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Mercati e cucine

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Pieter Aertsen, banco di macelleria
Scene di mercato, botteghe di generi alimentari, cucine e dispense furono raffigurate sempre più spesso nella storia dell'arte a partire dalla metà del Cinquecento. Questi temi erano una specie di palinsesto per molti generi minori che poi nei decenni successivi si sarebbero affermati. Nei dipinti di questo tipo si può ben capire la radice comune che unisce la natura morta con temi popolari e scene di vita quotidiana. All'interno delle opere con mercati e cucine potevano essere inseriti diversi livelli di interpretazione: l'aspetto satirico, grottesco o lascivo; l'intento moralistico con il contrasto tra virtù e vizio, con l'allusione alla dimensione di vanitas cioè del tempo che passa per tutti e che inesorabilmente ci porta alla morte, oppure con il conflitto tra carnevale e quaresima.

Possiamo trovare in queste tele anche allegorie dei sensi oppure un riferimento alle stagioni dell'anno con i diversi lavori e i diversi prodotti della terra. Ma per quale motivo questo genere pittorico si diffuse proprio a partire dal Cinquecento? forse c'è un collegamento con il materialismo quasi capitalista che da quel periodo storico mise al centro dell'attenzione i valori legati alla produzione, alla merce, al commercio e allo scambio. Un materialismo che si affermò in Europa con l'ascesa della borghesia a partire dal XVI secolo.

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Fautori di questo tipo d'arte furono, non a caso, i fiamminghi Pieter Aertsen e Joachim Beuckelaer, provenienti da una delle zone più laboriose d'Europa: le Fiandre. Il Banco di macelleria di Aertsen, datato 10 marzo 1551, può considerarsi il progenitore della rappresentazione di scene di mercato. Non manca neanche qui un episodio religioso sullo sfondo, una Fuga in Egitto, che entra in contrasto con la grande esibizione di carne messa in primo piano, creando un parallelo simbolico tra dimensione materiale e spirituale. L'elemento di storia che si ancorava alla rappresentazione di genere sparì già in opere successive dello stesso pittore. In questi dipinti l'eventuale contenuto religioso o morale non trovò più una chiara traduzione figurativa, ma venne del tutto assorbito nella scena raffigurata.

Vincenzo Campi, fruttivendola
Nell'Italia settentrionale diversi pittori seguirono l'esempio dei due artisti fiamminghi: primo fra tutti il cremonese Vincenzo Campi, con le sue cinque tele destinate alla sala da pranzo del castello di Kirchneim, commissionate dal banchiere Hans Fugger intorno al 1580. L'opera di questo ciclo intitolata Fruttivendola mette in mostra frutta e verdura in maniera quasi scientifica nella resa dei dettagli, dei colori e delle forme. Un repertorio figurativo simile si ritrova anche in un piccolo numero di opere realizzate verso la fine del Cinquecento dai pittori bolognesi Bartolomeo Passerotti e Annibale Carracci, che affrontarono la rappresentazione di macellerie.

Bartolomeo Passerotti, bottega del macellaio
Passerotti lo fece in un dipinto in cui il soggetto viene declinato in chiave grottesca: le due figure, dalla fisionomia rozza e ammiccante, esibiscono la loro merce con gesti caricati che forse hanno allusioni oscene. I due bottegai sembrano quindi incarnare la dissolutezza e la lascivia il che ci fa pensare a un intento morale dell'opera.
Annibale Carracci invece si cimentò con il tema della macelleria in due tele giovanili in cui il grottesco e la caricatura spariscono completamente, manifestando un interesse per la realtà obiettiva delle cose e una composizione monumentale che conferisce alla scena una nobiltà antica. Come vediamo bene in questa macelleria oggi conservata alla Christ Church Picture Gallery di Oxford.

Annibale Carracci, bottega del macellaio

Scopri di più ...

Questo post fa parte di una serie di piccoli giochi di curiosità dedicati alle nature morte. Leggi altro seguendo l'etichetta #naturemorte(nonmorte)

Fonti: La natura morta, Luca Bortolotti, Giunti editore, Prato, 2003

David Bowie is ... music and beauty

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Ci siamo, non potevo esimermi dallo scrivere un post sulla mostra evento dedicata a David Bowie: "David Bowie Is" al Mambo di Bologna. Una premessa: sono un fan di Bowie anche se non mi ritengo un fanatico e cioè mi piacciono i suoi album, ma non tutti, ho apprezzato quasi tutte le sue scelte stilistiche i suoi cambiamenti e credo d'aver visto quasi tutti i suoi film. Insomma un fan medio. Partendo da questo giusto presupposto vi dico da subito che la mostra mi è piaciuta tantissimo e infatti sono andato a vederla ben due volte! Il biglietto intero costa 15 euro e con alcune tessere si ha diritto a un piccolo sconto, ma vi assicuro che li vale tutti quei 15 euro.

La mostra comincia con una sorpresa, espressa nelle particolari audioguide che vi verranno assegnate all'inizio del percorso. Non sono vere e proprie audioguide, non sentirete una voce monotona che vi spiega per filo e per segno tutti gli oggetti in mostra. Si tratta piuttosto di un sottofondo fatto di suoni, di parole, di musica e voi non dovrete proprio fare nulla perché gli auricolari si sintonizzeranno automaticamente con i contenuti delle varie sale. Mai visto prima un sistema del genere.

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E con le vostre cuffiette entrerete nella mostra. Non sono moltissime sale, ma sono veramente ricche di materiale: dischi, appunti, video, costumi, foto e oggetti che aiuteranno a contestualizzare l'evoluzione di Bowie con le novità della società del tempo. Non a caso a organizzare questa mostra è stato il Victoria & Albert Museum di Londra e cioè un museo dedicato alle arti applicate e alle arti minori. Ed ecco che si parte quindi con una sezione che descrive il sottofondo culturale in cui David Robert Jones crebbe e fece i primi passi nel mondo della musica. Fin da subito emerge il fatto che David era veramente un artista totale. Curava personalmente il suo aspetto, il trucco, i vestiti, le copertine degli album, assorbendo come una spugna tutto ciò che lo affascinava e lo interessava.


Nelle sale seguenti infatti vedrete il David Bowie musicista, star camaleontica, ma anche straordinario attore. Un flusso di oggetti, informazioni, suoni, che vi coinvolgeranno per forza anche se non siete fan di Bowie in un crescendo d'emozione che sfocia nell'ultima straordinaria sala. Non potrete fare a meno di emozionarvi perché vi renderete conto di quanto questo artista sia entrato nelle nostre vite. Tutti voi avrete un ricordo legato a lui, come attore o cantante o semplicemente come icona che ha saputo fare tendenza anche nella moda. Vi commuoverete nel vedere come certi suoi pezzi furono realizzati, nel vedere i testi scritti da Bowie con una grafia semplice, quasi da adolescente.


Vi consiglio quindi di cogliere quest'occasione unica e possibile fino al 13 novembre. Senza anticiparvi troppo, ecco alcuni dei pezzi esposti che più mi hanno particolarmente colpito: il costume fantastico realizzato da Alexander McQueen con la bandiera inglese tutta logora che trovate sulla copertina dell'album Earthling del 1997, lo scettro-frustino usato da Bowie nel mitico film della mia infanzia Labirinth e il synth usato per Heroes. Ma inutile dire che troverete molto altro, vi basterà non pensare troppo e lasciarvi guidare dalla mostra, un toccasana per il cervello, le orecchie e il cuore. Alla fine forse, come me, vi sentirete appagati nella sensazione di aver fatto un po' vostro David Bowie, averlo conosciuto ed essere entrati nel suo mondo di creatività assoluta dove il bello e la musica regnano sovrani.

Per tutte le info sulla mostra: davidbowieis.it


Le sculture del tempio di Zeus a Olimpia

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Le metope del tempio
Lo scultore chiamato Maestro di Olimpia molto probabilmente all'epoca della costruzione del tempio di Zeus, nel V secolo a.C., doveva essere un artista noto e maturo data l'importanza dell'edificio. Si trattava infatti di decorare il tempio di Zeus a Olimpia, città della Grecia, sede dell'amministrazione e dello svolgimento dei celebri giochi "olimpici", ma anche luogo di culto di grande importanza. Sono sculture dai morbidi nudi, dal ritmo compositivo serrato e dal forte pathos dei gesti, elementi che fanno pensare all'influsso del pittore di ceramiche Polignoto che tanta importanza ebbe nello sviluppo dell'arte greca antica.

Il ciclo scultoreo si compone di dodici metope, sei sul pronao e sei sull'opistodomo, rispettivamente lo spazio che stava davanti e dietro la cella del tempio. Infatti le metope esterne che circondavano il tempio lungo tutti i suoi lati erano lisce. Queste dodici metope raccontano le fatiche di Ercole, non come fosse una favola, ma con una serietà drammatica che mette in risalto il valore dell'eroe. Ercole è per lo più rappresentato nel momento della lotta che lo vede scontrarsi con i grandi nemici dell'umanità d'allora. Le sue sono battaglie portate avanti da in solitudine. Il messaggio che si vuole trasmettere è che l'eroe viene premiato con la vittoria e l'immortalità, confermata dalla silenziosa presenza delle dea Atena.

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Le sculture proseguono nei due frontoni con altre storie mitologiche. Sul frontone orientale si racconta di Oinomaos, re di Pisa (non la nostra Pisa, ma l'omonima cittadina del Peloponneso in Grecia), avvertito da un oracolo che sarebbe morto per mano dello sposo della figlia Ippodamia, decise di sfidare i pretendenti a una corsa di carri. Riuscì a batterlo Pelope che secondo una versione della leggenda era sostenuto da Poseidone dio dei mari, secondo l'altra versione corruppe l'auriga del re, che sostituì delle parti del carro, provocando la caduta e la morte di Oinomaos.
Il frontone orientale
Nel frontone vediamo i preparativi per la gara, con al centro Zeus circondato da entrambi i lati da figure maschili e femminili, dai carri con i servi e dagli spettatori. I protagonisti sono tesi mentre aspettano il loro destino, e a questa tensione fanno eco le loro compagne e i personaggi minori. Le figure sono raccolte, isolate nella loro intimità. Nel frontone occidentale c'è rappresentata una Centauromachia. Il dio Apollo domina al centro della scena mentre ai suoi lati vediamo gruppi di centauri e lapiti in lotta tra loro. I lapiti erano un popolo antico che con la loro vittoria riuscirono a liberare la Tessaglia, regione della Grecia, dai centauri, mostri per meta uomini e per metà cavalli. Agli angoli estremi sono rappresentate figure femminili sdraiate.

La scena della Centauromachia con Apollo in piedi al centro
Il Maestro di Olimpia, come molti altri artisti dell'antichità, è una figura sfuggente di cui poco si sa. A parlare per lui restano queste sculture che ci mostrano un'attenta cura nella caratterizzazione dei volti dei personaggi. Siamo ancora lontani dalla ritrattistica fisionomica che si avrà dal IV secolo a.C., ma possiamo già distinguere le tipologie di volto tranquillo, brutto, demoniaco, ecc. imprimendo alle opere valori morali che stanno alla base dell'arte greca.
Il brutto contro il bello, il bestiale contro l'umano, l'indemoniato contro il tranquillo.

Questo post si avvale di contributi bibliografici vari che potete consultare qui

Lydia Delectorskaya la musa venuta dalla Siberia

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Oggi riprendo la rubrica "Le Muse e gli artisti" nella quale vediamo quanto sia importante per un artista una musa, una fonte d'ispirazione. Dietro il nome di questa donna c'è la storia di una vita straordinaria. Una vita da modella, musa, amica e assistente personale di un grande artista come fu Henri Matisse. Lydia Delectorskaya nacque il 23 giugno 1910. Lei sarebbe dovuta diventare medico, come suo padre, rispettato pediatra a Tomsk in Siberia. Ma le cose non andaro bene per la giovane Lydia: il padre morì di tifo e la madre di colera nel 1922, lasciandola orfana a soli 12 anni. Cresciuta dalla zia, lasciò la Russia per sfuggire alla rivoluzione. Venne accettata per studi medici alla Sorbona di Parigi, ma non si poté permettere le tasse.

Si sposò giovane, ma il matrimonio durò solo un anno e in seguito si trasferì nella comunità di emigrati russi nel sud della Francia, usando il suo bell'aspetto per lavorare come comparsa nei film e come ballerina e modella. Comunque la giovane Lydia era sempre al verde. Conobbe Henri Matisse nel 1932 e lo aiutò per 6 mesi nella realizzazione della sua enorme opera murale La danza. Si guadagnò 500 franchi e finalmente pensò a un nuovo inizio, ma il suo amante spese tutti i soldi in una sola notte al Casinò, e poi sparì. Quando Matisse scoprì che Lydia stava prendendo parte a gare di ballo per ripagare il debito, restò inorridito e la volle aiutare offrendole un lavoro stabile. Questo fu l'inizio di una delle collaborazioni più fruttuose nella storia dell'arte.

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Nonostante il suo aspetto tranquillo e l'età avanzata, Matisse era un uomo guidato da una grande passione per l'arte. Quando sposò la moglie Amelie nel 1900, le disse: "ti amo teneramente, signorina, ma amerò sempre di più la pittura. La moglie lo sostenne sempre tra alti e bassi, ma nel 1930, quando Matisse aveva raggiunto una certa sicurezza finanziaria, la sua salute già cagionevole, peggiorò. La Delectorskaya fu assunta proprio per prendersi cura di lei e tre anni più tardi, Matisse le chiese di posare per lui. Come una principessa di ghiaccio bionda, lei era diversa da tutte le donne che l'artista aveva dipinto fino a quel momento.


Matisse dal canto suo la colpì molto per essere stato il primo pittore che non cercò di portarla a letto. Come Hilary Spurling scrisse nella sua biografia dell'artista, Matisse il Maestro, questi era troppo impegnato con la pittura per sprecare tempo ed energie a fare sesso con le sue modelle. Per quattro anni dipinse solo Lydia che divenne indispensabile, non solo come sua modella, ma anche come factotum, occupata a ordinare il suo studio e i suoi affari. Quando Amelie si riprese mise davanti a Matisse la scelta: "o io o lei". Anni dopo, Delectorskaya commentò così questo comportamento: "la signora voleva che me ne andassi, non per gelosia femminile, ma perché stavo portando avanti io la casa".Quando Matisse licenziò la sua musa perché la moglie non aveva più bisogno di assistenza, la Delectorskaya tentò il suicidio. Ma il matrimonio finì presto e Matisse la riprese con sé.


L'artista era quarant'anni più vecchio di Lydia e secondo la biografa Hilary Spurling non c'è alcuna prova che ebbero una relazione sessuale e la stessa Delectorskaya negò sempre. Matisse le dava un senso di potere e uno scopo nella vita. La Spurling intervistò la Delectorskaya più volte ricavandone l'impressione di una donna forte con capacità sorprendenti. Organizzò lo studio di Matisse, le sue modelle, si occupò dei rapporti con i galleristi e con gli acquirenti delle opere dell'artista facendo funzionare tutto alla perfezione. Dopo l'operazione di Matisse per asportare il cancro nel 1941 e fino alla sua morte nel 1954, la Delectorskaya fornì all'artista tutta il sostegno e l'aiuto che gli permisero di continuare la sua attività. Senza questa musa è improbabile che ci sarebbero state le ultime brillanti opere dell'artista, per cui ora forse è più ricordato, tra cui i collage. Delectorskaya coordinò anche i quattro anni di preparazione e di installazione che portarono alla creazione della cappella di Vence, alle porte di Nizza.


La relazione tra Henri Matisse e Lydia Delectorskaya fu estremamente produttiva, ma non venne mai tollerata dalla famiglia del pittore. Quando lui morì, il giorno dopo aver fatto l'ultimo ritratto di Lydia, lei sparì immediatamente lasciando la gestione del funerale ai parenti del pittore. Anche se questa parte della sua vita era finita però lei visse più a lungo, fino a 88 anni, spegnendosi a Parigi nel 1998. Lydia donò i dipinti che Matisse le aveva regalato, all'Ermitage di San Pietroburgo e pubblicò due libri autorevoli sugli anni più produttivi del pittore.
Lydia Delectorskaya fu la bella bionda dagli occhi azzurri dalla Siberia che divenne modella, musa e manager negli ultimi due decenni della vita di Matisse, ma prima di tutto fu una donna straordinaria.

Questo post si avvale di contributi bibliografici vari che potete consultare qui


Barbus, le estreme conseguenze del neoclassicismo

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J. Broc, la Scuola di Apelle
Con il termine Barbus o primitifs o penseurs viene indicato un piccolo gruppo di giovani pittori, allievi di Jacques-Louis David che, tra il 1796 e il 1801 costituirono una specie di setta artistica, fondata su ideali estetici orientati verso forme d'espressione "primitive". Secondo Delécluze, principale fonte sui Barbus, il capo carismatico del gruppo era Maurice Quay e gli altri esponenti principali erano Lucile Messageot, Jean-Pierre Franque, Joseph-Boniface Franque, Jean Broc, Antoine-Hilaire-Henri Périé, Guillaume-François Colson, e gli scrittori Jean-Antoine Gleizes e Charles Nodier.

La loro presenza nell’atelier di David coincise con il momento in cui l'artista realizzò leSabine verso il 1797-99, che segnò il cambiamento tematico e stilistico del pittore verso un'estetica più "grecizzante". I Barbus estremizzarono le posizioni del maestro fino al rifiuto della produzione artistica moderna e all’adesione incondizionata allo stile greco più antico, rifacendosi ai modelli della pittura su vaso precedenti all'arte di Fidia, il celebre scultore e progettista del Partenone. Inoltre questi artisti arrivarono a indossare costumi eccentrici ispirati ai vestiti dei greci antichi, attirandosi presto i fischi e gli insulti dei contemporanei.

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Ammiratori di Omero, della Bibbia e dei Canti di Ossian, i Barbus auspicarono il ritorno a una presunta purezza primigenia dell’arte, a un gusto semplice e primitivo, segnato in pittura da forme ampie e armoniose, da ombre leggere, dall’importanza attribuita alla linea. Inoltre, esibendo atteggiamenti anticonformisti e ritirandosi a vivere a Chaillot, in un vecchio convento abbandonato,
secondo un modello di semplicità quasi religiosa, i Barbus provarono di unire gli ideali estetici del primitivismo con una riflessione sul tema della funzione dell’arte nella società dell’epoca.
Al rinnovamento della pittura essi associarono infatti l’ideale utopico della rigenerazione dei costumi; con queste idee e questi comportamenti i Barbus hanno lasciato una traccia nella storia dell’arte, mentre poche e scarsamente significative sono le opere giunte fino a noi.

J. Broc, morte di Giacinto
Di Maurice Quay si ricorda un quadro forse mai terminato, Patroclo che restituisce Briseide ad Agamennone, mentre è conservato, ma non di certa attribuzione, un Ritratto di giovane al Museo Granet ad Aix-en-Provence. Di Lucile Franque sono state individuate due possibili opere: La famiglia Messa-geot-Charve e un Ritratto di Gleizes. Le tendenze del gruppo sono però documentate più concretamente da due opere di J. Broc: la Scuola di Apelle, ecletticamente ispirata a Raffaello, e la Morte di Giacinto. C'è un altro dipinto che ci può aiutare a comprendere meglio l'estetica di questi artisti che portarono il neoclassicismo ad estreme conseguenze: si tratta di Ossian canta i suoi versi, realizzato da Paul Duqueylar che in effetti non aderì direttamente ai Barbus, ma fu un simpatizzante.

Paul Duqueylar, Ossian canta i suoi versi
Alla morte del carismatico Maurice Quay avvenuta nel 1802, il gruppo inevitabilmente si separò. Di lui ci resta un ritratto realizzato da Henri-François Riesener che ci restituisce un volto irrequieto, dagli occhi arrossati e lucidi, carichi di una follia geniale. Vedendo la sua immagine riusciamo a percepire la fiamma febbrile e carismatica che seppe attirare a sé gli altri artisti del gruppo. Pensate che secondo alcuni il termine "rococò" fu coniato da Quay nel 1797 durante il suo apprendistato nello studio di David. Originariamente il termine fu usato per ridicolizzare uno stile completamente opposto ai gusti dell'artista dalla personalità dirompente. Gli altri Barbus, dopo lo scioglimento della setta, si dedicarono a una carriera pittorica di scarso rilievo, senza lasciare tracce realmente significative. Con la morte di Quay la fiamma si era spenta per sempre.

Henri-François Riesener, ritratto di Maurice Quay
Questo post si avvale di contributi bibliografici vari che potete consultare qui

Tamara de Lempicka

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Il primo mistero di Tamara Rosalia Gurwik-Gorska riguarda data e luogo di nascita. Certo non nacque nel 1902, come dichiarò sempre, perché la sorella minore venne alla luce nel 1899; il certificato di morte stilato nel 1980 la descrisse di "anni 81". Probabilmente nacque nel 1898, o poco prima. Invece per quanto riguarda il luogo, Tamara dichiarò sempre di essere polacca, nata a Varsavia; un’ipotesi la vorrebbe nata a Mosca da padre ebreo, ma non ci sono prove a riguardo. La madre, Malvina Decler, era polacca di origine francese: la sua famiglia paterna si trasferì in Olanda e poi in Polonia durante le guerre napoleoniche. Il padre, Boris, forse era russo.

Malvina e Boris diedero alla luce tre figli: Stanislaw, Tamara e Adrienne. Il padre scomparve molto presto e non sappiamo se a seguito di un divorzio, come dichiarava Tamara o se per un suicidio. Di fatto tutta la famiglia verrà sostenuta economicamente dai parenti della madre. Tamara assorbirà dai Decler una forte identità polacca e il culto per la nobiltà che la seguiranno per tutta la vita: la nonna Clementine allevò la nipote convincendola delle sue capacità straordinarie.

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Nel 1907 la giovane Tamara finse una malattia alla gola per poter seguire l’amata nonna in un viaggio in Italia e a Montecarlo: avranno modo di vedere Firenze, Venezia e Roma, per poi andare a Mentone, dove imparò alcuni rudimenti di pittura da un francese. La sua formazione scolastica, seguita dalla nonna Clementine, avvenne tra una scuola di Losanna, in Svizzera, e un importante collegio Polacco di Rydzyna. Dopo la morte della nonna visse saltuariamente a San Pietroburgo dal 1910, ospite della zia materna Stefa e vi si stabilì solo intorno al 1914, quando la città cambiò il nome in Pietrogrado. All’inizio del 1916 sposò Tadeus Lempicki, avvenente avvocato, e nel settembre dello stesso anno nacque la figlia Kizette.


Durante la rivoluzione russa, suo marito venne arrestato dai bolscevichi, ma venne liberato grazie agli sforzi e alle conoscenze della giovane moglie: valutata quindi la situazione politica in Russia, i Lempicka conclusero di traslocare a Parigi. Molto probabilmente Tamara non sarebbe mai diventata un’artista se non fosse stata costretta dalla necessità di portare avanti la famiglia: guadagnare vendendo quadri fu il suggerimento della sorella Adrienne, iscritta a una scuola di architettura. E così Tamara si iscrisse prima alla Académie de la Grande Chaumiere e poi alla Académie Ranson dove conobbe grandi maestri come Maurice Denis e André Lhote. Attraverso un breve percorso didattico di appena tre anni, l’artista arrivò a elaborare i primi dipinti di un certo interesse costruendo uno stile del tutto personale.


Iniziò ad esporre al pubblico, la sua prima mostra in assoluto fu nel 1922 il Salon d’Automne, manifestazione di rottura nei confronti delle esposizioni più ufficiali. Non a caso usò all’inizio della sua carriera uno pseudonimo maschile, tanto che Edward Woroniecki, il critico che per primo citò le sue opere, era convinto che l’artista fosse un uomo. E in effetti Tamara visse fin da subito in maniera “virile”, dominando le situazioni e conquistando presto un’indipendenza economica che le permise di festeggiare a 28 anni il primo milione di franchi. La sua vita, del resto, fu l’incarnarsi di ciò che rappresentò nei suoi quadri: una costante ricerca dell’agiatezza, vivendo con teatralità, eccentrismo, sfacciataggine, in totale adesione con l’idea di femme fatale che andava per la maggiore in quegli anni. Famosa è la vicenda-pettegolezzo che la vide protagonista, nel 1927, di una fuga notturna dal Vittoriale a Gardone Riviera: ospite di Gabriele D’Annunzio, forse più attratto dall’affascinante donna che dall’artista, le fece una corte così stretta da obbligarla a fuggire di nascosto dalla famosa villa sul lago di Garda.


In poco tempo divenne famosa come ritrattista, iniziando a firmarsi con il suo nome e già nel 1928 divorziò dal primo marito. In questi anni i quadri di Tamara sono un’esaltazione della vita moderna vissuta da pochi, di cui l’artista illustrò come in uno spot pubblicitario tutti i simboli: dal telefono, all’automobile, agli yachting club. Pensati come inquadrature cinematografiche o copertine di riviste, i suoi quadri si imposero per i loro continui rimandi alla modernità, in un’esaltazione ottimistica delle conquiste femminili e del nuovo stile di vita che si impose negli anni tra le due Guerre Mondiali. Tamara inserì nello sfondo dei suoi dipinti un altro elemento di modernità: l’architettura. Questa dapprima sembrò una distorsione presa da film espressionisti tedeschi, ma poi diventò un fondale
scenografico con il profilo di New York, simbolo per eccellenza della modernità del XX secolo.

Tamara de Lempicka, La bella Rafaëla
Nel 1928 conobbe il barone Raoul Kuffner che, prima le commissionò il ritratto della propria amante e poi il proprio. In questo breve periodo la Lempicka divenne la sua amante, sostituendo la danzatrice, ritratta con violenza distruttrice: le foto dell’epoca, infatti la mostrano attraente, mentre il quadro della Lempicka restituisce una figura sgraziata. Nel 1932 Tamara entrò in una crisi depressiva dopo che l’ex marito Tadeusz sposò Irene Spiess, il 19 marzo. Durante l’anno l’artista iniziò una relazione con Suzy Solidor, all’epoca cantante al Boite del Nuit; tra le due, fu Tamara quella che inseguì Suzy, in maniera quasi persecutoria. L’anno successivo iniziò a frequentare Gino Puglisi, italiano, con il quale avrà una lunga relazione. Nel frattempo morì di leucemia la moglie del barone Raoul Kuffner che le chiese di sposarlo, ma Tamara inizialmente rifiutò. Presto però cambiò opinione e il 3 febbraio del 1934 si sposò: il matrimonio fu celebrato nella casa di Zurigo e la coppia si recò in viaggio di nozze in Egitto.

Tamara de Lempicka, Ritratto del barone Kuffner
Il matrimonio fu per Tamara una sistemazione sociale ed economica, della quale l’artista non aveva bisogno perché all’epoca arrivò a guadagnare molto con il proprio lavoro. Tra i due coniugi vi furono accordi precisi, secondo i quali ognuno aveva la massima libertà sessuale. La depressione di Tamara intanto peggiorò a tal punto da impedirle di lavorare. Nel 1935 tentò una cura di riposo a Salsomaggiore, ma caduta in una malinconia distruttiva, si recò in un convento vicino Parma dove incontrò la madre superiora che riuscì a darle finalmente un senso di serenità. Il marito decise di chiedere l’aiuto di uno psichiatra in Svizzera per aiutare la moglie a superare la crisi: dalla malattia Tamara non si libererà più, ma in un alternarsi di giorni euforici e settimane buie, resterà così per gli altri quarant’anni della sua vita, dominata dalla paura di rimanere sola.

Tamara de Lempicka, Kizette al balcone
L’artista ebbe inoltre una concezione della maternità molto personale: allontanò da sé la figlia molto presto, assicurandole un’educazione di alto livello, tra collegi cattolici francesi, scuole prestigiose in Inghilterra, fino all’università a Stanford. Educazione scolastica, viaggi e vestiti tutto purché la figlia non interferisse con la sua attività mondana e artistica. Un aneddoto ci aiuta a comprendere meglio il carattere di Tamara: quando l’artista andò a Hollywood, con la figlia Kizette ormai giovane donna in grado di oscurarla con la propria bellezza, lei la presentò come sua sorella negando la maternità, dichiarando alla stampa di non avere figli, perché le sue opere erano i suoi figli. Negli anni Trenta il personaggio Tamara cominciò ad annebbiare l’artista Lempicka: bellezza, stravaganza, eleganza ricercata, mondanità disturbarono la dimensione artistica. Tamara fu bloccata in un individualismo che non le permise una lunga sopravvivenza, legata a un élite sociale che nulla aveva a che fare con i collezionisti che costituirono il successo dei suoi contemporanei. Già in occasione della personale del 1931 si fecero sentire le prime critiche: il virtuosismo delle sue immagini cominciò a stancare.

Tamara de Lempicka, autoritratto sulla Bugatti verde
Avvenne allora un cambiamento nella pittura dell’artista: rimase il disegno fermo e la cromia nitida, ma si aggiunse un desiderio di sobrietà espresso dalle sue donne che da quel momento rappresentò velate da scialli polacchi o più poveri fazzoletti annodati sotto il mento. Le sue donne erano ancora ammalianti, ma l’ammiccamento non si rivolse più allo spettatore, perché gli occhi guardarono al cielo, quasi piangenti. A questo punto l’artista si trasferì con il marito negli Stati Uniti che rimasero il suo principale luogo di residenza fino alla fine della sua vita. Qui la sua attività espositiva si concentrò in soli tre anni e in cinque personali tra il 1939 e il 1942. Per il resto continuò a mischiare l’arte con la moda e il cinema: comparirà spesso sui giornali la sua immagine di baronessa-diva ricca e bella, con cappello, unghie laccate, tre fili di perle, orecchini e bracciali con diamanti. Da esteta raffinata si trasformerà in estetista, dispensando consigli su come vestirsi e lavorando a una nuova tonalità di rossetto per Revlon.

Tamara de Lempicka,
Ritratto della duchessa de La Salle
Dopo la morte del barone avvenuta nel 1961, la Lempicka andò a vivere a Houston in Texas, dove ideò una nuova tecnica pittorica consistente nell'utilizzo della spatola al posto del pennello. Con la spatola mimò nei colori e nella materia le pitture murali pompeiane che spesso venne ad ammirare in Italia. Le sue nuove opere, vicine all'arte astratta, vennero però accolte freddamente dalla critica, tanto che la pittrice giurò di non esporre più i suoi lavori in pubblico. Nel 1974 le sue condizioni di salute peggiorarono: depressa e addolorata per il disinteresse delle nipoti, perde la cognizione del tempo e dello spazio. L’arteriosclerosi la rende paranoica, ossessionata dagli avvenimenti politici e dai comunisti, è terrorizzata per il futuro dei suoi milioni. Nel 1978 si trasferì a Cuernavaca in Messico dove si spense nel sonno il 18 marzo 1980. Impressionata dalla storia dell’eruzione del Vesuvio, chiese di spargere le proprie ceneri su un vulcano in Messico.

Tamara de Lempicka, Giovane fanciulla con i guanti 
La Lempicka fu assolutamente un’artista moderna e anticipatrice perché per prima comprese l’importanza dei mass media e lo scambio che esiste tra i due sistemi: quello della produzione e quello della comunicazione, trasportando nel mondo dell’arte quello star system fino a ad allora riservato al mondo del cinema. Non fu una sostenitrice delle lotte impegnate per la liberazione femminile, infatti credeva che "è difficile essere donna in questo mondo. Per sopravvivere devi usare il corpo e la sessualità". Una donna così forte, dai disinvolti comportamenti sessuali, attirò su di sé l’attenzione di molte star in tempi recenti: prima fra tutti Madonna che è diventata una delle più grandi collezioniste delle opere di Tamara. La pop star presentò molti dei suoi quadri nei video musicali di alcuni dei suoi grandi successi: vediamo opere della Lempicka in Open Your Heart (1987), Express Yourself (1989), Vogue (1990) e Substitute for Love (1998). Tra le star collezioniste delle opere della Lempicka troviamo anche l'attore Jack Nicholson e l'attrice-cantante Barbra Streisand.

Questo post si avvale di contributi bibliografici vari che potete consultare qui

Trittico Stefaneschi, Giotto

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Giotto, trittico Sfefaneschi, recto
L’opera venne realizzata da Giotto insieme agli aiuti della sua bottega. L’artista, nato nel 1267 a Vespignano, piccolo paese vicino a Firenze, è considerato colui che portò l’arte italiana verso la modernità. A Giotto infatti dobbiamo la rappresentazione dei sentimenti, di figure plastiche e monumentali inserite in uno spazio che comincia a essere concepito attraverso un inizio di prospettiva. Il polittico proviene dalla basilica di San Pietro a Roma e fu commissionato dal cardinale Jacopo Stefaneschi per essere collocato nell’altare maggiore.

L’opera si compone di tre scomparti e per questo prende il nome di "trittico", inoltre vi sembrerà strano, ma è dipinta da entrambi i lati. Questo perché doveva essere visto sia dai fedeli che dai canonici che celebravano le funzioni religiose. Le immagini raffigurate nel trittico ruotano tutte intorno alla figura di San Pietro, titolare della basilica e San Paolo, l’altro apostolo le cui reliquie sono conservate a Roma. Entrambi i santi sono considerati simboli e fondamenta della Chiesa cattolica romana.

Giotto, trittico Stefaneschi, verso
Nel lato frontale, al centro vediamo San Pietro in trono tra Angeli e offerenti; sui pannelli laterali San Giacomo e San Paolo a sinistra, Sant’Andrea e San Giovanni Evangelista a destra. Nella predella, cioè la parte bassa del polittico, l’unico pannello superstite riproduce Santo Stefano e due Santi. Dall’altro lato, sul retro, al centro troviamo Cristo in trono con angeli e il cardinale Stefaneschi ai suoi piedi, ai lati la Crocifissione di San Pietro e la Decollazione di San Paolo. I tre scomparti della predella raffigurano la Vergine in trono col Bambino tra Angeli, San Pietro e San Giacomo in posizione centrale, e a seguire cinque apostoli per parte. Nelle cuspidi sono presenti tondi con angeli e santi o profeti.

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Un piccolo trucco per riconoscere la miriade di santi che affollano i polittici nel corso della storia dell’arte: vi basta ricordare che ognuno di loro ha sempre uno o più simboli che lo contraddistinguono. Alcuni esempi: San Pietro, anche in quest’opera, tiene le chiavi del paradiso in mano; San Paolo tiene in mano un rotolo o un libro e a volte la spada; San Giacomo porta un libro e il bastone, simbolo di pellegrinaggio e così via. Il Trittico Stefaneschi è sicuramente fra i polittici più famosi e uno dei maggiori capolavori conservati nella Pinacoteca Vaticana.



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Lumière! L'invenzione del cinematografo

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C'è una mostra a Bologna che è interessante andare a vedere per due aspetti principali: uno è ovviamente il contenuto straordinario che ripercorre la storia della nascita del cinematografo e l'altro è il contenitore in cui è allestita la mostra. Si tratta di un sottopasso che è rimasto chiuso e in stato di abbandono per anni, ma che grazie alla mostra è stato recuperato per diventare poi la sede di nuovi progetti culturali. E' il cosiddetto Sottopasso di Piazza Re Enzo in pieno centro a Bologna che idealmente collega la Sala Borsa, principale biblioteca cittadina con il Cinema Modernissimo, il primo cinema della città che proprio in questi mesi è oggetto di un restauro che porterà alla sua riapertura dopo dieci anni di chiusura.

Fatta questa premessa capirete quanto vale la pena fare il biglietto, scendere le scale di Piazza Re Enzo e addentrarsi in queste sale e corridoi sotterranei che come in una grotta fantastica vi sveleranno la storia dell'invenzione del cinematografo. L'occasione sono i 30 anni del festival Il Cinema Ritrovato, promosso dalla Fondazione Cineteca di Bologna ogni estate tra giugno e luglio. La mostra è un vero evento curato dall’Institut Lumière che per la prima volta varca i confini della Francia.

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Si parte con una sezione dedicata a tutti quegli strumenti definiti di "pre-cinema" perché anticiparono con il movimento delle immagini, a volte molto elementare, l'intuizione del cinematografo. Ecco allora sfilare esempi di lanterne magiche, taumatropii, fenachistoscopii, stereoscopii, zootropii e molto altro ancora. Poi chiaramente si passa a scoprire l'avventura della famiglia che inventò il cinematografo: i Lumière. Antoine, pittore e fotografo, i due figli Louis e Auguste così bravi che, ancora molto giovani, presero in mano le sorti dell'industria di famiglia. È Louis infatti, appena diciassettenne che ideò la famosa Etiquette Bleue, una lastra fotografica molto sensibile che permise, per la prima volta, di fissare e riprodurre il movimento.


Ed è così che lo stabilimento Lumière a Lione diventerà il primo centro di produzione fotografica d'Europa arrivando a contare già 250 dipendenti nel 1884. Si scatenerà poi una vera e propria corsa ai brevetti e alle invenzioni che si dividerà tra Europa e Stati Uniti in una continua ricerca di novità e miglioramenti tecnologici per arrivare fino ai nostri giorni con il cinema in 3D.
Si tratta di un'esposizione straordinaria che raccoglie una gran quantità e varietà di materiali: foto, filmati, manifesti, strumenti, dipinti e molto altro vi guideranno in un viaggio emozionante e coinvolgente. Perché si tratta di storia recente e perché in fondo tutti noi abbiamo sognato al cinema grazie ai Lumière.

Per tutte le info: festival.ilcinemaritrovato.it/evento/lumiere-linvenzione-del-cinema


Collezionisti, critici e mercanti #2

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Secondo appuntamento che ci porta alla scoperta dei più importanti collezionisti, critici e mercanti della storia dell'arte. La prima parte la potete leggere QUI, ma oggi proseguiamo nella nostra esplorazione conoscendo nuove illustri personalità. A volte può capitare che la medesima persona sia collezionista, critico e mercante allo stesso tempo, mentre il più delle volte questi tre ruoli non coincidono.

Fausto Bagatti Valsecchi 

Con il fratello Giuseppe ricevette una formazione giuridica, ma in seguito si applicarono entrambi alla storia dell’architettura. Durante gli ultimi anni del XIX secolo e il primo decennio del XX si dedicarono a collezionare opere d’arte del Rinascimento italiano, raccogliendole in un palazzo di stile rinascimentale edificato a Milano su loro stesso progetto. La Santa Giustina di Giovanni Bellini è la perla della collezione, che contiene anche un bellissimo Ritratto del doge Lorenzo Giustiniani,
attributo a Gentile Bellini. Molto curiosa è l'opera la Vergine col Bambino di Ambrogio Bevilacqua, che costituisce un raro esempio di associazione tra materie e tecniche diverse. La collezione appartiene tuttora alla famiglia dei fondatori ed è una splendida casa-museo visitabile.

Fausto Bagatti Valsecchi 

Richard Brown Baker

La sua collezione venne iniziata nel 1949, ma solo dal 1955-56 Richard decise di specializzarsi in arte contemporanea. Con notevole costanza e grande perspicacia nelle scelte, acquisì i pezzi principali a mano a mano che comparivano sul mercato. La collezione è eclettica, e comprende dipinti, sculture, disegni e collage di ogni paese; tuttavia la maggioranza è costituita da opere della
scuola americana contemporanea. Vasarely, Soulages, Dubuffet, Schwitters sono accanto a Tworkov, Olitski, Robert Morris, Wesselman, Warhol e Frankenthaler. Nel 1971 la collezione comprendeva 693 opere dovute a 364 artisti diversi. Baker fu tra i primi acquirenti della Pop Art americana e inoltre, più recentemente, ha raccolto una delle più importanti collezioni di opere iperrealiste.

Richard Brown Baker

Maffeo Barberini

Fu chiamato nel 1584 a Roma alla corte di papa Gregorio XIII dallo zio Francesco, che gli lasciò in seguito una grande fortuna. Nominato nunzio apostolico a Parigi nel 1604, fu sempre grande sostenitore delle politiche francesi. Cardinale nel 1617, venne elevato al pontificato nel 1623. Per il lusso e il nepotismo fu aspramente criticato fino alla sua morte. Fu senz'altro il più importante mecenate romano del XVIII secolo: ancora cardinale chiese al giovane Caravaggio di fargli il ritratto e nel 1603 gli commissionò il Sacrificio d’Isacco. Da Roma tenne corrispondenza con Peiresc, il collezionista di Aix. La sua raccolta conteneva tra opere del Correggio, di Andrea del Sarto, di Giulio Romano, del Parmigianino. Affidò incarichi anche a Guido Reni e al Pomarancio, e  si può dire che scoprì Bernini, di cui possedeva una scultura. Divenuto papa protesse Bernini, cui affidò grandi incarichi. A Pietro da Cortona invece affidò la decorazione del soffitto del grande salone di palazzo Barberini, gloria della famiglia. Fu lui a imporre al nipote Taddeo, proprietario del palazzo, la scelta di Pietro da Cortona. Il suo gusto eclettico ma aperto alle correnti più innovatrici, segnò profondamente la storia della pittura a Roma.

Caravaggio?, ritratto di Maffeo Barberini

Thomas Baring 

Proveniente da una famiglia di banchieri, fu uomo politico; dal 1835 cominciò a raccogliere un’importante collezione di quadri antichi, soprattutto olandesi, fiamminghi e italiani. Nel 1846 acquisì 43 dipinti della collezione Verstolk e nel 1848 le pitture italiane, spagnole e francesi appartenenti al padre, Sir Thomas Baring. Baring acquistò poi una piccola collezione di primitivi fiamminghi e tedeschi, numerosi quadri italiani e alcuni quadri spagnoli. Il primo conte di Northbrook, che ereditò la collezione, l’arricchì di alcuni quadri, ma ne vendette anche molti.
Altre opere andarono disperse in seguito, in numerose aste presso Christie (in particolare il 12 dicembre 1919), e la collezione ad oggi è rimasta solo parzialmente nelle mani della famiglia.

Thomas Baring 

John Barnard 

Figlio di Sir John Barnard, sindaco di Londra nel 1737, fu amico intimo del politico John Wilkes. Nella sua casa londinese di Berkeley Square, sempre aperta agli artisti e agli appassionati d’arte, raccolse una delle più belle collezioni d’incisioni mai costituite, contenente oltre 17 000 pezzi. Da Schongauer a Bartolozzi, essa comprendeva l’opera completa di incisioni di grandi maestri come Rembrandt, Mantegna, Rubens e Van Dyck, incisioni famose per la qualità della stampa e il perfetto
stato di conservazione. Barnard collezionava anche quadri, e possedeva opere italiane e olandesi, nonché disegni di scuola italiana, olandese e fiamminga. La collezione è andata tutta dispersa: i disegni nel 1787 presso Greenwood, le incisioni nel 1798 presso Philipe e i quadri nel 1799 presso Christie.

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Albert C. Barnes

Medico e chimico, fece fortuna in seguito alla scoperta dell’argyrol, un antisettico; ciò gli consentì di abbandonarsi alla passione per l’arte. Raccolse a Merion, presso Filadelfia, in un edificio di stile neoclassico che fece costruire nel 1924, una collezione dedicata per la maggior parte alla pittura francese della seconda metà del XIX e del XX secolo e come molti collezionisti americani dell’epoca, cominciò acquistando qualche tela della scuola di Barbizon. Ma nel 1912 un amico gli portò da Parigi opere di Renoir, Van Gogh, Gauguin, Seurat e vari viaggi a Parigi svilupparono in lui la predilezione per gli impressionisti e i loro successori, mentre Leo e Gertrude Stein lo ponevano in contatto con pittori moderni. Un certo numero delle opere di questa collezione venne riprodotto nei volumi come The Art of Renoir (New York 1935) e The Art of Cézanne (New York 1939). Aperta nel 1924, la Fondazione Barnes accoglie studiosi, ma resta poco accessibile al grande pubblico.

Albert C. Barnes

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Francisco Goya

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Francisco Goya, autoritratto
Francisco Goya era figlio di un maestro doratore, José Goya, e di Gracia Lucientes. Si ignora quasi tutto della sua giovinezza e della sua formazione, ma si pensa che seguisse l’accademia di disegno di Saragozza e che suo maestro fosse José Luzán, mediocre pittore. Nel 1763 partì per Madrid, dove perse il concorso per l’Academia de San Fernando, ripresentandosi senza successo nel 1766. Effettuò il tradizionale viaggio a Roma, dove partecipò nel 1771 al concorso organizzato dall’Accademia di Parma. Tornato a Saragozza, nell’ottobre del 1771, Goya ricevette il suo primo incarico di affresco: la decorazione della volta della chiesa della Madonna del Pilar a Saragozza.

Nel 1773 il pittore ritentò la fortuna a Madrid, dove si stabilì, sposando Josefa Bayeu, che aveva tre fratelli pittori, in particolare Francisco, di molti anni più vecchio di lui, e di cui fu allievo. La donna resterà incinta ben venti volte ma solo uno dei figli di Josefa e Francisco arriverà all’età adulta. Grazie all’aiuto dell’amico e maestro nonché cognato, Francisco Bayeu, Goya nel 1774 fece il suo ingresso alla corte di Spagna, lavorando ai disegni per gli arazzi nei laboratori reali di tappezzeria. Nel 1780 l’artista venne accolto all’Accademia di San Fernando, ma ripartì per Saragozza, dove gli venne chiesto di dipingere l’interno di una cupola nella cattedrale della Madonna del Pilar. L’anno successivo, di nuovo a Madrid, entrò in rapporto con potenti personaggi che diverranno i suoi protettori: il Conte de Floridablanca, l’Infante don Luis, l’architetto Ventura Rodriguez e i duchi d’Osuna.

Alcune incisioni dalla serie dei Capricci
Nominato pittore del re nel luglio del 1786, Goya divenne artista alla moda della società di Madrid, conquistando una certa prosperità economica. L’ottimismo di questo periodo si ritrova anche nella sua arte che brilla per allegria e spensieratezza, rappresentando episodi di vita mondana con colori fluidi e decisi, ma allo stesso tempo si avverte per la prima volta la presenza dell’elemento fantastico.
Nel 1789 Goya venne nominato pintor de Cámara del nuovo re Carlo IV: di lui e della regina Maria Luisa fece un gran numero di ritratti ufficiali, oggi conservati perlopiù al Prado e al palazzo reale di Madrid.  Maestro incontestato del ritratto spagnolo, l’artista si distinse allora per la ricchezza della tavolozza, in cui dominavano varie tonalità di grigi e verdi. La vita di Goya sembrò proseguire nello lusso e nella ricchezza della vita di corte, ma un fatto inaspettato arrivò a segnare profondamente il pittore.

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Alla fine del 1792 l’artista si ammalò gravemente per molti mesi, malattia che produsse nella sua opera mutamenti profondi e lo rese sordo, trasformando per sempre il suo modo di vivere. Alla morte del cognato Francisco Bayeu, Goya venne nominato direttore dell’accademia di pittura, carica che la cattiva salute lo costrinse ad abbandonare due anni dopo. A questo periodo risale la serie più nota delle sue incisioni, i Capricci, comprendenti ottanta lastre incise ad acquaforte, i cui soggetti sono impreziositi da fondi e ombre ad acquatinta. La raccolta riguarda l’umanità in generale, le sue follie e la sua stupidità, e costituisce una satira sorprendente delle debolezze della condizione umana.


Nell’ottobre 1799 Goya venne nominato primo pittore del re e in questi anni, fino al 1808, anno della guerra d’indipendenza spagnola contro l’invasione francese, l’artista raggiunse l’apice nella produzione di splendidi ritratti tra cui la Maya desnuda e la Maya vestida, in cui risaltano bellezza e sensualità. Non si sa con certezza chi fu la modella per questi due dipinti, ma c’è chi sostiene che il corpo della donna ritratta appartenesse alla bellissima Cayetana, duchessa d’Alba, di cui forse il pittore s'era invaghito. Probabilmente però la realtà è molto meno poetica e la modella immortalata pare fosse una certa Pepa Tudó, amante di Godoy, il politico che ordinò l’opera.

Sopra: Maya desnuda
Sotto: Maya vestida
Nel 1806 un fatto di cronaca offrì a Goya l’occasione di mostrare il proprio interesse per il realismo popolare: la cattura del bandito Maragato da parte del monaco Zaldivia. In sei piccoli pannelli l’evento, che allora riempì le cronache, viene rappresentato con forza, secondo una successione di scene facili da leggere, quasi un annuncio del moderno fumetto. Un altro evento, questa volta politico, segnò la vita e l’arte del pittore: la guerra tra spagnoli e francesi. La rivolta contro l’occupazione francese, conseguenza della dissoluzione del vecchio regime e della rovina economica e politica della Spagna infatti non lasciò indifferente Goya. Tutto porta a pensare che fosse tra gli spagnoli che si auguravano riforme profonde per il proprio paese, auspicando l’intervento dei francesi. Ma la brutalità dei soldati napoleonici e la crudeltà della guerra eliminarono ogni simpatia per i nuovi rappresentanti politici.


Preso tra due posizioni che, per motivi diversi, detestava, l’artista trascorse gli anni torbidi della guerra in situazione ambigua: a volte sembrò agire come sostenitore dei francesi, altre volte come patriota spagnolo in rivolta. Il suo interesse tornò in questi anni a rivolgersi verso l’incisione. Nel 1810 lavorò alla serie degli Orrori della guerra, violenta accusa contro il comportamento delle truppe francesi, e dopo il 1814 eseguì due grandi quadri, il Due maggio 1808 e il Tre di maggio 1808. In particolare, il dipinto ispirato dai tragici eventi del tre maggio, avremo modo di scoprirlo nel dettaglio in seguito. La sua tavolozza mutò allora di tono, dando sempre maggior posto ai bruni e ai neri e a forti contrasti luministici.

Tre di maggio 1808
Dopo la vittoria degli spagnoli sui francesi e la conseguente Restaurazione, nel marzo 1814 il re Ferdinando VII rientrò in Spagna. Goya poté giustificare il proprio atteggiamento quanto basta per restare pintor de Cámara e per entrare nell’accademia. Nel 1816 Goya mise in vendita le trentatré straordinarie incisioni della Tauromachia. La serie nacque come illustrazione di un testo storico sulle corride, ma ben presto l’artista mutò intenzione e anziché seguirne le fasi storiche, incise i propri ricordi delle corride, cui aveva assistito nella Plaza. Sempre attento sperimentatore delle tecniche di stampa, a settantatré anni apprese la tecnica litografica: questo metodo è un procedimento di riproduzione in piano di immagini, su pietra, basato sull'incompatibilità tra l’acqua e una sostanza grassa. La pietra viene pulita e, tracciandovi segni grassi e poi inumidendola, si vede che l’acqua non aderisce a tali tracce. Passandovi un rullo inchiostrato, si produce l’effetto opposto: l’inchiostro, che è grasso, aderisce ai segni grassi e non alle parti inumidite della pietra. Infine, un foglio pressato contro la pietra riceve l’inchiostro posato sui segni, riproducendo il disegno.

Un incisione della serie Tauromachia
Ammalatosi di nuovo gravemente, durante la convalescenza, come aveva fatto altre volte, incise ad acquaforte, arricchendo questa tecnica di stampa con complessi procedimenti, la straordinaria serie dei Disparates, o Proverbi, in cui la sua immaginazione riuscì a esprimere le visioni più misteriose, e la fantasia si liberò completamente. Se la loro eccezionale bellezza non cessa di impressionarci, ci sfugge il senso preciso della maggior parte dei fogli, la cui realizzazione è legata alla decorazione della casa dell’artista. Goya infatti aveva acquistato nel 1819 una casa di campagna in riva al Manzanarre, nei dintorni di Madrid, la famosa Quinta, e ne decorò due camere, il salone e la sala da pranzo. Si tratta dei quattordici "dipinti neri".

Una delle immagini dei Disparates
Queste straordinarie e inquietanti opere rappresentano un mondo tenebroso, dove l’orrore è espresso in tutte le sue forme, segnato dal mito di Saturno, simbolo di morte e di distruzione. La sua compagna, Leocadia Weiss, rappresentata all’ingresso vestita di nero, poggia i gomiti su una specie di tumulo dominato dalla balaustra di una tomba, evocando senza dubbio la morte che l’artista aveva di nuovo ingannato. Le scene più sorprendenti, di non facile interpretazione sono il Duello con il bastone, il Cane sepolto di cui emerge soltanto la testa da un paesaggio desertico, Due giovani donne che si burlano di un uomo. Tutto è restituito con coraggio e con una totale libertà di esecuzione, caratterizzata dall’impiego costante della spatola, che stende il colore a macchia, restituendo quest’universo sconvolto da cui si scatenano immoralità, terrore e ansia.

Alcune delle più emblematiche "pitture nere"
Nel 1823 si verificò un importante cambiamento nella politica spagnola: Ferdinando VII che aveva accettato la costituzione del 1820, ristabilì il potere reale, consolidato dalla spedizione del duca d’Angoulême. I liberali vennero cacciati e Goya si rifugiò presso un amico, il sacerdote don José de Duasso, con l’obiettivo di lasciare al più presto la Spagna. Probabilmente a consigliarlo in questa decisione fu la cugina della moglie, con cui viveva e il cui figlio, liberale convinto, cadde sotto i colpi della repressione. Goya chiese un congedo dall’accademia, che gli venne confermato il 2 maggio 1824, per recarsi alle acque di Plombières, in Francia, ma sembra che non raggiunse mai la destinazione a Bordeaux, dove trascorse poco tempo e in seguito a Parigi, in cui rimase per due mesi. Esiliato volontario, chiese dapprima che gli venisse prolungato il permesso di soggiorno francese, poi di ritirarsi con tutta la sua liquidazione e d’essere autorizzato a vivere in Francia, cosa che il re gli concesse. Trasferitosi definitivamente nella città di Bordeaux nel corso del 1824, in compagnia della sua governante e amante, Leocadia Weiss e di sua figlia. Vi rimarrà fino alla morte, sopraggiunta nel 1828.

Il sabbath delle streghe
Goya oggi è presente con le sue creazioni nei più grandi musei di tutto il mondo, ma la maggior parte della sua opera è conservata a Madrid, in collezioni private e pubbliche, in particolare al Prado. Forse la parte più straordinaria della produzione di questo artista, restano i disegni, sempre accompagnati da legende di mano di Goya stesso che ci restituiscono un’idea esatta della varietà del suo genio e ne riflettono la vita intima. Ma soprattutto affascinano le numerose osservazioni che l’artista fece sulla vita del popolo spagnolo, le sue gioie, gli aspetti ridicoli, le distrazioni, le sfortune nei periodi di crisi che hanno segnato di pari passo il percorso dell’artista.

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Il gruppo dei tirannicidi, una nuova sensibilità

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Questo gruppo scultoreo rappresenta i due tirannicidi Armodio e Aristogitone, due aristocratici che attorno al 514 a.C. uccisero Ipparco, fratello del tiranno ateniese Ippia nell'ambito di una serie di giochi di potere. I due uomini sono qui rappresentati nell'atto dello scagliarsi contro Ipparco. Aristogitone dei due è quello barbuto, con il braccio sinistro in avanti e con la spada nella mano destra, pronta a colpire. Armodio invece è imberbe, tiene la mano destra con la spada sollevata per infliggere il colpo mortale.

Il tema rappresentato in questo gruppo era stato in precedenza già raffigurato dallo scultore Antenor, ma la sua opera era stata portata in Persia da Serse. Delle sculture restano molte copie di età romana, ma non è chiaro se si riferiscano all'opera di Kritios o di Nesiotes. In epoca ellenistica erano conosciuti entrambi i gruppi scultorei. Fra le repliche ci sono grandi affinità, con qualche piccola differenza. Si potrebbe anche pensare che Kritios e Nosiotes una volta rilevata la bottega di Antenor, si siano serviti di modelli rimasti, riproducendo fedelmente il suo lavoro.

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Questo gruppo mostra una moderna sensibilità: notate la tensione psicologica nei gesti, l'impetuosità trattenuta, pronta a scattare per compiere l'omicidio. I volti sono caratterizzati da una fisionomia compatta, idealizzata. Le immagini che vedete qui sono riferite alle copie romane conservate al Museo Archeologico di Napoli. La testa di Aristogitone è in gesso da un'altra copia conservata a Roma, all'interno del Musei dei Conservatori

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Le 10 spiagge più belle nella storia dell’arte

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Nuovo appuntamento con la rubrica che traduce per voi curiosi articoli dalla stampa estera. Anche questa volta è il The Guardian a guidarci in un percorso inusuale nella storia dell'arte.
Dagli amanti del divertimento e del sole nella Coney Island di Weegee alla donna vestita di tutto punto di Monet, la spiaggia non ha solo ispirato gli artisti, ma ha anche aiutato a rendere evidenti i cambiamenti della società nel corso del tempo.

  • Monet – La spiaggia a Trouville (1870)

Il vento e la sabbia ci entrano negli occhi quando guardiamo quest’istantanea pittorica e incredibilmente immediata di un momento al mare. Si tratta di un capolavoro dell’impressionismo, sebbene la percezione che ne abbiamo, così veloce, naturale e fluida, sia ben distante da quella che, all’epoca, ci si aspettava da un soggetto balneare. Le spiagge della Normandia, specialmente quella di Trouville, furono per l’impressionista Monet il luogo perfetto, dove lo svago della classe media e l’imprevedibilità della natura si incontravano creando momenti di sorprendente spontaneità.

  • Weegee – Coney Island (1940)



Questa meravigliosa fotografia ritrae quella generazione di giovani americani che di lì a poco sarebbero andati a combattere nella Seconda Guerra Mondiale. È un’immagine di comunità e democrazia: una città intera sembra divertirsi sulla spiaggia mentre l’era moderna porta con sé una nuova concezione del sesso, del corpo e della giovinezza. È toccante quanto uno dei romanzi di Philip Roth sul mondo in cui era cresciuto: la fotografia di una nazione che stava per entrare nel suo periodo d’oro.

  • Massimo Vitali – Cefalù (2008)


Questo panorama di una moderna vita balneare a Cefalù è sia bellissimo che angosciante. Molti di noi sono rappresentati in questa foto. Pensate al cambiamento: nel XIX secolo, uomini e donne vittoriani, pesantemente vestiti, si trascinavano sulle spiagge; nel XX secolo, invece, i vestiti diventano striminziti; e nel XXI secolo, il mare è punteggiato di persone che si rimettono al culto del sole, della spiaggia e dell’acqua. La scena balneare scolorita di Vitali guarda con ironia all’Italia di oggi come falso paradiso.

  •  Degas – Sulla spiaggia (1869-70)


Questo quadro ha una qualità irreale e teatrale al tempo stesso: Degas si prende gioco di quella innocenza e spontaneità che gli altri impressionisti, Monet per primo, trovavano sulle spiagge. La sua, infatti, è stata probabilmente ricreata in studio, e si nota: mina deliberatamente la naturalezza delle scene in riva al mare e, così facendo, solleva dei dubbi sulla vera natura del realismo nell’arte.

  • Andre Derain - Barche da pesca a Collioure (1905)


La spiaggia è stata coinvolta in alcune delle più importanti rivoluzioni artistiche. Gli impressionisti si sentirono a casa sulle spiagge della Normandia, mentre nel 1905 Derain e Henry Matisse furono colti da un’epifania di luce e colori a Collioure, una cittadina portuale del Mediterraneo. Le barche da pesca allineate sulla spiaggia diventano il soggetto del quadro di Derain, che si scioglie in pennellate dai colori vivi e crudi; così nacque il fauvismo.

  • Salvador Dalì – La persistenza della memoria


Questo capolavoro onirico, con i suoi orologi che sembrano sciogliersi allo sguardo dell’osservatore, può sembrare una creazione astratta, una risposta concettuale a Freud ed Einstein, un’icona di ciò che rendeva moderna l’arte moderna stessa; in realtà, esso rappresenta una spiaggia in modo assai preciso. Il luogo in cui Dalì scelse di posare i suoi molli orologi non è immaginario, anzi: è una fedele riproduzione di Cadaquès in Catalogna, una spiaggia dove il pittore aveva trascorso la sua infanzia, che torna spesso nelle sue immagini selvagge.

  • David Cox – Rhyl Sands (1854-5)


Può sembrare divertente/buffo, ma prima degli impressionisti, già i pittori inglesi avevano cominciato a sperimentare sui paesaggi balneari. I personaggi vittoriani, pesantemente vestiti, dall’aria distante e forse anche triste, che si riuniscono in piccoli gruppi su questa scolorita spiaggia scozzese, vengono dipinti da Cox con tratto libero, aperto e sensibile.

  • Picasso - Due donne sulla spiaggia


Nessun artista come Picasso ha mai percepito e allo stesso tempo condizionato il ritmo della propria epoca. Egli, infatti, riesce a riassumere i cambiamenti sociali in atto, nonostante la sua arte abbia spesso una connotazione fortemente intima e slegata dalle regole (eccetto quella dell’originalità). Questa immagine classica, grandiosa e generosa, ritrae perfettamente la nuova libertà pretesa dalle donne dopo la Prima Guerra Mondiale, l’inizio di una nuova era per quanto riguarda le relazioni di genere che Picasso chiaramente sostiene, in un momento di divertimento ed estasi in riva al mare.

  • Luchino Visconti – Scena finale del film Morte a Venezia (1971)


Gli ultimi fotogrammi del lungo, fisso e coreograficamente complesso capolavoro di Luchino Visconti, Morte a Venezia, richiamano evidentemente le scene sulla spiaggia di Monet e Degas, mentre il protagonista guarda le donne vestite di tutto punto e i bambini che giocano da quella che sembra una distanza, almeno storica, importante per il filtro marxista utilizzato. Sembra che l’intero stile di vita, espresso perfettamente dai vittoriani in riva al mare, stia morendo con Dirk Bogarde, così come la classe borghese, che si avvia verso la sua distruzione scontrandosi con la nuova era rivoluzionaria. In sottofondo, non poteva mancare Mahler.

  • Henri Matisse – Vista di Collioure (1905)


Il genio di Matisse esplode in questo quadro dalle pennellate radicali, spezzate e dai colori liberi, dipinto in un periodo di sperimentazione in un piccolo borgo vicino al mare con André Derain. Sono passati solo 35 anni da quando Monet aveva dipinto a Trouville, ma qui troviamo un altro mondo, una nuova arte, una diversa consapevolezza che ha spazzato via i confini e le comodità del XIX secolo. È nata una nuova, terribile bellezza.

Fonti: traduzione di Beatrice Righetti da www.theguardian.com 

Mi chiamo Beatrice Righetti, sono laureata in Mediazione Linguistica e Culturale all’Università di Padova e sono un’appassionata traduttrice. Studio inglese, russo, tedesco e spagnolo, e nel tempo libero mi dedico all’arte e alla letteratura. Per questo, credo fortemente nella divulgazione artistica e culturale, specialmente se integrata nel nostro vasto e poliedrico panorama internazionale.

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Il libro d'Ore Torriani

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Il libro d'Ore Torriani è un piccolo libro di preghiere realizzato a Milano verso il 1495 e prende il nome dall'antica e nobile famiglia dei Torriani, il cui stemma è rappresentato all'inizio del codice. Ma chi erano i Torriani? all'inizio del XIII secolo questa famiglia fu la più ricca e potente di Milano, raggiungendo il massimo della sua influenza con la signoria di Napoleone detto "Napo" che entrò in conflitto con la famiglia rivale dei Visconti. Non si sa chi fu il committente, ma senza dubbio il codice venne realizzato per una giovane dama della corte sforzesca.

La legatura è l'aspetto più sorprendente del libro d'Ore Torriani: è composta da un finissimo intreccio di racemi, volute, candelabre e viticci in filigrana d'argento dorato in cui sono incastonate piccolissime sculture d'avorio. Il virtuosismo della bottega che ha realizzato il codice è stato in grado di ricavare otto teste di putto dentro medaglioni e due splendidi cammei, uno con santa Caterina e uno con santa Lucia. Anche le due parti interne della legatura non sono da meno: con due placchette di smalto dipinto raffiguranti da una parte il bacio di Giuda e dall'altra la salita al Calvario.

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All'interno del libro ben trenta miniature ne ornano le pagine: ritroviamo nelle immagini un'influenza di Andrea Mantegna e di Leonardo da Vinci, che proprio in quegli anni stavano rivoluzionando l'arte lombarda. Le illustrazioni furono compiute da due artisti: il primo, autore delle scene figurate e degli smalti della legatura, fece parte della cerchia di Giovanni Ambrogio de Predis, collaboratore di Leonardo nella Vergine delle Rocce. Lo si vede bene nei paesaggi rocciosi e nella grande espressività dei volti. Il secondo autore è Matteo da Milano che decorò i margini, dipingendo tralci fioriti, animali e gioielli dipinti con attenzione al dato reale.
Questo splendido capolavoro è oggi conservato presso la Bibliothèque du Chateau de Chantilly.


Fonti: www.oretorriani.it

Firenze e l'invenzione del Rinascimento - i test di Artesplorando

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Nel corso del Quattrocento e di buona parte del Cinquecento ci fu in Italia una grande fase di rinnovamento artistico e culturale che viene ricordata come una fase "umanistico-rinascimentale", sullo sfondo di complessi processi di cambiamento che inaugurarono l'età e la cultura moderne. L'Italia d'allora era caratterizzata da una grande frantumazione dell'assetto politico da cui emerse per il primato culturale la città di Firenze. Il cosiddetto "Rinascimento" nato nella città toscana è in realtà un concetto storiografico coniato solo nel XIX secolo proprio per definire questa rinascita delle arti e della cultura basata sulla riscoperta dei classici, sull'imitazione della natura, sullo studio del rapporto uomo-spazio e che vide la nascita dell'artista intellettuale.

I termini del test sono tutti inerenti a questo periodo storico. Le istruzioni sono sempre le stesse: il test è composto da domande a risposta multipla, compilatele tutte e cliccate invia. Potrete subito dopo accedere alle risposte e capire se e quanto avete fatto bene!
Facile no? bene, allora non perdete tempo e cominciate a mettere alla prova le vostre conoscenze!

Big Eyes

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Nuovo post della rubrica "Art si gira!!!" in cui ogni volta scopriamo un film dedicato a qualche artista. Oggi vi porto in America per parlavi di un'artista contemporanea.
Big Eyesè un film biografico del 2014 diretto da Tim Burton, scritto da Scott Alexander e Larry Karaszewski e interpretato da Amy Adams e Christoph Waltz. Il film racconta la vita dell'artista americana Margaret Keane, famosa per i suoi ritratti dai caratteristici grandi occhi. In particolare il film segue la storia di Margaret e suo marito, Walter Keane, che si prese il merito per i dipinti spacciandoli per suoi. In 10 anni l'impostore Walter metterà insieme una vera fortuna, fregando tutta l'America. Per un po' Margaret accettò la situazione, ma poi prese coraggio e fece causa al marito, rivelando che il vero artista dietro ai grandi occhi dipinti era proprio lei.

Il processo all'epoca ebbe un forte impatto mediatico negli Stati Uniti, forse perché il suo caso incarnò la rivicinta di una donna, pittrice in un mondo ancora molto maschilista. Il femminismo era alle porte e questa artista ne fu per certi versi una pioniera. Inoltre divenne celebre il modo in cui il giudice decise di risolvere il processo: ordinò a Margaret e Walter di creare nell'aula di tribunale un dipinto rappresentante un bambino dagli occhi enormi. Ovviamente non vi anticipo nulla, ma come potrete ben immaginare Walter avrà serie difficoltà a terminare l'opera.


Il regista, Tim Burton, torna dopo diversi anni a realizzare una biografia (vi ricorderete Ed Wood) che ci racconta quella che di fatto è stata una delle frodi d'arte cotemporanea più clamorose. Ci racconta inoltre di un'epoca, quella tra gli anni '50 e gli anni '60 in cui le donne artiste non erano prese per niente in considerazione. Tim Burton conosce personalmente Margaret ed è un suo fan e collezionista da molti anni: chiese infatti all'artista la realizzazione di un ritratto della sua ex compagna Lisa Marie.
Per chi è abituato ai film del regista "gotico" per eccellenza forse non lo ritroverà molto in questo film. Potrebbe essere per molti una delusione, ma credo che per Tim Burton sia stata una scelta dettata dalla sincera stima che prova nei confronti di Margaret Keane.

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Il regista infatti abbandona scenari cupi, inquietanti e malinconicamente dark per illuminare il film con la luce del sole, scegliendo toni pastello e colori decisamente vicini all'idea da "Happy Days" che abbiamo degli Stati Uniti negli anni '50 e '60. Personalmente credo che si tratti di un buon film per quanto possano piacere o siano discutibilmente ripetitive le opere della Keane: sinceramente non mi appassionano le sue opere, ma la storia di coraggio e riscatto che incarna questa artista. In più, inutile negarlo, il film conferma il potere che hanno i  mezzi di comunicazione e la pubblicità, in grado di elevare ad arte opere sicuramente accettabili, ma in fondo di scarso valore artistico.


Una storia quindi decisamente strana, come tante ne ha raccontate Tim Burton, con fotografia, musica e costumi all'altezza. Quindi quello che vi consiglio di fare è di guardare il film senza aspettarvi un capolavoro e nemmeno un'opera "gotica" in pieno stile Burton, ma un film d'emancipazione e di verità. Perchè il messaggio che passa è: "la verità ti fa stare meglio" anche se a volte, per ragioni diverse, siamo costretti a scacciarla.

Per maggiori info QUI

Trasfigurazione, Raffaello e Giulio Romano

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Raffaello Sanzio e Giulio Romano, Transfigurazione
Questo dipinto fu eseguito da Raffaello Sanzio, pittore e architetto tra i più importanti del rinascimento italiano. L’artista nacque a Urbino, città rinascimentale del centro Italia, nel 1483. L’opera che vedete fu l’ultima realizzata da Raffaello prima di morire a soli 37 anni e fu terminata nella parte inferiore dall’allievo e collaboratore Giulio Romano. Il dipinto fu commissionato dal cardinale Giulio de' Medici, futuro papa Clemente VII.

L’opera realizzata da Raffaello mette insieme per la prima volte due episodi tratti dal Vangelo secondo Matteo, uno dei quattro vangeli canonici del Nuovo Testamento. Infatti vediamo in alto la Trasfigurazione di Gesù e in basso il miracolo del giovane indemoniato guarito da Gesù. Cosa si intende per Trasfigurazione? I testi ci raccontano che Gesù si appartò con i discepoli Pietro, Paolo e Giacomo, che vediamo accasciati a terra, e cambiò aspetto, mostrando con uno straordinario splendore la propria origine divina.

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A fianco di Gesù apparvero i profeti Mosè ed Elia e da una nube si udì una voce a dimostrazione ulteriore della sincerità del Messia. Nella parte inferiore gli altri apostoli incontrano un giovane posseduto che allarga le braccia e rivolta gli occhi all’indietro con un gesto di drammatica teatralità. La piccola folla è stupita e indica verso la miracolosa apparizione superiore. I volti sono fortemente caratterizzati e raccolgono una splendida serie di espressioni e moti dell’anima. Altre due figure fanno capolino alla sinistra dell’opera, in secondo piano: forse sono i santi Felicissimo e Agapito, la cui festa si celebrava il 6 agosto, lo stesso giorno della Trasfigurazione.


Alcuni elementi che rendono questo dipinto un capolavoro di vitalità e movimento: notate lo splendido paesaggio naturale raffigurato al tramonto che vediamo sulla destra e che ci fa capire l’ora del giorno in cui avvenne la Trasfigurazione. Osservate l’utilizzo sapiente della luce che proviene da diverse fonti e con gradazioni differenti. Ma soprattutto siamo catturati dall’inedita posizione di Gesù che si solleva in volo sprigionando una forza e una luminosità che sembrano generare una serie di reazioni a catena che animano tutta la pala. Esattamente come riferisce il testo evangelico, il volto di Gesù risplende come il sole e le sue vesti diventano bianche come la luce. Una luce che sembra giungere fino a noi.


Questo post si avvale di contributi bibliografici vari che potete consultare qui

I comics in Europa tra le due guerre mondiali

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Nuovo post dalla rubrica #IconaFumetto che ripercorre per voi la storia di questa forma d'arte, tra illustrazione e cinema. Questa volta vedremo il fumetto in Europa e nel mondo nei primi trent'anni del Novecento.
Diversamente da come accadde in negli Stati Uniti, in Europa il pubblico dei fumetti rimase per molti decenni ancora essenzialmente infantile. In sostanza la cultura europea continuò a considerare questo mezzo come una lettura curiosa, specifica per i bambini. Come fosse un banco di prova per chi ancora non sapesse leggere che si poteva aiutare con le figure. Questo modo di pensare il fumetto, specialmente in Italia, durerà per molti anni e in alcuni casi ancora oggi c'è chi la pensa in questo modo. La maggior parte dei protagonisti dei fumetti europei quindi furono bambini, personaggi animali più o meno umanizzati o giocattoli dotati di vita propria.

Sulle pagine del Corriere dei Piccoli fa la sua apparizione nel 1928 il Marmittone, di Bruno Angoletta. Si tratta delle avventure di un mite soldatino, un po' goffo e pacifista che verranno interrotte con l'avvento del fascismo che vide in questo personaggio un disfattismo intollerabile.
Il borghese Sor Pampurioè un personaggio ideato da Carlo Bisi nel 1929, capace di incarnare le nevrosi dell'Italia d'alto ceto, mai soddisfatta e sempre propensa al consumismo più sfrenato.

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Il vecchio fumatore di sigaro Adamson, creato nel 1920 dallo svedese Oscar Jacobsson è il perfetto bonaccione, tranquillo perdente, sempre impreparato alle avversità della vita quotidiana. Oggi la statuetta data in premio ogni anno al miglior fumetto in Svezia, rappresenta proprio Adamson.
Del 1925 sono invece le avventure di Zig et Puce fumetto francese di Alain Saint-Ogan. Si tratta di due ragazzini e un pinguino sempre in giro per il mondo.

Le avventure di Tintin
Hergé è uno pseudonimo che nasce dalle iniziali di Georges Rémy, come dire in italiano "Erregi". Il giovane disegnatore belga non poteva immaginare nel 1929, quando iniziò le avventure del reporter Tintin che questo buffo personaggio sarebbe diventato sinonimo di fumetto. Una vera icona, prima in Belgio, poi nel mondo francofono, poi in tutto il globo. Si tratta di uno dei fumetti più famosi e amati in assoluto, vero e proprio monumento della comic art internazionale.


Just Kids, "solo ragazzini" sono i protagonisti di questa deliziosa strip ideata dallo statunitense Ad Carter nel 1923. Si tratta delle avventure di una banda di teppistelli, composta da diverse etnie, più ingenui che altro.
L'australiano Pat Sullivan nel 1917 dà vita a una serie fortunata di disegni animati che per protagonista hanno un piccolo gatto nero: Felix the Cat, perfetto interprete di storielle divertenti. Il personaggio ebbe talmente successo che venne proposto a Sullivan di ricavarne una serie a fumetti nel 1923. Felix diventò un personaggio amatissimo riproposto anche per molti giocattoli, pubblicità e persino dischi.


La storia di Mickey Mouse e del suo creatore Walt Disney sarà molto nota a tutti voi, anche al di fuori del mondo dei fumetti. Qui Topolino viene ricordato nella sua prima apparizione in un disegno animato del 1928 realizzato da Disney insieme a Ub Iwerks, che secondo alcuni è il vero padre di Mickey Mouse. A partire dal 1930 uscì il fumetto che per anni rappresentò alla perfezione l'America del New Deal, sempre ottimista e positiva malgrado tutto.

Continua l'esplorazione ...

Se vuoi scoprire tutta la storia del fumetto segui l'etichetta #iconafumetto

Fonti: Gulp!100 anni a fumetti, a cura di Ferruccio Giromini, Marilù Martelli, Elisa Pavesi, Lorenzo Vitalone, Electa, Milano, 1996

Man Ray

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Man Ray nacque a Filadelfia il 27 agosto del 1890. Fu il primo genito in una famiglia ebrea il cui padre, originario di Kiev, era emigrato in America nel 1886 alla ricerca di fortuna, seguito dalla futura moglie Manya nel 1888. Il vero nome di Man Ray è Emmanuel Radnitzky: il giovane artista crebbe a stretto contatto con le tradizioni e la lingua ebraiche. Fin da piccolo manifestò l’interesse per la pittura, la letteratura e la poesia: infatti con una scatola di colori regalatagli da un cugino cominciò a copiare le fotografie pubblicate su un quotidiano locale. Anche nella scuola superiore, frequentata a Brooklyn, seguì i corsi di disegno libero e di disegno tecnico.

Particolare importanza avrà nella vita di Man Ray proprio l’insegnante di disegno tecnico che, attraverso una raccomandazione scritta, farà ottenere al giovane artista una borsa di studio per accedere alla facoltà di architettura della New York University. L’artista in questi anni frequentò teatri, assistette a concerti e visitò musei, inoltre continuò a dipingere, sia all’aria aperta che a casa, dove trasformò la propria camera da letto in un atelier. Si dedicò a diversi lavori tra cui edicolante, apprendista incisore, disegnatore per un’agenzia pubblicitaria e grafico per una casa editrice specializzata in ingegneria meccanica.

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Nel 1911 realizzò la sua prima opera astratta, Tapestry, un arazzo composto da centodieci campioni di tela presi dalla sartoria in cui lavorava il padre. Al 1912 invece risale il cambio di nome dell’artista la cui famiglia adottò il cognome Ray al posto di Radnitzky: a questo punto Emmanuel  sostituì il proprio nome con Man che è sia diminutivo, ma che sta anche a significare "uomo". Ecco allora che Man Ray sta per "uomo della luce". Presto il giovane Ray manifesterà la propria vocazione antiaccademica e progressista, rivolta alle avanguardie e alle nuove espressioni artistiche che cominciavano ad affacciarsi agli inizi del XX secolo. Data importante è il 1913 quando l’artista visitò la celebre mostra nota come Armory Show allestita a New York, in cui furono presentate al pubblico le opere degli artisti più innovativi e radicali con una gran rappresentanza d’arte europea, da Goya fino alla contemporaneità.

Man Ray, Tapestry
Qui Ray scoprì le opere di Marcel Duchamp e Francis Picabia, entrando in contatto con i rappresentati delle avanguardie artistiche. Conobbe di persona Duchamp, intrecciandovi un’amicizia destinata a durare tutta la vita: è in questo periodo che Ray si avvicinò alla fotografia, acquistando una macchina fotografica per immortalare i propri lavori e realizzare i primi ritratti. Nel 1914 si sposò per la prima volta con Adon Lacroix, una poetessa d’origine belga da cui però divorzierà nel 1936 dopo anni in cui già si erano persi di vista. Ray nel 1920 insieme a Duchamp e alla mecenate americana Katherine Dreier fondò la Société Anonyme, prima istituzione americana finalizzata a raccogliere e presentare al pubblico degli Stati Uniti opere d’arte d’avanguardia. Sempre nel 1920 entrò in contatto con l’ambiente dadaista scrivendo lettere a Tristan Tzara, poeta e saggista tra i fondatori del movimento Dada e collaborando con Picabia, pittore e scrittore francese, alla rivista 391.

Man Ray, esempio di "rayograms"
Il dadaismo fu una tendenza culturale nata tra il 1916 e il 1920 a Zurigo in Svizzera che interessò soprattutto le arti visive, la letterature, il teatro e la grafica. Questo movimento rifiutava la guerra e tutte le forme d’espressione artistica convenzionali: mise in dubbio l'estetica cinematografica e artistica, le ideologie politiche, rifiutando la ragione e la logica e ricercando sempre la stravaganza, la derisione e l'umorismo. Gli artisti Dada erano intenzionalmente sfrontati, eccentrici, ricercando la libertà di creazione per la quale usavano tutti i materiali e le forme disponibili. Nel 1921 Man Ray  venne chiamato a partecipare al Salon Dada. Exposition Internationale, allestito a Parigi, dove presto decise di trasferirsi per iniziare l’avventura in un mondo nuovo. Si riconobbe quasi da subito nel dadaismo pensando all’arte come a qualcosa di internazionale, nuovo, sperimentale non confinabile a una nazione o a una provincia.

Man Ray, Cadeau
A Parigi Man Ray fu accolto come un innovatore con idee originali, quasi fosse un artista già con un passato glorioso e non appena trentenne. La sua prima creazione parigina fu un ferro da stiro pieno di chiodi simile a uno strumento di tortura o a un oggetto da guerra e in effetti in quel momento Man Ray fu come un soldato contro la società nemica che a New York non riuscì o non volle comprenderlo. Ma a Parigi sembrò aver trovato finalmente degli amici entusiasti del suo lavoro e ritrovò anche l’amore. Tra il 1921 e il 1922 conobbe Kiki de Montparnasse, modella francese, con cui iniziò una relazione amorosa destinata a durare sei anni, durante i quali Ray cominciò a realizzare i primi "rayograms", ovvero immagini fotografiche ottenute appoggiando oggetti direttamente sulla carta sensibile.

Man Ray, Le Violon d'Ingres
Sarà proprio Kiki a posare per la sua celebre opera Le Violon d’Ingres, andando oltre la fotografia, stabilendo un rapporto tra cultura e sensualità. Per guadagnarsi da vivere l’artista si dedicò completamente alla fotografia, lavorando anche nel campo della moda per riviste come Vanity Fair, Vogue, Harper’s Bazar e molte altre. Ma l’artista non si accontentò della fotografia, realizzando a partire dal 1923 anche dei film. L’anno successivo venne pubblicato il Manifesto del surrealismo e Ray vi aderì, collaborando con gli artisti di questo movimento d’avanguardia. Il surrealismo nacque un po’ come evoluzione del dadaismo coinvolgendo tutte le arti visive, la letteratura e il neonato cinema. Il teorico principale fu il poeta André Breton che influenzato dalla lettura de

Man Ray, Venere restaurata
L'interpretazione dei sogni di Freud del 1899, pensò a forme d’arte che si lasciassero ispirare e guidare dal sogno e dall’inconscio. Lo scoppio della Seconda guerra mondiale nel 1939 e l’invasione da parte dei nazisti della Francia, nel 1940 porteranno un cambiamento forzato nella vita di Ray. L’artista seguì con apprensione gli eventi politici giorno per giorno e presto dovette decidersi a lasciare il paese. Ed è così che nel luglio del 1940, dopo un lungo vagabondaggio di circa un mese lontano da Parigi, l’artista decise di ritornare negli Stati Uniti. Quando sbarcò a New York però si rese conto che la città della sua infanzia non esisteva più e che gli amici di un tempo erano persi: la grande mela divenne per l’artista quasi una città ostile, sconosciuta, una città che gli riportò alla mente i suoi insuccessi giovanili e che vide in lui semplicemente un fotografo e non un artista.

Man Ray, Bianco e nero
Fu per questo motivo che prese la decisione di partire subito per un viaggio in macchina attraverso tutta l’America che in realtà prima d’allora non aveva mai esplorato. Si fermò a Los Angeles trasferendosi in un quartiere nei pressi di Hollywood seguendo forse una delle attività a cui si era dedicato maggiormente negli ultimi anni: la creazione di film rivoluzionari. Qui conobbe Juliet Browner, ballerina e modella che sarà la sua musa e compagna per trentasei anni.
Ma il richiamo di Parigi fu troppo forte e nel 1951 Ray vi fece ritorno. In fondo l’Europa restò sempre per lui la terra dei suoi genitori, un ritorno verso un passato sconosciuto, un ricongiungimento con le sue radici. Qui riprese a dipingere e iniziò a sperimentare la fotografia a colori mantenendosi però sempre lontano da quella più commerciale.

Man Ray, lacrime di vetro
Si aprirono vent’anni di lavoro divisi tra mostre, premi, esposizioni, retrospettive e nel 1963 uscì anche una sua autobiografia intitolata Self Portrait e distribuita sia in inglese che in francese. L’ultima grande onorificenza che l’artista ricevette fu nel 1976 quando il governo francese lo insignì del grado di Chevalier de l’Ordre des Arts et des Lettres. Man Ray si spense a Parigi in quello stesso anno e oggi riposa al cimitero di Montparnasse. Questo artista morì lasciandosi alle spalle due guerre mondiali che lo sfiorarono appena, ma che avrebbero potuto distruggerlo e che di certo non ne cambiarono l’indole sempre ribelle, contestatrice e trasgressiva fino alla fine.
Un artista che attraversò tre regni dell’arte: quello della pittura, quello della fotografia e quello degli oggetti, contaminando i generi e creando opere d’arte del tutto inedite.

Questo post si avvale di contributi bibliografici vari che potete consultare qui

Hello Museo a Genova

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Nuovo appuntamento con la rubrica "hello museo", nella quale recensisco la presenza delle istituzioni museali sul web. Oggi vi porterò a Genova, alla scoperta dei suoi musei su internet. In questo caso il Comune di Genova ha fatto la scelta di riunirli tutti in un unico portale: una vasta serie di palazzi ed edifici che conservano dei capolavori straordinari. Cominciamo quindi la nostra esplorazione virtuale per conoscere meglio il sito e i profili social ufficiali legati ad esso. Il portale realizzato in sinergia tra Musei di Genova, Comune di Genova e Visit Genoa, lo trovate QUI.

L'aspetto grafico del sito è moderno, semplice e funzionale: la home page ha un bell'insieme di foto, informazioni, link, una panoramica generale non troppo affollata e ben organizzata. Scorrendo la pagina troverete varie informazioni riguardanti mostre ed eventi in primo piano, le notizie e una piccola casella in alto a destra che potrete utilizzare per iscrivervi alla newsletter.

La colonna di sinistra vi permette invece l'accesso ai singoli musei con la descrizione, la storia, le collezioni, le modalità di visita del museo, le opere, approfondimenti vari, la biglietteria e i contatti, la didattica e molto altro. Tutte sezioni con informazioni sintetiche, ma esaustive. C'è da sottolineare il fatto che alcune di queste istituzioni hanno poi di siti a parte a cui potete accedere per pianificare la vostra visita e raccogliere tutte le informazioni di base necessarie.
Nella barra di navigazione orizzontale, in cima al portale, potete scegliere tra diverse sezioni: opere, con un elenco dettagliato delle collezioni; mostre, in cui troverete le esposizioni temporanee; eventi, con tutte le attività connesse ai musei; card musei, in cui potete avere tutte le informazioni su una carta che vi darà una serie di vantaggi e agevolazioni; convenzioni, per scoprire gli accordi con Enti e Associazioni che consentono agevolazioni tariffarie; una mappa dei musei e la loro disposizione nella città; e infine la sezione info e contatti con tutte le indicazioni per gruppi, studiosi, tirocini, sostenitori, sponsor, ecc ecc.

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Quindi un sito con una bella grafica, utile per organizzare la visita, ma anche ricco di materiale informativo. Tutto sommato mi aspettavo molto di peggio visto la media dei portali web dei musei! Ma veniamo alla presenza sui social: qui arriviamo al tasto dolente, infatti i musei di Genova quanto a profili social scarseggiano. Li potete infatti trovare solo su Facebook con una pagina dedicata con oltre 5.000 like al momento della creazione di questo post. I post sulla pagina sono frequenti e diversificati anche se non c'è una grandissima interazione con il pubblico, né attraverso commenti, né con piccole iniziative che coinvolgano di più i "visitatori virtuali". Sicuramente c'è un buon margine di miglioramento. Mi rendo conto che la creazione e gestione di profili social e siti internet richieda tempo e denaro che spesso le istituzioni museali non hanno, ma è molto importante coinvolgere il pubblico virtuale che in un secondo momento potrebbe trasformarsi in visitatore materiale.


Ma veniamo ai voti che, come saprete, vanno da una a cinque stelline (*****)!
Presenza sul web ** Voto basso per la mancanza di diversi social.
Funzionalità ed utilità effettiva **** Un buon voto perché, pur nei miglioramenti che sempre si possono realizzare, le informazioni che i musei di Genova danno ai visitatori virtuali sono buone.
Dialogo e coinvolgimento del pubblico ** Sul coinvolgimento siamo un po' insufficienti, ma speriamo si possa migliorare.
Voi cosa ne pensate? che voti dareste?
Intanto vi invito ad andare a visitare il sito dei Musei di Genova e a scoprirne la storia e le straordinarie opere d'arte custodite.
Alla prossima recensione!

Per scoprire gli altri musei, segui l'etichetta #HelloMuseo!

Buone Feste da Artesplorando

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Artesplorando augura a tutti voi Buone Feste nella speranza che possiate viverle con chi amate e magari ... all'insegna dell'arte!
Ed ecco quindi un collage di immagini selezionate per voi in cui il filo conduttore è il freddo, l'inverno che tanto mi ricorda le feste natalizie.
Come ogni anno dicembre è il mese in cui si fa il punto della situazione e devo dire che il 2016 è stato un anno ricco di sorprese per Artesplorando con la nascita di nuovi progetti ad esso connessi.
Un anno ricco di soddisfazioni personali.

Oltre 70.000 like alla pagina Facebook → www.facebook.com/Artesplorando
Più di 1.500 follower su Twitter → twitter.com/artesplorando
6.700 iscritti al canale Youtube → www.youtube.com/user/artesplorandochannel
780 post sul blog, per non dimenticare la presenza su Google  Plus, Pinterest e Tumblr.
Inoltre è stato un anno di nuove collaborazioni. Sul canale Youtube hanno preso il via i video "l'arte in 10 punti" in collaborazione con il blog dueminutidiarte.com e la serie "dieci momenti di ..." realizzata con il contributo del blog lasottilelineadombra.com.
Da gennaio Artesplorando collabora anche con Area51 Publishing, una casa editrice di Bologna, nella creazione degli Audioquadri, un nuovo modo per conoscere la storia dell'arte. Per saperne di più seguite il link → www.area51editore.com

E se non fosse sufficiente, sappiate che è in cantiere un progetto che vi metterà a disposizione un nuovo modo per visitare i musei in maniera semplice, pratica e divertente. Se siete curiosi potete avere un assaggio di tutto questo visitando il sito → www.arternative.it

E poi in tutto questo ci siete stati voi! con il vostro affetto, le critiche, gli apprezzamenti, insomma il senso di una comunità costruita sulla passione per l'arte. Grazie!
Artesplorando si prenderà un paio di settimane di vacanza per riordinare le idee e tornare più carico di prima. Per cui arrivederci al 2017
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