica di romanticismo. A partire dal 1820 Caspar eseguì, unitamente a paesaggi in riva al mare e in collina, alcune composizioni di alta montagna in base a studi fatti da amici artisti, come il Watzmann, e Alta montagna. Friedrich realizzò anche diversi dipinti con vedute del Mare polare, ma la sola a giungere fino a noi è quella intitolata Il mare di ghiaccio o Il naufragio della speranza, attualmente custodito presso la Kunsthalle di Amburgo. Intorno al 1825 i paesaggi malinconici riacquistarono un’importanza predominante nel suo lavoro e nel suo periodo tardo, il tratto si fece più morbido e il colore più intenso.


Con il tramonto degli ideali romantici, anche la reputazione e l’importanza di Friedrich sfiorirono e gli ultimi vent’anni della sua vita furono segnati da un lento ma inesorabile declino. A questo si aggiunse una malattia di cui la precisa natura ci è ancora del tutto sconosciuta. Ovviamente i temi delle opere dell’artista ne risentirono e comparirono sempre più spesso richiami alla morte. Nel 1835 fu colpito da un attacco di apoplessia, in seguito al quale produsse solamente disegni. Malato, debole e depresso, con grandi difficoltà per potersi guadagnare ancora da vivere, Caspar David Friedrich morì il 7 maggio 1840 e fu sepolto nel cimitero della Trinità di Dresda.

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Hello Museo a Pompei

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Nuovo appuntamento con la rubrica "hello museo", nella quale recensisco la presenza dei musei sul web. Vi parlerò di uno dei luoghi più visitati al mondo: Pompei. Più che un museo un insieme di scavi archeologici che sono racchiusi sotto la guida della Soprintendenza Pompei al cui interno vi sono anche Ercolano, Oplonti, Boscoreale e Stabia. Luoghi che conservano dei capolavori straordinari. Cominciamo quindi la nostra esplorazione virtuale per conoscere meglio i siti e i profili social ufficiali legati a questi scavi archeologici che il mondo ci invidia. La Soprintendenza di Pompei si è dotata di un sito tradotto anche in inglese che trovate QUI

L'aspetto grafico del portale è moderno e accattivante: la home page ha un bell'insieme di foto, informazioni, link, una panoramica generale non troppo affollata e ben organizzata. Scorrendo la pagina troverete le informazioni base come gli orari, l'acquisto dei biglietti, le news riguardo a eventi, chiusure o aperture straordinarie dei siti archeologici e una serie di articoli in primo piano. A fondo pagina i contatti ufficiali della Soprintendenza. Nella barra ti testa, in cima al sito, vedrete un menù composto da cinque aree principali: la Soprintendenza, bandi e gare, mostre ed eventi, pompeiana, progetti e attività che vi permetteranno di sfogliare diverse sottosezioni con molto materiale messo a disposizione dei visitatori virtuali.


Nella prima sezione troverete il classico "chi siamo" con tutte le informazioni sullo staff della Soprintendenza, i servizi al pubblico, l'ufficio stampa, i vari siti archeologici suddivisi e le informazioni pratiche per la loro visita. Nella seconda sezione i bandi e le gare sono separate tra quelle in corso, gli esiti e l'archivio. Nella terza sezione una bella panoramica delle mostre e degli eventi in corso e in archivio. Nella quarta parte troverete quattro interessanti sottosezioni: il SIAV - Sistema Informativo Archeologico Vesuviano; una documentazione iconografica su Pompei costituita da disegni, incisioni, acquerelli, litografie e gouaches, video e foto; la letteratura dedicata a Pompei; e una corposa sezione con approfondimenti per la didattica. Infine la quinta sezione è riservata al Grande Progetto Pompei con lo stato d'avanzamento dei lavori, agli scavi e alle ricerche e al laboratorio ricerche applicate.

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Quindi un sito con una bella grafica, utile per organizzare la visita, ma anche ricco di materiale per lo studio o la ricerca personale. Tutto sommato mi aspettavo molto di peggio! Ma veniamo alla presenza sui social. Udite, udite, Pompei ha un canale Youtube, credo aperto di recente, ma che sta caricando una serie di video molto interessanti sugli abitanti della città. C'è anche un profilo Twitter abbastanza attivo, una pagina Facebook aggiornata con costanza e persino un profilo Instagram con quasi 2000 follower al momento della redazione di questo post. Inoltre dal sito potete anche accedere al portale web e alla pagina Facebook dell'Associazione Internazionale Amici di Pompei con il suo programma di valorizzazione e di promozione del sito archeologico. Certamente tutti questi profili social possono migliorare e fare di più per incrementare il loro successo e per coinvolgere di maggiormente il pubblico, ma c'è già una buona base di partenza.

Ma veniamo ai voti che, come saprete, vanno da una a cinque stelline (*****)!
Presenza sul web **** Voto alto per l'ampia presenza e anche come incoraggiamento.
Funzionalità ed utilità effettiva **** Un buon voto perché, pur nei miglioramenti che sempre si possono realizzare, le informazioni che la Soprintendenza Pompei dà ai visitatori virtuali sono buone.
Dialogo e coinvolgimento del pubblico *** Sul coinvolgimento siamo decisamente nella piena sufficienza sopratutto perché c'è interazione con i commenti del pubblico, anche se un margine di miglioramento c'è.
Voi cosa ne pensate? che voti dareste?
Intanto vi invito ad andare a visitare il sito della Soprintendenza Pompei e a scoprirne la storia e gli straordinari siti archeologici.
Alla prossima recensione!

Per scoprire gli altri musei, segui l'etichetta #HelloMuseo!
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