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Intervista a Federica Fontana del blog Inanimanti

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Riprendo dopo un po di tempo l'ormai celebre rubrica del blog dedicata agli art blogger: "c'è arte nella blogosfera". Oggi conosceremo Federica, la curatrice del blog Inanimanti.
Si tratta di un blog con la missione di comunicare l'arte contemporanea in maniera diversa. Alla ricerca di un modo per avvicinare l’arte contemporanea alle trasformazioni in atto nella società moderna e svelarne le connessioni. In particolare Inanimanti parla di tutto ciò che nella cultura contemporanea sta portando l'essere umano a liberarsi del proprio corpo.

Vorrei che per cominciare ti presentassi, chi sei, quali studi fai o hai fatto, quando e perchè hai iniziato a scrivere il blog, e qual è lo scopo, la missione, il fine che ti sei prefissata diventando blogger.

Sono laureata in storia dell'arte e amo scrivere più o meno da quando ho imparato a tenere una penna in mano, di conseguenza raccontare l'arte per me è sempre stato il non plus ultra di tutte le occupazioni. Inanimanti - un neologismo che ho inventato per complicarmi la vita, fondendo le parole “inanimati” e “amanti”- è nato prima di tutto come una sfida: a me stessa, per vedere se riuscivo a far sopravvivere un blog per più di due settimane, e agli scettici, per sfatare uno dei cliché più tediosi di sempre, ovvero che l'arte contemporanea sia incomprensibile e autoreferenziale. L'argomento riprende un progetto di allestimento che avevo proposto quando ero ancora in università: una mostra sul post umano che si intitolava “La fine del corpo” e raccontava la storia della sparizione del corpo nel digitale. Il blog recupera lo stesso tema mettendo le opere più controverse degli ultimi ottant'anni in relazione con altri ambiti della nostra cultura, come moda, scienza, medicina o nuove tecnologie, creando intrecci e connessioni. Parlandone in una veste insolita vorrei mostrare che l'arte oggi non va affatto per conto suo come potrebbe sembrare, ma cerca di rispondere alle stesse domande che ci facciamo noi, molto spesso prima di noi, proprio come ha sempre fatto. 

Qual è il tuo rapporto, il tuo approccio con il luogo per eccellenza che custodisce le opere d'arte, cioè il museo: sei più da "turistodromo" o preferisci piccoli musei poco frequentati e quale ti sentiresti di consigliare ai lettori di Artesplorando.

Non c'è una tipologia che preferisco, l'unica condizione è che la collezione sia di qualità o mi interessi per qualche motivo. Ho un debole per i musei che curano tutti gli aspetti: allestimenti, scelta delle opere, storytelling eccetera; amo quelli da cui puoi uscire sentendo di aver imparato qualcosa che prima non sapevi. Ai lettori consiglierei sempre di osare, oltre ai grandi nomi noti ci sono molte altre realtà da considerare, anche se meno conosciute e tradizionali, come ad esempio le fondazioni o le case museo. 

Che rapporto hai con le mostre? oggi spesso diventano eventi mediatici molto pubblicizzati, ma alla fine di poca sostanza. Quali sono le mostre che preferisci e se vuoi fai un esempio di una in particolare che ti ha colpito.

Di norma temo i panegirici e tendo ad evitare gli eventi troppo pubblicizzati… Ho imparato a mie spese che nove volte su dieci un'ottima campagna di comunicazione non va di pari passo con la qualità dell'offerta. Mi interessano le mostre che sperimentano e quelle che hanno un buon progetto scientifico alla base. Una delle migliori che ho visto quest'anno è stata Sguardo di Donna ai Tre Oci a Venezia, curata da Francesca Alfano Miglietti: lì tutto era impeccabile, dagli allestimenti di Marras alla selezione delle artiste, alla luna piena sul canale della Giudecca quando sono uscita...

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Se fossi il ministro dei Beni Culturali e il Presidente del Consiglio ti desse carta bianca, quale sarebbe il tuo primo provvedimento?

C'è veramente l'imbarazzo della scelta. Dopo un bell'attacco di panico direi che continuerei con le misure di sostegno dell'iniziativa privata, considerando anche il buon andamento dell'Art Bonus nel 2016. Poi, dato che stiamo parlando di fantascienza, cercherei soprattutto di promuovere la cooperazione tra arte e impresa come fattore di innovazione, di potenziare la digitalizzazione del patrimonio e investire sull'aggiornamento in massa degli statali per riportare la comunicazione museale ad un livello almeno vagamente plausibile. Infine con una bacchetta magica ridarei a tutti gli operatori del settore il loro status di professionisti e farei in modo che vengano retribuiti come tali. 

Cosa proporresti di leggere a una persona che si avvicini per la prima volta alla storia dell'arte? un testo scolastico, un saggio, una monografia…

Partirei dai fondamentali con Fantasia di Bruno Munari. E poi ovviamente un buon manuale, come l'intramontabile Storia dell'Arte di Gombrich.  

Arriva il Diluvio Universale e tu hai la possibilità di mettere qualche opera d'arte nell'arca di Noé, quali sceglieresti?

Domanda da un milione di dollari. Con il cuore in mano e pensando soprattutto a me stessa direi L'allegoria del buono e del cattivo governo di Ambrogio Lorenzetti, i fiamminghi tout court, Le stelle di Arturo Martini, La morte e la ragazza di Schiele, La Cattedrale di Rodin, Le due Frida di Frida Kahlo, Quien puedes borrar las huellas di Regina Josè Galindo, L'albero grigio di Mondrian, Sera sul viale Karl Johan di Munch, almeno una Pietà di Michelangelo e tutta la serie delle notti parigine di Brassai 




Con quale artista (anche non più tra noi!) ti sentiresti di uscire a cena o a bere qualcosa? e perchè?

Miranda July. Adoro il suo umorismo, il suo eccletismo, la sua freschezza e il suo acume. Sicuramente non sarebbe una serata noiosa. 

Oggi in TV e alla radio non c'è molta arte, e cultura in generale. Tu cosa consiglieresti di guardare (o ascoltare) al lettore di Artesplorando. Può anche essere un programma non prettamente d'arte, ma al cui interno ci sia un'approfondimento artistico. In onda ora, ma anche nel passato (ovviamente valgono anche le web-tv).

Sono stata una fan di Passepartout. anche per l'idea comunicativa che era alla base di quel programma: picchi di cultura alta alternati a sprazzi di cultura pop, resi plausibili dal carisma di Philippe Daverio: un mix riuscito che non annoiava mai e arrivava a tutti.

In un ipotetico processo alla storia dell'arte tu sei la difesa, l'accusa è di inutilità e di inadeguatezza ai nostri tempi, uno spreco di tempo e di soldi. Fai un'arringa finale in sua difesa.

Reagirei citando Oscar Wilde e dicendo che oggi la gente sa il prezzo di tutte le cose ma ne ignora il valore.

Concluderei con una bella citazione sull'arte, quella che più ti rappresenta!

L'arte è ciò che rende la vita più interessante dell'arte. Robert Filliou.

E con questa splendida citazione salutiamo Federica e ... tutti a leggere Inanimanti: inanimanti.com



Il Doriforo di Policleto, la perfezione oltre la realtà

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Il Doriforo, che tradotto sta a significare "portatore di lancia", è una statua realizzata dallo scultore greco Policleto, attivo tra il 460 e il 420 a.C. circa. Non si sa esattamente chi rappresenti, ma si pensa che sia l'idealizzazione dell'eroe Achille. E' un'opera emblema, conosciuta in tutto il mondo e che in un certo senso incarna l'idea stessa di classicità. Come spesso capita con le statue greche antiche, anche di questa non abbiamo l'originale, ma un complesso numero di copie e frammenti, riescono a restituirci un'idea abbastanza fedele dell'originale.

L'artista qui non si concentrò sull'imitazione della realtà, ma preferì dedicarsi alle proporzioni e ai rapporti tra le varie parti di questo nudo maschile. Il concetto di canone o sistema proporzionale era già in uso prima dei Greci, basti pensare all'arte egizia, fissata in regole precise. Ma mentre in Egitto gli artisti stabilirono un rapporto proporzionale molto arbitrario, Policleto partì da un'osservazione molto complessa della figura nel suo insieme e nei rapporti delle sue varie parti con il tutto.


Un po' di esempi per capirci meglio: lo scultore ha messo in relazione la misura del dito rispetto al metacarpo e al carpo, dell'avambraccio con il braccio e via di seguito. La figura dell'uomo è armonizzata in tutte le sue parti, sulla base dell'unità di misura data dalla testa. Il capo della scultura è esattamente un ottavo del corpo e questa regola non solo è accettata ancora oggi come aurea, ma per certi versi poggia su una base scientifica, verificabile.

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Il mondo greco era molto interessato ad andare oltre la semplice osservazione della realtà, cercando di cogliere lo schema segreto, il disegno ideale che è nascosto sotto l'apparenza delle cose. Quindi l'artista non vuole riprodurre la realtà, ma il prototipo ideale a cui la realtà stessa sembra ispirarsi. Abbiamo di fronte a noi una specie di sovra-natura, lo specchio privo di imperfezioni della natura che conosciamo. Gli autori latini che descrissero l'opera non ne ammirarono solo la proporzione, ma anche la cosiddetta "ponderatio", per cui il personaggio poggia tutto il peso del corpo su una sola gamba.


Questo spostamento del peso della statua provoca la "tetragonia": si tratta di una relazione che lega fra loro le quattro parti della scultura in un rapporto uguale e inverso. Alla gamba destra che regge il peso del corpo corrisponde infatti la spalla sinistra che regge il peso della lancia; alla spalla destra che scende seguendo la flessione dell'anca, corrisponde la gamba sinistra piegata che accenna un passo. Questa simmetria inversa a X provoca un effetto straordinario di movimento in tutta la figura, realizzando un'armonica corrispondenza tra le parti che ancora oggi ci ispira stupore e meraviglia.

Questo post si avvale di contributi bibliografici vari che potete consultare qui

Michelangelo

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Michelangelo, Pietà, 1497-1499
Artista assolutamente geniale, la cui attività spaziò dalla scultura, alla pittura, all'architettura, alla scrittura di poesie e nei primi tre campi vi lasciò un segno indelebile. Non sarà facile riassumere Michelangelo Buonarroti in poche parole, perché sicuramente va posto nell'Olimpo dell'arte, ai primi posti. Michelangelo realizzò un percorso artistico assolutamente unico fatto di forme, architetture, immagini e sculture. Fin dall’inizio della sua formazione fu un pensatore a 360 gradi, producendo un gran numero di disegni, a volte solo abbozzi, in cui cercò di trasferire l’idea sulla carta.

Ma procediamo con ordine: figlio di Ludovico Buonarroti Simoni e Francesca di Neri, Michelangelo nacque il 6 marzo del 1475 a Caprese, in provincia d’Arezzo. La nascita a Caprese avvenne casualmente, per l’impegno come magistrato podestarile del padre Ludovico. Pochi mesi dopo la sua nascita, la famiglia rientrò a Settignano, sui colli fiorentini. Il padre affidò poi il figlio all’educazione umanistica da parte del letterato Francesco da Urbino.

La prima giovinezza a Firenze 

Presto si espresse nel giovane Michelangelo l'interesse verso l'arte e per impararne i primi rudimenti fu messo a bottega presso Domenico Ghirlandaio nel 1488. In quel periodo il maestro fiorentino stava decorando ad affresco il coro di Santa Maria Novella a Firenze, e non è improbabile quindi che il giovane Buonarroti abbia mosso i primi passi da artista collaborando proprio a quell'impresa. La sua permanenza presso il Ghirlandaio però non durò a lungo, e già l’anno successivo Michelangelo cominciò a frequentare il giardino di San Marco. In quella che è stata definita una sorta di prima Accademia d'arte d'Europa, il giovane artista ebbe modo di studiare le statue antiche delle collezioni di casa Medici e di scolpire sotto la guida di Bertoldo di Giovanni.  Anche dopo la morte di Lorenzo il Magnifico e l’abbandono del giardino di San Marco, Michelangelo continuò a preferire la scultura e gli studi anatomici alla pittura.

Michelangelo, Bacco, 1497
Michelangelo, Cristo risorto, 1519-20

La Battaglia di Cascina

Particolarmente importante per Michelangelo fu la primavera del 1501 quando vide l'esposizione pubblica del cartone preparatorio realizzato da Leonardo da Vinci per la Sant’Anna: quel complesso intrecciarsi di corpi lo affascinò in maniera particolare. Le esperienze di questi due colossi dell’arte furono molto diverse e, insieme agli opposti temperamenti, concorsero ad alimentare un’ostilità reciproca che sarebbe durata per sempre. Leonardo era in quel momento il primo pittore fiorentino e a lui la Signoria della città aveva affidato la decorazione della Sala del Consiglio a Palazzo Vecchio. Nell’autunno del 1504 una porzione di questa decorazione e cioè la storia della Battaglia di Cascina, venne affidata a Michelangelo ormai artista di grande successo a Firenze grazie al David marmoreo, scolpito in quegli anni da un blocco già lavorato da due artisti prima di lui.

Un dettaglio del David
Inizialmente Michelangelo per Palazzo Vecchio pensò di realizzare il tema della battaglia ispirandosi al groviglio di uomini e cavalli ideato da Leonardo per la Battaglia di Anghiari. In seguito però decise di riservare alla battaglia il secondo piano del dipinto, mentre in primo piano rappresentò i soldati fiorentini sorpresi dai pisani sulla riva del fiume. Questa nuova composizione permise a Michelangelo di sfruttare al massimo le sue conoscenze di anatomia e di celebrare la vitalità e la bellezza del corpo umano in movimento. Purtroppo il cartone della Battaglia di cascina andò distrutto.

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Michelangelo a Roma: la Cappella Sistina 

La realizzazione dell'affresco a Palazzo Vecchio venne interrotta all’inizio del 1505 dalla chiamata a Roma di Michelangelo, da parte di papa Giulio II. La collaborazione tra questi due protagonisti del primo '500 romano fu inizialmente complicata e quasi subito Michelangelo lasciò Roma per tornare a Firenze, contrariato dalle lunghe discussioni sul progetto della tomba papale. Presto però artista e committente trovarono un accordo e il 10 maggio 1508 Michelangelo iniziò i lavori per la decorazione ad affresco della Cappella Sistina in Vaticano. Inizialmente il progetto prevedeva solo il rifacimento della vecchia volta stellata, ma in seguito Michelangelo fu autorizzato a decorare anche le lunette terminali delle pareti e i quattro grandi pennacchi d’angolo. Nacque così il capolavoro assoluto che tutti noi oggi conosciamo.

Particolare della volta della Cappella Sistina


Il ritorno a Firenze e i disegni per Tommaso Cavalieri

Conclusa la volta della Cappella Sistina, Michelangelo poté dedicarsi nuovamente ai lavori per la tomba di Giulio II realizzando diverse sculture. Nel frattempo però il papa morì e il nuovo Leone X, proveniente dalla famiglia Medici, gli impose di lavorare per la facciata della chiesa di San Lorenzo a Firenze e per le tombe medicee nella sacrestia nuova della medesima chiesa. Seguirà successivamente un nuovo incarico per la realizzazione della Biblioteca Laurenziana. Tutte queste commissioni legate ai Medici tratterranno Michelangelo a Firenze fino al 1534, anno della morte di papa Clemente VII. La scultura, l'affresco e l'architettura prevalsero nella carriera dell'artista e infatti poche sono le opere di pittura mobile giunte fino a noi.
Molto noti restano i disegni al giovane amico nonché amore platonico di Michelangelo, Tommaso Cavalieri, conosciuto nel 1532. Si tratta di disegni accurati che dovevano servire al giovane come modello per apprendere la tecnica grafica.

Michelangelo, Giudizio Finale

II Giudizio finale e gli ultimi anni

Tornato a Roma l'artista si dedicò, su commissione di papa Paolo III, a un progetto già voluto forse da Clemente VII, cioè la decorazione della parete di fondo sovrastante l’altare della Cappella Sistina. Ci vollero lunghi mesi di tempo per preparare il muro ad accogliere il nuovo affresco e solo nella primavera del 1536 Michelangelo iniziò i lavori che terminarono il 18 novembre del 1541. Il Giudizio venne interpretato da Michelangelo come una tempesta atmosferica che si abbatte inesorabilmente sull'uomo, minacciandone l'annientamento totale.


La visione apocalittica del Giudizio è frutto di una crisi religiosa che colpì Michelangelo in questi anni, confermata dalla sua produzione letteraria e dai rapporti epistolari che intrattenne con la nobildonna e poetessa romana Vittoria Colonna, frequentata fino al 1547. Per questa donna Michelangelo eseguì diversi disegni di argomento religioso di cui si sono conservate però pochissime testimonianze.


Terminata anche la decorazione della Cappella Paolina in Vaticano, Michelangelo si dedicò a Roma quasi esclusivamente all'architettura, lavorando a progetti e cantieri per San Pietro, il Campidoglio, Palazzo Farnese, San Giovanni dei Fiorentini, ecc. Negli ultimi anni di vita l'artista ridurrà la produzione di scultore a una meditazione continua e quasi ossessiva sul tema della Pietà. Con mano sempre più dubbiosa e insoddisfatta Michelangelo, ormai ottantenne, realizzò corpi consumati e disfatti dall’atmosfera circostante. Un’idea di quali furono le ultime immagini della fantasia visionaria dell'artista ci viene data dalla Pietà Rondanini, alla quale Michelangelo lavorò fino agli ultimi giorni della sua vita.


Da perfetto neoplatonico quale fu riteneva che la forma fosse già contenuta nella materia, pronta per essere liberata e resa visibile a tutti, lavorando tutta la vita per raggiungere questo scopo.
L'artista morì il 18 febbraio del 1564 avendo fatto testamento, secondo quanto riportato dall'artista e storico dell'arte Giorgio Vasari "di tre parole, che lasciava l’anima sua nelle mani di Dio, il suo corpo alla terra, e la roba a’ parenti più prossimi". Vi lascio con le parole che il poeta Ludovico Ariosto dedicò al sommo maestro:
"[...] quel ch'a par sculpe e colora,
Michel, più che mortale, Angel divino"
Ludovico Ariosto, Orlando furioso/canto XXXIII, 2, 3-4

Questo post si avvale di contributi bibliografici vari che potete consultare qui

Il ritratto minoico-miceneo

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Maschera funeraria micenea detta di "Agamennone"
Nella cultura minoico-micenea, sviluppatasi in Grecia, il ritratto non ebbe carattere individuale e realistico, ma intenzionale e tipologico (come abbiamo visto fino ad ora), limitandosi a caratterizzare la regalità del sovrano, la dignità del sacerdote, visti come tramite con la divinità.
L’arte minoica in particolare, sviluppatasi intorno al fastoso palazzo di Cnosso a Creta, fu caratterizzata da produzioni pittoriche, scultoree, orafe e ceramiche abbondanti, in cui però scarseggiò il tema del ritratto a favore di scene di natura (flora e fauna) e tauromachie, particolarmente predilette.


Nell'arte micenea invece, che prende nome dalla capitale Micene e si sviluppò nel Peloponneso, regione della Grecia meridionale, il campo più produttivo fu certamente quello dell'arte orafa e della produzione ceramica. Queste civiltà, come quelle egizia e fenicia, usavano mettere sui volti dei loro defunti più importanti una maschera, che li accompagnasse nell'aldilà.

Agamennone

Particolarmente suggestive sono le grandissime maschere funerarie in oro massiccio ritrovate a Micene, come quella che inizialmente si credeva raffigurasse Agamennone, una delle figure più importanti della mitologia greca, successivamente identificato come un erede di Troia. La splendida maschera mortuaria che vedete nella foto risale al XVI secolo a.C. e raffigura l'imponente volto di un uomo con la barba dalle sopracciglia marcate, il naso lungo e stretto, la bocca larga con labbra sottili, gli occhi chiusi e le orecchie regolari. La barba è resa in modo preciso e i baffi sono lunghi e arricciati all'insù. Essa è costituita da un foglio d'oro con i dettagli lavorati a sbalzo. Due fori vicini alle orecchie indicano che la maschera era tenuta ferma sopra il volto del defunto con uno spago.

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Tra XX e XXI secolo, l'autenticità del reperto venne formalmente messa in discussione, soprattutto dagli studiosi William Calder III e David Traill. Secondo i sostenitori di questa ipotesi fu l'archeologo responsabile degli scavi di Micene, il tedesco Heinrich Schliemann, a interrare la maschera. Ad avvalorare le accuse vennero fatte delle osservazioni sullo stile dell'opera: la maschera di Agamennone infatti differisce dalla altre rappresentando una fisionomia più dettagliata e particolareggiata. Nonostante queste ipotesi ad oggi la maggioranza degli studiosi è propensa a ritenere che si tratti di un originale.

Vuoi saperne di più?

All'arte di queste popolazioni seguì quella della Grecia antica con l’evoluzione della società verso le Polis e con la creazione del vero ritratto fisionomico.
Per una guida introduttiva al genere del ritratto leggete QUI
Per scoprire la storia del ritrattismo segui l'etichetta #ritrattieritrattisti

Fonti: Il ritratto, a cura di Stefano Zuffi, Electa, Milano, 2000


Madonna di Foligno, Raffaello

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Raffaello, Madonna di Foligno
Quest’opera fu commissionata a Raffaello nel 1511 da Sigismondo de’ Conti, dignitario di Papa Giulio II, per essere collocata nella chiesa di S. Maria in Aracoeli a Roma. Il suo nome però è dovuto al fatto che già nel 1565 venne trasferita da una discendente dei de’ Conti in un monastero a Foligno, piccola città del centro Italia da cui proveniva la famiglia. Ma questa Madonna conobbe anche altre traversie: fece parte di quelle opere che Napoleone portò con sé in Francia nel 1797 in seguito al Trattato di Tolentino e solo dopo il suo rientro in Italia entrò a far parte della Pinacoteca Vaticana.

Inoltre il dipinto in origine venne realizzato su tavola, ma a seguito di un restauro realizzato negli anni Cinquanta, venne trasportato su tela. L’opera rappresenta la Madonna col Bambino, vestita con i colori tradizionalmente a lei attribuiti: il rosso come madre e l’azzurro come regina. La Madonna è seduta su un soffice trono di nuvole, circondata da un disco luminoso e da trasparenti putti.

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In basso troviamo: a sinistra, san Giovanni Battista in piedi che guarda verso di noi con san Francesco d'Assisi in ginocchio che stringono entrambi una croce; a destra, in una insolita veste azzurra, san Girolamo riconoscibile dal docile leone, che presenta alla Madonna il committente inginocchiato e ritratto di profilo. Sigismondo veste un ricco mantello rosso foderato di pelliccia d’ermellino da cui spuntano le maniche nere dell’abito sottostante. Al centro c’è un angioletto che orienta uno sguardo incantato in direzione della visione celeste; tiene in mano una tavola senza iscrizioni.

Dettaglio con il misterioso "arco luminoso"
Ma è nel paesaggio dietro ai personaggi che si nasconde un mistero. Tra le morbide e verdeggianti colline infatti emerge una cittadina sovrastata da un arco luminoso, dentro cui scorgiamo una palla infuocata che appare diretta verso le case. Di che si tratta? Perché l’artista l’ha inserita? È forse una cometa, una sfera di plasma, un meteorite? Oppure all’interno della Madonna di Foligno è rappresentato un ufo? Al di là delle teorie di invasioni aliene, forse una spiegazione razionale c’è. È testimoniato infatti che il 4 settembre 1511, alle due di notte, una meteora esplose sopra i cieli di Crema, poco a sud-est da Milano, proprio nel periodo in cui l’artista lavorò al dipinto. È possibile che Raffaello abbia voluto inserire questo eclatante episodio? O forse fu una richiesta del committente? L’enigma resta irrisolto.

Questo post si avvale di contributi bibliografici vari che potete consultare qui

Il ritratto romano repubblicano

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Ritratto di ignoto di Osimo
Il ritratto romano fu uno dei più importanti vertici dell'arte di Roma e del ritratto in generale, raggiungendo traguardi di grande intensità e verismo. Ci sono giunti numerosissimi esemplari, anche originali, che hanno permesso una valutazione molto approfondita di questa disciplina artistica sotto la dominazione di Roma. Il ritratto romano repubblicano nel particolare è una forma artistica specifica dell'arte romana, databile tra l'inizio del I secolo a.C. e il 50 a.C. circa.

A partire da Silla (generale e dittatore romano), quando l'arte romana iniziò in più campi a muoversi verso nuovi traguardi rispetto all'influenza greca, si sviluppò un nuovo tipo di ritratto ispirato a un'esasperata concezione delle virtù dell'uomo romano: carattere forgiato dalla durezza della vita e della guerra, fierezza, sobrietà, inflessibilità, ragione di stato, paternalismo, interesse di classe, ecc.

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I patrizi dopotutto detenevano il diritto a tenere ritratti dei propri antenati che venivano mostrati durante le cerimonie pubbliche, e la fioritura di questa forma artistica va sicuramente messa in relazione con il momento di esaltazione che il patriziato ebbe sotto Silla, quando vide soddisfatte le proprie rivendicazioni a discapito dell'avanzare delle forze della plebe. Nonostante la breve durata del fenomeno artistico, esso fu una delle prime "invenzioni" artistiche romane e riflesse una precisa situazione storica, esaurendosi con essa.


Lo stile di queste opere è accurato e minuzioso nella resa dei dettagli anatomici e non fa sconti a difetti o a segni della vecchiaia. Nel ritratto di Osimo che vedete qui, tutte queste caratteristiche sono presenti: osservate l'epidermide solcata dagli anni e dalle difficili condizioni della vita tradizionale contadina, la capigliatura rada, gli occhi infossati, le labbra sottili e serrate. Il ritratto "veristico" divergeva definitivamente dai modelli alessandrini (ed ellenistici in generale) che tendevano a idealizzare le persone raffigurate. In questo caso il volto è ridotto a una dura maschera, dove non vengono risparmiati i segni del tempo e di una vita trascorsa a lavorare.
Il ritratto di ignoto di Osimo è un bellissimo esempio d'esaltazione dei caratteri fisiognomici individuali.


Scopri di più ...

Per una guida introduttiva al genere del ritratto leggete QUI
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Fonti: Il ritratto, a cura di Stefano Zuffi, Electa, Milano, 2000


Raffaello, ritrattista poco ricordato

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Raffaello, ritratto di giovane cardinale
Raffaello Sanzio (1483-1520), insieme a Leonardo e Michelangeloè uno dei pilastri del rinascimento maturo, un vero genio, la cui carriera venne stroncata da una morte prematura.
Pochi lo ricordano come un grande ritrattista: invece, anche sotto questo aspetto, l'artista ha offerto splendidi saggi, destinati a restare a lungo nella storia della pittura.
Lo vediamo bene nel ritratto di giovane cardinale del Prado in cui Raffaello inserisce sottili novità prospettiche: la mano, molto vicina a chi guarda, appare assai più grande del volto, spostato verso il fondo, quasi a rimarcare la distanza tra il prelato e il riguardante.

Oppure il celebre ritratto di Baldassarre Castiglione, amico fraterno di Raffaello e autore del "Cortegiano", collocato in modo da apparire amabilmente di fianco a noi, quasi a voler coinvolgerci in un colloquio amichevole, disinvolto, ravvivato da uno spirito colto, ironico e vivace.

Raffaello, ritratto di Baldassarre Castiglione

Il cardinale del Prado

Di quest’opera si è parlato molto perché ad oggi non sappiamo chi sia la figura rappresentata. Si sono fatti i nomi di diversi cardinali alla corte di papa Giulio II: Giulio de' Medici, il Cardinal Bibbiena, Innocenzo Cybo, Francesco Alidosi, Scaramuccia Trivulzio e Ippolito d'Este. A parte la grande qualità d'esecuzione, l'aspetto più sorprendente di questo ritratto è la capacità che ebbe Raffaello di sintetizzare l'immagine definitiva e universale di un cardinale del rinascimento. Non a caso questo dipinto viene indicato come “il cardinale”, piuttosto che “Ritratto di un cardinale”.


L’artista realizzò tutto ciò senza rinunciare a una rappresentazione della natura individuale di quest’uomo evidenziandone il carattere raffinato, astuto e impenetrabile. Questa capacità di imitare la natura deriva dal ritratto fiammingo, che i pittori italiani della seconda metà del Quattrocento studiarono con enorme interesse. L’influenza fiamminga è evidente nella modellazione magistrale del viso, nel modo in cui Raffaello ottiene uno sguardo più penetrante e impassibile attraverso il contrasto tra la direzione degli occhi e la rotazione della testa. La posa a mezza figura, girata di tre quarti verso sinistra, è al contempo naturale ed elegante, di aristocratica spiritualità. La resa della texture degli abiti, come il riflesso di luce sul mantello di seta rossa, rivela inoltre una conoscenza diretta della pittura veneziana. 

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La composizione triangolare dell’immagine deriva chiaramente dalla Gioconda di Leonardo, particolarmente evidente nel posizionamento del braccio in primo piano con lo scopo di diminuire la distanza tra noi spettatori e il corpo del cardinale. Il busto piramidale agisce come un semplice supporto per la testa, quasi come fosse scolpito, ripulito da inutili dettagli che distoglierebbero la nostra attenzione dal viso dell’uomo. In questo modo, e con la figura che emerge da uno sfondo nero che enfatizza il senso di presenza reale del cardinale, Raffaello evoca la solennità di una statua. Ed è così che l'immagine indimenticabile di questo individuo diventa il modello ideale del dignitario ecclesiastico rinascimentale, facendone uno dei più alti esempi della ritrattistica raffaellesca.

Continua l'esplorazione ...

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Fonti: Il ritratto, a cura di Stefano Zuffi, Electa, Milano, 2000


Andrea Mantegna

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Andrea Mantegna, autoritratto nella Camera degli Sposi
Andrea Mantegna nacque tra il 1430 e il 1431 a Isola di Carturo, piccolo centro tra Vicenza e Padova, in una modesta famiglia in cui il padre svolgeva l’attività di falegname. A Padova l’artista è citato per la prima volta nel 1441 come apprendista e figlio adottivo del pittore Francesco Squarcione, col quale soggiornò a Venezia nel 1447, ma dalla cui eccessiva tutela si svincolò presto. Con il suo maestro, Mantegna ebbe un rapporto burrascoso: fu costretto come apprendista a fare i lavori più umili e a una disciplina durissima.

Nel 1448 l’artista stipulò un compromesso con il patrigno per riavere la propria libertà e fu un addio pieno di polemiche. Andrea sosteneva che Squarcione si fosse fatto bello con il suo lavoro e il maestro, dal canto suo, rispondeva denigrando l’opera dell’allievo, ritenuta sempre più vicina alla scultura che alla pittura. A completare il quadro, la diatriba giudiziaria: Mantegna denunciò il patrigno per il mancato pagamento di alcune opere, con un seguito per vie legali che si concluse solo due anni dopo.

Andrea Mantegna, Martirio di San Cristoforo e trasporto del corpo del santo, Cappella Ovetari, Padova
Non abbiamo però molte notizie sulle prime creazioni del pittore, pare abbia eseguito la sua prima opera firmata nel 1448, ma purtroppo è andata distrutta. È dimostrato un suo soggiorno a Ferrara nel 1449. A determinare la fama dell’artista a Padova fu la decorazione della cappella Ovetari nella chiesa degli Eremitani, dove lavorò dal 1449 al 1456, acquistando importanza e libertà d’azione
sulla scena artistica padovana. Il ciclo è andato quasi interamente distrutto nel corso della seconda guerra mondiale. Quello che resta, testimonia l’avvicinarsi di Mantegna ai temi del rinascimento toscano: l’ampio senso dello spazio reso con prospettive ardite, le architetture che rimandano allo studio dell’antico e i personaggi dalla forza statuaria.

Andrea Mantegna, Pala di San Zeno
La Pala di san Zeno, a Verona, è uno dei capolavori dell’artista, commissionata nel 1456 ma
terminata dopo il 1460. Mantegna fece da solo questo complesso trittico, composto da sei
pannelli inseriti in un’imponente struttura scolpita rappresentante un’edicola: la disegnò di sua
mano ispirandosi probabilmente all’opera di Donatello al Santo di Padova.
Il 1453 fu un anno decisivo per il pittore che si legò alla più importante famiglia di pittori
veneziani d’allora. Sposò infatti Nicolosia Bellini, figlia di Jacopo e sorella di Gentile e di
Giovanni.


Nel 1456 Ludovico II Gonzaga gli scrisse per la prima volta, chiamandolo al suo
servizio come artista di corte, confermando l’ottima posizione e la fama raggiunta da Mantegna.
È probabile che in questa "chiamata" abbia giocato un ruolo fondamentale l’abate Correr,
amico dell’artista. Gregorio Correr, membro della nobile famiglia veneziana che dà il nome al
noto museo, era legato a Vittorino da Feltre e alla sua cerchia umanistica che a Mantova
avevano creato una scuola, la Ca’ Zoiosa. Proprio in questa scuola Correr fu compagno di banco
del futuro marchese Ludovico II Gonzaga.

Andrea Mantegna, oculo nella Camera degli Sposi
Così, nel 1459, il pittore si trasferì a Mantova, compiendo una tappa essenziale della propria vita, perché nella città dei Gonzaga vi rimase fino alla morte. Il marchese Ludovico, appassionato cultore dell’antico, lo incaricò di curare le proprie raccolte, favorendo così le conoscenze classiche del pittore. Ludovico era Capitano del popolo, abile politico e amante della lettura. Tra i suoi libri, all’epoca del suo governo, avremo potuto trovare una fantastica edizione di Omero con testo a fronte greco e latino e decorazioni d’ispirazione classica, oggi conservata alla Biblioteca Vaticana. L’ambiente mantovano della seconda metà del Quattrocento era rigorosamente ghibellino: per diventare marchesi o duchi, ci voleva l’appoggio dell’imperatore. La Mantova artistica era molto vicina a Firenze e al rinascimento, ma nella politica era affine al mondo tedesco. A tal punto che Ludovico per essere ancora più corretto e filo-tedesco, sposò nientemeno che Barbara di Brandeburgo, nipote dell’imperatore Sigismondo.

Andrea Mantegna, dettagli dalla Camera degli Sposi
In questi anni Mantegna viaggerà anche in Toscana, fermandosi a Firenze e Pisa, ricavandone esperienze che lo spinsero a essere ancora più moderno. La lezione appresa dallo studio dei grandi cicli pittorici toscani di Piero della Francesca e Andrea del Castagno, darà i suoi frutti nella creazione del capolavoro dell’artista: la Camera degli Sposi, realizzata tra il 1471 e il 1474.
Protetto dai Gonzaga, che gli donarono una casa, l’artista, a capo di un’attiva bottega, eseguì
cartoni per arazzi, cassoni di nozze, modelli di oreficeria e lo stupefacente Cristo morto di
Brera, visto di scorcio.

Andrea Mantegna, famiglia e corte di Ludovico II Gonzaga
Abbiamo poche notizie del periodo che va dal 1475 al 1485, ma sicuramente si trattò di un momento difficile per la vita del pittore. In questi anni fu duramente colpito dalla morte del figlio prediletto e in difficoltà economiche per la scomparsa dei suoi protettori, il marchese Ludovico e il suo successore Federico. Molto probabilmente l’artista pensò di trasferirsi a Firenze, al servizio di Lorenzo il Magnifico. Di questo periodo, ripresa più volte fino al 1505, è la serie delle nove grandi tele con il Trionfo di Cesare, considerate il momento più alto dell’ispirazione classica del Mantegna, la sua opera umanistica più sentita. Guerrieri, prigionieri, animali, portatori di insegne e Giulio Cesare sul carro trionfale, sfilano in processione lungo tutte le tele. Si tratta del primo e più fortunato tentativo di ricreare la pittura trionfale dell’Antica Roma.

Andrea Mantegna, Trionfo di Cesare, scena 1
Con l’ascesa al potere di Francesco II, fu dato nuovo impulso alle arti nella corte di Mantova e Mantegna poté conservare il proprio ruolo di pittore dei Gonzaga. Tornato in città nel 1490 dopo un viaggio a Roma, fu incaricato dalla nuova coppia di regnanti, Francesco e Isabella d’Este, di numerosi lavori. Il lavoro dell’artista proseguì instancabile, decorando lo studio dove Isabella desiderava raccogliere dipinti eseguiti dai migliori pittori italiani viventi. Mantegna eseguì due tele di
soggetto mitologico: il Parnaso e il Trionfo della Virtù, mostrano quanto l’artista seppe anticipare il classicismo cinquecentesco, condizionandone profondamente gli sviluppi.

Andrea Mantegna, Parnaso
Nel 1504 il nobile veneziano Francesco Cornaro commissionò al pittore il Trionfo di Scipione,
un dipinto monocromo su tela ispirato agli antichi bassorilievi romani. Fu la sua ultima opera: il
13 gennaio 1506 la morte lo colse, nella sua città d’adozione, Mantova.
L’attività pittorica di Mantegna, nel suo insieme resta di difficile definizione, a causa della scomparsa di molti cicli decorativi e della cattiva conservazione di suoi svariati dipinti. L’artista si cimentò, con ottimi risultati anche nell’ambito grafico, realizzando almeno cinquanta incisioni nel corso della sua vita. Oggi ne conosciamo sette, di cui sei citate da Giorgio Vasari. Forse non molti lo sanno, ma Mantegna fu anche miniaturista, scultore e abile architetto.

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Artista solitario, che sfugge a qualsiasi classificazione di scuola, fu creatore di un repertorio di medaglioni antichi, di cortei, di mostri, di motivi decorativi e di un mondo spesso solenne, di grande potenza evocativa. Mantegna influenzò in modo radicale l’arte dell’Italia settentrionale, da Padova a Venezia, da Ferrara alle Marche. Sul piano della tecnica pittorica, svolse un ruolo pionieristico: la più antica pittura su tela conosciuta in Italia è la Sant’Eufemia del 1454.
Infine, fu in gran parte per merito di Mantegna e della diffusione delle sue incisioni che il rinascimento italiano raggiunse e colonizzò la Germania.

Questo post si avvale di contributi bibliografici vari che potete consultare qui

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Maggiori informazioni sulla camera degli sposi le trovi qui
Per conoscere meglio le pale d'altare realizzate dall'artista clicca qui
Per conoscere meglio gli affreschi della cappella Ovetari clicca qui
Maggiori informazioni sulla prima attività dell'artista a Padova le trovi qui
Per conoscere l'opera Il Parnaso clicca qui

Cinque anni di Artesplorando!

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Cinque anni fa in questo nasceva Artesplorando.
Inizialmente fu solo un diario sulla storia dell'arte da tenere nel tempo libero che il lavoro mi permetteva. Poi piano piano ha preso sempre più spazio nella mia vita e posso dire che oggi è la mia principale occupazione.
Nel frattempo Artesplorando è cambiato e cresciuto: da semplice blog è passato ad essere un insieme di rubriche, poi si è aperto ai social con Facebook, Youtube, Google Plus, Pinterest, Tumblr e Twitter. Con un seguito sempre più vasto e multiforme.



Una cosa però non è mai cambiata ed è l'intento di questo blog: fare una buona divulgazione, chiara semplice e corretta. Non sono uno storico dell'arte, né un giornalista, né uno scrittore, ma un semplice appassionato d'arte che prova a trasmettere la propria passione a tutti voi. Attraverso fonti sempre autorevoli, dal web o dai libri che leggo, cerco di proporvi contenuti funzionali al mio scopo divulgativo.

Ho sempre creduto che l'arte non richiedesse traduzioni, ma semplicemente una buona conoscenza della sua storia. Ogni persona può avvicinarsi ad essa, guardare un'opera e perdersi nell'intreccio di interpretazioni, sentimenti e storie che stanno dietro ad ognuna di esse.
Non vi parlo mai solo di storia dell'arte, ma racconto storie: strane, trasversali, leggere o impegnate, conosciute o mai sentite. Mi piacerebbe portarvi a vedere molto di più, osservando i dettagli e rivelando scenari  più complessi e variegati di quelli che noi tutti abbiamo imparato a scuola.

Il grande critico d'arte Federico Zeri disse un giorno: "Le opere d'arte possono essere lette da chiunque ... con un minimo di preparazione. Non c'è assolutamente nulla di oscuro, di arcano, nei testi figurativi".

Grazie a tutti voi e BUON COMPLEANNO ARTESPLORANDO 💖

Il ritratto nell'area mesopotamica

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Testa mesopotamica del Louvre
La terra tra i due fiumi ha generato culture che hanno contribuito molto allo sviluppo della ritrattistica. Importanti testimonianze, riguardo al ritratto, infatti ci arrivano dalle popolazioni che si alternarono nell'occupazione della Mesopotamia, territorio dell'odierno Iraq: nell'epoca sumera si ebbe una generica produzione di ritratti "intenzionali" (distinguibili solo dal nome impresso) "tipologici" (nei quali si distinguevano alcuni attributi di una classe di individui), simili all'Egitto ma dotati di una maggiore libertà ideologica che caratterizzava la società dell'epoca.

Hammurabi

Le migliori opere giunte fino a noi riguardano certi ritratti di sovrani, improntati a un'essenzialità che intendeva sottolineare per prima cosa la maestà del sovrano e la sua ricercatezza.
Dall'epoca di Hammurabi (1728-1686 a.C.) ci è arrivata una testa a tutto tondo del Louvre (nella foto) distinta da una straordinaria plasticità del viso, con le gote afflosciate, la bocca minuta e altri elementi, che palesano una chiara finalità fisiognomica. L'iscrizione identificativa che doveva essere sul corpo della statua, oggi è perduta e questa piccola testa a lungo considerata come la rappresentazione di Hammurabi di Babilonia oggi è da molti ritenuta antecedente al suo regno. L'opera fu scoperta nel Susa (Iran), dove venne probabilmente trasportata, con altri capolavori, come bottino di guerra nel XII secolo a.C. da re Shutruk-Nakhunte I.


Rappresenta un sovrano della Mesopotamia con sulla testa il cappello dai bordi alti, caratteristico dei re della fine del III millennio e l'inizio del II millennio a.C. Il viso mostra un sorprendente mix di elementi convenzionali e realismo. Le sopracciglia sono rappresentate con la tradizionale forma a spina di pesce e la barba è composta da una moltitudine di ricci sovrapposti come volevano i modelli dell'epoca. Ma l'espressione del viso, che riflette l'età dell'uomo raffigurato, il suo carattere e lo stato d'animo lo rendono diverso, meno statico e impersonale rispetto alle altre opere del periodo. Gli occhi socchiusi a mandorla e le guance scavate sottolineano il lato austero di quest'uomo che esprime l'esperienza di una lunga e piena vita.
L'opera in effetti potrebbe essere stata scolpita in un laboratorio aperto alle influenze esterne, probabilmente lontano dai soliti centri di produzione e quindi meno soggetti alle convenzioni scultoree.

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Questo lavoro è di una qualità eccezionale, ma dobbiamo stare attenti a considerarlo come un ritratto in senso moderno. Il concetto di ritratto personale è infatti estraneo all'arte del Medio Oriente. Questo volto di uomo che invecchia, intriso di un peso grave, è piuttosto l'immagine del saggio, principe eletto dagli dei, la cui lunga esperienza del mondo e degli uomini è la garanzia di un governo equo e giusto. Essa riflette le nuove correnti di idee che guidarono i circoli letterari del tempo: una riflessione pessimista sulla precarietà della condizione umana, e la prova che la fine inevitabile della vita tocca ad ogni uomo, anche se egli è un principe.


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E il viaggio continua ...

Per una guida introduttiva al genere del ritratto leggete QUI
Per scoprire la storia del ritrattismo segui l'etichetta #ritrattieritrattisti

Fonti: Il ritratto, a cura di Stefano Zuffi, Electa, Milano, 2000

Giuseppe Arcimboldo ritrattista fantasioso!

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Giuseppe Arcimboldo, ritratto di Rodolfo II in veste di Vetumno
Il percorso sul ritratto ci porta anche a scoprire artisti stravaganti, estrosi, estremamente fantasiosi.
E' il caso di Giuseppe Arcimboldo.
Arcimboldo (Milano, 1526 - 11 luglio 1593) iniziò la sua attività intorno alla metà del XVI secolo, assieme al padre, come maestro di vetrate nel duomo di Milano. Da questo tipo d'arte gli venne il gusto per l’intarsio e per i colori freddi e vivaci.

Nel 1558 fece cartoni per una serie di arazzi ancora esistenti nel duomo di Como, nelle cui bordature dà già esempio di una bizzarra ornamentazione manieristica.
Nel 1562 fu chiamato a Praga da Ferdinando I, dove fu successivamente protetto dagli imperatori Massimiliano II e Rodolfo II, che lo nominò conte palatino nel 1591.

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Si specializzò nella produzione di figure umane o allegoriche composte di oggetti e di prodotti di natura, in cui si uniscono al gusto bizzarro e morboso del manierismo nordico (tipico delle cosiddette Wunderkammer, raccolte di mostri e di rarità di natura) la tradizione delle caricature leonardesche e il gusto di genere dei Campi cremonesi, in particolare Vincenzo. Replicò una serie di Stagioni e di Elementi entrati nella storia dell'arte e nella cultura pop italiana: le opere di Arcimboldo hanno infatti ispirato l'immagine pubblicitaria di una serie di prodotti della Ponti (Peperlizia ... ricordate?) e più recentemente il logo dell'Expo di Milano.


Rodolfo II in veste di Vetumno

Il culmine dell’immaginazione nella rappresentazione delle Stagioni e degli Elementi si trova nel ritratto di Rodolfo II in veste di Vertumno, dio delle stagioni.
Il dipinto racchiude le allegorie delle prime metamorfosi di Arcimboldo in un’unica immagine, in cui si scorgono i frutti e i fiori di ogni stagione. La fioritura e maturazione simultanea dei frutti della terra alludono all’Età dell’Oro del regno di Rodolfo, allusione a un’eterna primavera, sogno di una propaganda imperiale.


Se nel Rinascimento trionfava una concezione classica dell'arte, fondata sull'imitazione delle armonie della natura, col Manierismo si ha una svolta. Fissato come inizio convenzionale il 1520, data della morte di Raffaello, il Manierismo si pone come stagione in cui l'artista non tende più al bello come imitazione, bensì all'espressivo. Una tendenza al bizzarro, allo stravagante e al deforme, come nelle figure di fantasia proprio dell'Arcimboldo. I suoi dipinti, anche se molto imitati, furono generalmente considerati come curiosità fino a che i surrealisti non riportarono l'interesse sui "giochi di parole visivi".

Scopri di più ...

Per legge tutto sui maggiori ritrattisti della storia dell'arte segui l'etichetta #ritrattieritrattisti

Eduflix Italia, non finirete più di imparare!

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Chi frequenta Artesplorando assiduamente sa bene che questo progetto è sempre attento alle novità in fatto di divulgazione culturale. Artesplorando stesso attraverso il blog e tutti i suoi canali social cerca di diffondere la conoscenza dell'arte e della sua storia in maniera innovativa.
Quindi potrete ben capire che quando ho saputo dell'arrivo di →Eduflix Italia, la prima piattaforma italiana in streaming dedicata alla cultura, non ho potuto fare a meno di dedicarle un post e di attivare un contest in collaborazione, attraverso il quale voi stessi potrete vincere qualcosa di assolutamente imperdibile. Ma procediamo con ordine.



Eduflix affronta un ampio spettro di argomenti culturali, dall’arte alla filosofia, dall’architettura alla scienza, dall’economia alla psicologia, attraverso centinaia di documentari e contenuti video dove le figure più autorevoli della cultura italiana e mondiale raccontano le storie e i protagonisti che hanno costruito il patrimonio culturale dell’uomo. I video proposti sono ben fatti, curati sia nella presentazione delle immagini che nei contenuti e con diverse durate di tempo che vanno dalla mezz'ora all'ora e mezza. Ce n'è veramente per tutti i gusti e per tutte le esigenze.


Stessa cosa vale per le proposte di abbonamento che sono due: una mensile e una annuale. Tutti gli iscritti hanno a disposizione un periodo di prova gratuito di una settimana che permette l’accesso completo ai contenuti. L’iscrizione alla piattaforma è veloce e richiede l’inserimento di un metodo di pagamento che viene utilizzato solo nel caso l’utente, al termine del periodo di prova gratuito, decida di proseguire con l’abbonamento. Insomma un modo semplice e innovativo per portare il sapere su tv, computer, smartphone e tablet.

Il primo contest Artesplorando-Eduflix

E arriviamo così all'opportunità unica che Artesplorando, insieme a Eduflix Italia, darà a tutti voi Artesploratori, amanti dell'arte e della sua storia. Il 15 febbraio, la settimana prossima, partirà un contest sulla →pagina Facebook di Artesplorando a cui tutti voi potrete partecipare per vincere tre mesi di abbonamento gratis a Eduflix Italia.
Partecipare sarà molto semplice: verrà pubblicata sulla pagina Facebook il particolare di un'opera d'arte che tutti voi dovrete indovinare commentando l'immagine con il titolo e l'autore. Avrete 15 giorni di tempo per rispondere in maniera corretta. Il 2 di marzo a mezzogiorno si chiuderà il contest e le persone che avranno indovinato il particolare verranno inserite in un sorteggio.
Il vincitore verrà proclamato il 3 marzo attraverso un video del →canale Youtube di Artesplorando.
Agli utenti partecipanti sarà chiesta la cortesia di seguire i social di Artesplorando ed Eduflix, qualora non fossero ancora iscritti alle rispettive pagine.

Per cui non vi resta che segnarvi bene il 15 febbraio come data e tenere d'occhio la pagina Facebook di Artesplorando per partecipare e vincere un abbonamento gratuito di tre mesi e accedere a tutti i fantastici contenuti di Eduflix Italia.

A presto e buona fortuna!

Busti del Cardinale Scipione Borghese - Gian Lorenzo Bernini

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L’opera fu scolpita da Bernini e rappresenta il padrone di casa di Galleria Borghese, colui che ne concepì e ne raccolse la straordinaria collezione: Scipione Borghese. In realtà di busti ne vedrete due perché nel primo, a lavoro ultimato, lo scultore si accorse di un’imperfezione nel blocco di marmo tale da provocare una crepa, tuttora visibile sulla fronte di uno dei due ritratti. L’artista replicò l’opera in maniera perfetta nell’arco di quindici giorni confermando uno straordinario virtuosismo.

Scipione Borghese nacque a Roma nel 1577, figlio di Francesco Caffarelli e Ortensia Borghese, sorella di Camillo che nel 1605 divenne papa con il nome di Paolo V. Il papa chiamò a sé il nipote prediletto, Scipione, facendogli compiere studi di giurisprudenza: nel luglio del 1605 lo indirizzò alla carriera ecclesiastica, nominandolo cardinale e dandogli contemporaneamente le insegne di casa borghese.

I due busti a confronto, a sinistra quello con il difetto del marmo
Nel primo decennio del suo cardinalato Scipione Borghese si costruì un’immagine di principe, innalzando palazzi grandiosi, mettendo insieme la sua collezione d’arte e facendosi protettore degli artisti. Appassionato di studi scientifici, il cardinale coltivava anche un interesse per la musica, che egli stesso eseguiva nella sua villa, dove possedeva numerosi strumenti.
La scultura venne commissionata quando Scipione aveva 56 anni ed era tra gli uomini più potenti di Roma, morì l’anno successivo.


Bernini lo ritrasse con una naturalezza e un’attenzione alla realtà che non aveva precedenti e che rivoluzionò il ritratto occidentale. Quello che avete di fronte a voi è un uomo in carne, amante della buona tavola, dalla pelle rugosa che sembra quasi sudata e dal colletto slacciato che lascia debordare il doppio mento. Un bottone dell’abito cardinalizio è uscito dall’asola, forse perché il cardinale sta gesticolando. Scipione sta parlando con qualcuno ed è bloccato in un’istantanea, un fotogramma: la testa si muove verso sinistra, la bocca si sta schiudendo e lo sguardo è vigile.

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Questi due ritratti segnarono un cambiamento stilistico e formale nella produzione dei busti del Bernini, per le forme semplici, per una maggiore resa psicologica e per la grande forza espressiva. Come Rubens e Van Dick nei ritratti dipinti del Seicento, Bernini creò un dialogo tra opera e osservatore, cosicché ci sembra che il cardinale parli direttamente con noi.

Questo post si avvale di contributi bibliografici vari che potete consultare qui

Capolavori della miniatura - Libro d'Ore del Perugino

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Pochi codici miniati hanno al loro interno una vera e propria pinacoteca. Artisti del calibro di Perugino, Lorenzo Costa, Francesco Francia e Amico Aspertini, tutti lavorarono al Libro d'Ore detto "del Perugino". Il committente fu un nobile bolognese, tale Francesco Ghislieri che convocò i migliori artisti dell'epoca chiedendo loro di dipingere delle miniature a tutta pagina, per racchiudere così il meglio della pittura italiana in un solo libro. A capo di questo splendido lavoro ci fu Matteo da Milano, uno dei maggiori miniaturisti del suo tempo, già autore del →Libro d'Ore Torriani che qui realizzò i bordi decorato con motivi floreali, pietre preziose e perle.

Motivo di un tale capolavoro fu la nascita del nipote di Francesco Ghislieri.
Il Perugino all'epoca era all'apice della sua carriera, massimo pittore vivente e a capo di un'importante bottega italiani in cui mosse i primi passi da artista Raffaello Sanzio. L'unica miniatura mai realizzata e firmata dal Perugino nella sua vita è il Martirio di san Sebastiano e quindi capite bene la sua straordinaria importanza. Talmente importante che il foglio venne staccato dal libro nel 1952 e ora è conservato separatamente in una cassaforte alla British Library.

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Il libro è ricco di decorazioni a "grottesche", soggetto pittorico molto popolare a partire dal Cinquecento, estrapolato dagli affreschi romani che proprio in quegli anni riemergevano a Roma. Si tratta di motivi decorativi con figure esili ed estrose che si uniscono a forme geometriche e naturalistiche. Il loro nome deriva dalle "grotte" del colle Esquilino a Roma, dove nel 1480 vennero ritrovati i resti della Domus Aurea di Nerone.

Perugino, martirio di san Sebastiano
Lo scrigno che racchiude il libro è ancora più bello, una delle legature più ricche del rinascimento. Due medaglioni circolari incassati nella copertina e nel retro del libro, contengono rispettivamente l'Arcangelo Gabriele e la Vergine Annunciata. Sopra e sotto ad essi sono incastonate due ambre e due acquemarine in castoni d'argento. Tutto il resto della superficie è coperto da una sottile pelle lavorata a traforo con un intricato disegno a filigrana, sovrapposta a uno sfondo in tessuto di diversi colori e pelle dipinta e dorata. Nelle due facciate interne ancora argento massiccio, decorazioni policrome e due tondi in cuoio lavorati a bassorilievo.

Fonti: www.oreperugino.it

Il ritratto nell'età di Leonardo

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Leonardo da Vinci, Dama con l'ermellino
La fine del Quattrocentoè segnata da una serie di eventi straordinari che faranno da spartiacque tra il mondo delle corti e delle signorie e quello degli imperi, con orizzonti geografici, culturali, commerciali e politici nuovi. Nel 1492 viene scoperta l'America, muore Piero della Francesca, e poco prima c'era stata la scomparsa anche di Lorenzo il Magnifico. Nel 1452 era nato l'artista simbolo della grande svolta, del ripensamento generale tra Quattrocento e Cinquecento: Leonardo da Vinci.

La sua formazione si svolge nella grande e poliedrica bottega del Verrocchio. Presto Leonardo manifesterà la propria predisposizione per il ritratto e per l'investigazione della natura attraverso lo scandaglio del disegno, perno portante della pittura fiorentina e toscana.

Leonardo da Vinci

L'intensità di partecipazione psicologica ed emotiva dei personaggi di Leonardo segna un passo in avanti nella storia del ritratto. Nessun altro artista prima di lui era riuscito a catturare torsioni, luci, moti dell'animo in stretto rapporto con il fondo e l'ambiente in cui i suoi personaggi sono inseriti.
Non vi voglio certo parlare di tutti i ritratti di Leonardo, ma forse quello che fece più scalpore all'epoca fu la Dama con l'ermellino: superba, intrigante amante di Ludovico il Moro (Cecilia Gallerani), elogiato per vivacità e verosimiglianza dal poeta di corte, come se ci si trovasse di fronte alla persona in carne, ossa e facoltà fisiche e intellettuali.


Il ritratto di Dama con ermellino è un dipinto a olio su tavola di 54 per 40 centimetri realizzato intorno al 1490 e raffigurante Cecilia Gallerani, amante di Ludovico il Moro, Duca di Milano. La donna era bellissima, elegante e di forte temperamento, favorita di Ludovico, ma allontanata dalla corte dopo il matrimonio del signore di Milano con Beatrice d’Este. Cecilia sposò poi il conte Bergamino di Cremona e si trasferì in un lussuoso palazzo del centro frequentato da artisti e intellettuali, tra cui lo stesso Leonardo, Bramante e il poeta Matteo Bandello.

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Questo è per molti critici il primo ritratto moderno della storia dell’arte, prova superba della capacità di Leonardo di cogliere i sussulti della psicologia, riverberandoli persino nel musetto dell'animale. La scelta dell’ermellino nasconde un significato simbolico: in greco è detto galé, parola che per assonanza richiama Gallerani. Inoltre, nei bestiari medievali, questo animale rappresenta alcune virtù, come l'equilibrio e la pacatezza. Nel ritratto di Cecilia Leonardo riuscì a fissare e a raccontare un frammento di vita della giovane donna colta e raffinata: la doppia torsione del busto e della testa, la vivacità dello sguardo, la palpitante vitalità ne fanno uno dei capolavori più innovativi dell'arte del ritratto, ormai alle soglie del XVI secolo.


L'opera fu acquistata alla fine del Settecento dal principe polacco Adam Czartoryski e venne donato al museo privato della madre Isabella nel castello di Pulawy. Qui probabilmente si aggiunse l’iscrizione La belle Ferronière – Leonard d’Awinci. Il principe credeva infatti di aver acquistato un altro quadro del pittore toscano: la Belle Ferronière oggi al Louvre di Parigi. La Dama con l’ermellino viaggiò molto: fu trasferita a Parigi intorno al 1840 per poi rientrare a Cracovia nel 1876 dove oggi è conservata presso il Museo Czartoryski.

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E queste saranno le nuove caratteristiche che i ritratti nel pieno Rinascimento ricercheranno.
Per scoprire la storia del ritrattismo segui l'etichetta #ritrattieritrattisti

Fonti: Il ritratto, a cura di Stefano Zuffi, Electa, Milano, 2000


Caravaggio, non solo l'artista dannato

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Caravaggio, Giuditta e Oloferne
Con questo post affronto un artista che amo profondamente. Pittore straordinario e rivoluzionario, la sua opera emerge verso lo spettatore, lo attira a se come una calamita. Luce ed ombre definiscono le scene ambientate in non luoghi. Persona estremamente complessa, dal carattere rissoso, cupo che lo ha portato spesso nei guai e che ha creato intorno a lui un aurea da "pittore maledetto".

Michelangelo Merisi nacque il 29 settembre del 1571, molto probabilmente a Milano e non a Caravaggio, nel bergamasco, dove si trasferì poi con la famiglia nel 1578. Sua madre, Lucia Aratori, fu la seconda moglie di Fermo Merisi, architetto, decoratore e capocantiere di Francesco I Sforza, marchese di Caravaggio. Nel 1572 nacque il fratello di Michelangelo, Battista, che diventerà prete. L’epidemia di peste di quegli anni si porta via il padre e lo zio di Caravaggio e la madre dovrà educare i figli tra grandi difficoltà economiche.

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Nel 1584 entrò come apprendista, a Milano, nella bottega di Simone Peterzano, che lo tenne con sé per quattro anni. La Milano in cui si formò Caravaggio era una città ancora molto segnata dal cardinale arcivescovo Carlo Borromeo e dal suo programma di riforma della società cristiana. In un breve arco di tempo, la capitale del ducato vide un’epidemia terribile di peste, scoppiata nel 1576, e una crisi economica senza precedenti che in quindici anni fece triplicare il costo della vita con l’abbandono conseguente di molte attività produttive. In questi primi anni di apprendistato, il giovane Caravaggio non si limitò a seguire il maestro, ma viaggiò attraverso i territori lombardi giungendo in Veneto, dove poté osservare le opere di Lorenzo Lotto, del Moretto, del Romanino e del Pordenone.

Caravaggio, autoritratto in veste di Bacco


Non si hanno poi notizie precise della vita di Caravaggio negli anni Ottanta, fino al 1592, quando si trasferì a Roma. Qui si inserì con difficoltà nell’ambiente artistico della città eterna. La Roma che accolse il pittore era appena uscita dal pontificato energico di Sisto V; in poco più di un anno, il Papa aveva sterminato le bande dei briganti che infestavano la campagna romana istituendo una legge che, pena la morte, proibiva di portare armi. Nonostante questo, Caravaggio portava sempre con sé uno stocco, una sottile spada appuntita. Il Papa aveva inoltre riordinato le finanze, inventando ben 35 nuovi tipi di tasse.

Caravaggio, ragazzo con canestra di frutta
Caravaggio dovette affrontare un periodo di miseria durante il quale andò alla ricerca di una casa e di un lavoro che gli permettesse di vivere in maniera decorosa. Questa ricerca lo portò a conoscere il Cavalier d’Arpino, pittore molto noto a Roma, che lo prese a lavorare con sé e gli diede un alloggio in cui stare. Nel 1595, il pittore fece una delle conoscenze più importanti della sua vita: il suo primo committente, il cardinale Del Monte. In Francesco Maria del Monte Caravaggio scoprì un mecenate di grande cultura, un uomo potente e ben introdotto negli ambienti politici e religiosi del tempo, in grado di presentarlo a un gruppo di committenti e protettori che sarà di vitale importanza per lo sviluppo culturale e artistico del pittore.

Caravaggio, San Girolamo
Del Monte era anche un appassionato intenditore d’arte e un importante collezionista. Le opere di questo periodo, tutte di carattere profano, mostrano un costante sviluppo della tecnica pittorica di Caravaggio. Grazie agli stimoli culturali del suo committente, il pittore giunse a una maggior complessità di temi e a uno stile più idealizzante. Capolavoro del periodo giovanile è senza dubbio il Bacco degli Uffizi. In quest’opera il pittore parte da un’analisi realistica del suo modello, dalle guance paonazze e dalle unghie sporche per poi soffermarsi sulla natura morta in primo piano. Ma accanto a questa fedeltà per il reale si vede una spinta idealizzante ispirata alla statuaria classica.

Caravaggio, Bacco
Della produzione giovanile di nature morte ci resta solo una testimonianza sicura: la →Canestra di frutta, opera appartenuta a Federico Borromeo, in cui la natura è immortalata nella sua lampante realtà, rivelando sé stessa e il significato simbolico di cui è investita. Il diverso stato di maturazione e di decomposizione dei frutti e le foglie avvizzite testimoniano la lenta e inesorabile decadenza della vita al trascorrere del tempo. Negli ultimi anni del secolo, Caravaggio vide aumentare notevolmente il giro delle sue committenze. In questi anni ricevette i primi incarichi importanti e il suo nome cominciò a circolare tra gli ambienti romani. Accanto a quadri ancora di soggetto mitologico, il pittore affrontò la rappresentazione sacra e il quadro d’azione.

Caravaggio, canestra di frutta
Di quest’ultima tipologia ne è un esempio I bari, dipinto nel 1595, che rappresenta un giovane nobile che gioca a carte con due loschi individui, chiaramente impegnati a truffarlo, come si può notare dal tizio alle spalle del nobile che indica il valore della carta al suo compare, che a sua volta nasconde una manciata di carte truccate nella cintola. Nel luglio del 1599, probabilmente grazie al suo potente protettore, Caravaggio ottenne la commissione dei due quadri laterali per la Cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi: nel dicembre del 1600, le due grandi tele, rappresentanti la Vocazione di San Matteo e il Martirio di San Matteo, vennero collocate al posto che spettava loro. Più complessa fu la vicenda della pala d’altare della Cappella, con San Matteo e l’angelo, di cui Caravaggio eseguì due diverse versioni. Appena terminate le opere per San Luigi, nel settembre del 1600, il Merisi ricevette un secondo incarico importante: i due dipinti per la Cappella Cerasi in Santa Maria del Popolo. Tra questi c’è La conversione di San Paolo.

Carvaggio, Amore vittorioso
Del 1600 è la Cena in Emmaus, in cui Cristo risorto appare nell’insolita iconografia di giovane imberbe, con probabile richiamo alla vita eterna. Al 1603, in base ai documenti, risale il Sacrificio di Isacco, mentre certamente tra il 1602 e il 1603 si colloca l’Amore vittorioso. La fama di Caravaggio giunse al suo culmine proprio in questi anni, confermata da una nuova commissione: l’artista eseguì una Deposizione per la chiesa di Santa Maria in Vallicella, su richiesta di Pietro Vittrice, guardarobiere di Gregorio XIII e amico di Filippo Neri. Lo stesso Filippo Neri sacerdote poi diventato santo, pare che un giorno parlando con Caravaggio disse: "Vedo in te due lupi che lottano uno contro l’altro e devono sbranarsi a vicenda." Caravaggio rispose: "Quale dei due riuscirà a vincere?". Filippo Neri ribatté: "Quello che tu avrai nutrito di più".

Seguì un periodo molto complesso per Caravaggio, che vide le sue opere spesso criticate e rifiutate: la Madonna dei palafrenieri e la Morte della Vergine ne sono un esempio. La prima, eseguita per l’altare di Sant’Anna dei Palafrenieri in San Pietro rimase nella basilica per soli due giorni, dopo i quali venne ritirata, per essere trasferita ben presto alla collezione del cardinal Borghese. La Morte della Vergine, eseguita per la Cappella Cherubini in Santa Maria della Scala poco prima della fuga di Caravaggio da Roma, fu immediatamente respinta dal clero perché “aveva fatto con poco decoro la Madonna gonfia e con gambe scoperte” (secondo il Baglione, pittore barocco e biografo di alcuni artisti dell’epoca). Il corpo della Vergine, disteso su una semplice tavola, è circondato dagli Apostoli e dalla Maddalena, ritratti in diverse espressioni di dolore; il grande spazio lasciato vuoto, nella parte superiore del quadro, e il rosso fiammeggiante del drappo, amplificano l’effetto corale della scena.



Caravaggio, Madonna dei palafrenieri
I due rifiuti della Chiesa furono il segnale di un clima fattosi ostile intorno al pittore, anche a causa dell’elezione di papa Paolo V, pontefice dagli orientamenti nettamente opposti alle correnti di riforma a cui Caravaggio era invece legato. Questo clima, per l’artista divenne insopportabile. La sera del 29 maggio 1606, infatti, in un momento d’ira, Caravaggio venne coinvolto in un’aggressione nel corso della quale uccise un certo Ranuccio Tommasoni, che accusò di aver barato durante una partita di pallacorda. Ricercato per omicidio, dovette lasciare Roma con un travestimento per rifugiarsi nei feudi del principe Colonna a Zagarolo. Cominciò così per il pittore una lunga fuga per tutta l’Italia, e non solo.

Caravaggio, morte della Vergine
Nel 1606, Caravaggio prese la via di Napoli: la capitale del Viceregno, era una delle città più popolose d’Europa con i suoi 270.000 abitanti. Quando il pittore si trovava a Napoli, la città era stretta nella morsa dell’assolutismo spagnolo e dell’Inquisizione e aveva perso il contatto con il resto d’Europa. Caravaggio, già nel settembre 1606, si mise al lavoro sulla grande pala delle Sette opere di Misericordia, portandola a compimento in breve tempo. Il tema dell’opera venne affrontato seguendo un’iconografia laica, di origine medievale in cui le sette opere vengono riunite in un’unica scena. Nel 1607, Caravaggio lasciò Napoli per dirigersi a Malta: sull’isola cercò rifugio dalla persecuzione della legge, sperando in riconoscimenti ufficiali.

Caravaggio, sette opere di misericordia
Con la Decollazione di San Giovanni Battista Caravaggio toccò l’apice della sua drammaticità: il tragico evento del dipinto si svolge in uno spazio chiuso e immoto, portato a compimento dai gesti meccanici e come bloccati degli esecutori. Esso è presentato dall’artista in tutta la sua brutalità, senza il trasparire di nessun sentimento. La firma del pittore, generata dal fiotto di sangue sgorgante dal capo del Battista, ci manifesta la piena identificazione del Merisi, che nel quadro esprime la sua personale vicenda. Il tema della decapitazione, infatti, a cui egli stesso era stato condannato, ritorna spesso in molte opere del periodo, come la già citata Decollazione di San Giovanni Battista o Davide con la testa di Golia.

Caravaggio, Davide con la testa di Golia
Anche a Malta, però, la fortuna di Caravaggio cessò a causa di nuovi problemi con la giustizia: un diverbio con un "cavaliere di giustizia" secondo i biografi, ma forse l’arrivo a Malta della notizia del bando capitale al quale era condannato. Incarcerato nello stesso anno in cui ricevette le più alte onorificenze, il pittore fuggì alla volta della Sicilia. Il periodo siciliano fu contraddistinto da continui trasferimenti di città in città, durante i quali riuscì a realizzare quattro pale d’altare. Le opere di questo ultimo periodo sono cupe e drammatiche, caratterizzate tutte da una meditazione disperata sulla morte, e sembrano accompagnare i tormenti esistenziali dell’artista annunciandone il triste destino.

Caravaggio, decollazione di San Giovanni Battista
Alla fine dell’estate del 1609 Caravaggio riprese la via di Napoli con lo stato d’animo del fuggiasco braccato; ma qui non tardarono a raggiungerlo i sicari, forse emissari dell’ordine maltese, che lo ferirono gravemente. Nel luglio 1610 si diresse a Roma sperando nella grazia resa possibile per l’intercessione del cardinale Gonzaga. Durante una sosta dal viaggio a Porto Ercole, Caravaggio morì in circostanze ancora oggi misteriose. Non aveva nemmeno quarant’anni.
La grazia del Papa arrivò, ma per Michelangelo Merisi, ormai era troppo tardi.

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Paesaggi - viaggiatore sopra il mare di nebbia

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Caspar David Friedrich, viaggiatore sul mare di nebbia
Caspar David Friedrich dipinse nel 1818 il famoso Viandante sul mare di nebbia, un dipinto a olio su tela di 98 per 74 centimetri, oggi conservato al Hamburger Kunsthalle nella città di Amburgo.
In quest’opera straordinaria i fondamenti dell’estetica romantica del paesaggio prendono corpo come in uno specchio concavo. In primo piano si staglia lo scuro profilo di uno spuntone di roccia, dal quale un viaggiatore, ritratto di spalle, scruta le cime e le catene montuose in lontananza, al di sopra della coltre di nebbia che si innalza dalla valle costellata da brulli e isolati picchi di pietra. La misteriosa figura è avvolta in un soprabito verde scuro e nella mano destra, appoggiata al fianco, stringe un bastone da passeggio.

Un forte vento scompiglia i capelli del solitario esploratore e spazza la foschia che all’orizzonte arriva a mescolarsi con il cielo nuvoloso. Il suggestivo panorama assomiglia quasi a un mare increspato dal vento da cui sembrano emergono solitarie isole ricoperte di alberi e vegetazione, sensazione che dà il titolo all’opera. Lo scorcio comunica un’impressione di sconfinata vastità portando l’osservatore a chiedersi cosa ci sia al di là dello spazio che riesce ad abbracciare lo sguardo. La luce definisce lo spazio e crea un contorno luminoso attorno alla figura del viaggiatore, messo ancora più in risalto dal forte contrasto tra il bianco e il nero che dominano nella tavolozza dell’artista. Infatti notiamo che le cose definite, come l’uomo e le rocce sono di colore scuro, mentre tutto l’indefinito come la nebbia, il cielo e i monti in lontananza sono dipinti con tonalità chiare.

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L’opera prende ispirazione da un massiccio montuoso al confine tra la Germania e la Repubblica Ceca, sulle rive del fiume Elba. Sullo sfondo, a destra, è presente lo Zirkelstein, una caratteristica collina della Svizzera Sassone, mentre a sinistra è rappresentato il Rosenberg o il Kaltenberg. Le rocce sulle quali si staglia il viaggiatore fanno parte di un gruppo collinare della Sassonia noto come Kaiserkrone. Questo lo sappiamo perché l’artista durante uno dei suoi molti viaggi disegnò sul suo libretto di schizzi il profilo inconfondibile di questo massiccio collinare in cima al quale si gode di una bellissima vista. Infatti il processo artistico di Friedrich si sviluppò ancora nello studio, rielaborando frammenti di immagini varie catturate nei viaggi e non all’aria aperta come invece sarà per gli impressionisti. Decisivo nella costruzione del dipinto è il ricorso all’effetto del sublime che il grande poeta romantico inglese Lord Byron così espresse: "se sali su una vetta di un monte e osservi le diverse alture, il corso dei fiumi e ogni altra meraviglia che si offre al tuo sguardo ... ti senti smarrito nell’infinità dello spazio, il tuo io scompare, tu non sei più nulla, Dio è tutto".

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Il sublime è un gusto estetico che racchiude l’emozione provata dall’uomo di fronte alla magnificenza della natura che in un primo momento è un senso di smarrimento e di frustrazione, ma poi grazie all’esperienza del sublime si trasforma in superiorità. L’uomo in quanto unico essere del creato capace di un agire morale, si colloca infatti al di sopra della natura stessa e della sua grandiosità. Tante sono le ipotesi e le interpretazioni date al dipinto. Da una parte, Friedrich raffigura il sublime condensandolo in una personale esperienza dell’alta montagna, ma, in ultima analisi sembra ambire al superamento di questa spiegazione riduttiva. La figura vista di spalle potrebbe allora essere una sorta di monumento commemorativo in onore di un uomo caduto durante le guerre anti-napoleoniche. La nebbia simboleggia forse il ciclo naturale, un fenomeno atmosferico divenuto sinonimo di contemplazione metafisica. Altri ritengono che il viaggiatore sia una metafora del futuro sconosciuto o ancora che la sua posizione sul precipizio trasmetta un significato ambiguo tra dominio dell’uomo sul paesaggio e la sua totale impotenza all’interno di esso.
Come spesso succede vi consiglio di andare oltre a tutte le ipotesi della critica, soffermandovi con attenzione a osservare il dipinto. Forse semplicemente noterete che tutti noi siamo viaggiatori sul mare di nebbia e vi ritroverete a provare un sentimento di meraviglia e quasi sgomento di fronte all’immensità dell’universo. Vi sentirete anche voi dentro al quadro, coinvolti, e forse vi identificherete con quel solitario viandante perso in un mare di nebbia.

Continua l'esplorazione ...

Questo post fa parte di un viaggio attraverso la storia del paesaggio e dei suoi principali interpreti. Segui l'etichetta #ilpaesaggio e vedrai!

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Le 10 opere d’arte più magiche

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Nuovo appuntamento con la rubrica che traduce per voi curiosi articoli dalla stampa estera. Anche questa volta è il The Guardian a guidarci in un percorso inusuale nella storia dell'arte. Si parla di magia, magia spirituale, magia nera, occultismo ed esoterismo. Tutti aspetti che nel corso della storia hanno attratto l'interesse dell'uomo come potenti calamite. Pronti per il viaggio? partiamo!



  • Kenneth Anger – L'Invocazione del mio fratello demone (1969)

Il regista underground Kenneth Anger è un seguace dell’esoterista inglese Aleister Crowley e alcuni dei suoi film vengono interpretati come dei veri rituali occulti. Il titolo di questo classico della fine degli anni ’60, musicato da Mick Jagger, non ci lascia alcun dubbio: il film, infatti, è una sensuale orgia visiva che cerca di raggiungere il potere magico anche nel mondo reale. Ora sapete di cosa parla "Sympathy for the Devil" di Mick Jagger.


  • Robert Mapplethorpe – Autoritratto (1983)

In questo autoritratto romantico e cupo, Mapplethorpe posa come un terrorista satanico davanti ad un’installazione pentagonale. Secondo le memorie di Patti Smith, Mapplethorpe si interessò seriamente alla magia nera e all’idea di riuscire a scagliare incantesimi attraverso la propria arte. Questo, quindi, potrebbe non essere un semplice autoritratto ma un’invocazione a qualche forza dell’oltretomba.


  • Sandro Botticelli – Venere e Marte (1485ca.)

Il dio della Guerra dorme profondamente e anche le sue armi diventano innocue sotto l’influsso di Venere. La bellezza cristallina di questo dipinto rinascimentale rende i miti greci incantevolmente reali e immediati, ma oltre a questo c’è di più. Venere, infatti, era sia una divinità sia un’entità magica e astrologica e il potere che qui esercita potrebbe essere una raffigurazione tanto mitologica quanto magica. Il quadro stesso, infatti, veniva usato come oggetto totem affinché portasse felicità, armonia e salute.


  • Hew Draper – Graffiti magici nella Salt Tower, Torre di Londra (1561)

Nel XVI secolo, Hew Draper fu confinato nella Torre di Londra poiché accusato di stregoneria e, come molti altri prigionieri, lasciò delle incisioni sulle pareti della cella. Tuttavia, le sue non sono preghiere a Cristo, bensì un globo astrologico e altri simboli magici. Si potrebbe dire che disegnare gli strumenti della propria arte magica sia stato un errore stupido dal momento che erano prova della sua consapevolezza, ma, come spesso succede nella Salt Tower, si dice che il luogo dove Draper scavò queste incisioni sia uno dei più infestati dell’intero complesso.


  • Messico – Lo specchio del Dott. Dee (XV-XVI sec.)

Questo specchio di ossidiana nera è un capolavoro dell’arte mesoamericana ed era utilizzato come specchio magico dai sacerdoti aztechi. Quando arrivò in Europa per opera dei conquistadores finì nelle mani dell’astrologo e esoterico John Dee, che operava nella corte di Elisabetta I e Rodolfo II. Oggi questo oggetto occulto è un tesoro del British Museum.


  • Picasso – La Celestine (1904)

Il ritratto della donna con il "malocchio"è un tema fortemente radicato nel folklore spagnolo e un indizio sull’immaginazione del pittore. Picasso, infatti, credeva visceralmente che la sua arte potesse cambiare la realtà, che fosse una sorta di incantesimo. L’enorme potere dei suoi quadri e delle sue sculture deriva proprio dalla convinzione che un’immagine non fosse solo un’immagine, ma un atto di magia buona o maligna.


  • Congo –Kozo il cane a due teste (fine XIX – inizio XX sec.)

Si credeva che questa scultura avesse il potere di assicurare salute, fortuna e felicità, poiché ogni chiodo rappresenta una preghiera o un rituale. Per chiedere di ottenere qualcosa bastava aggiungerne uno nuovo, e per questo essa ha anche un grandissimo potere artistico.


  • Egitto – Ceramica di Faenza shabti di Sety I (1290ca. A.C.)

In molte culture antiche, i sacrifici umani venivano deposti nelle tombe delle persone più potenti perché le servissero nell’aldilà. Tuttavia, gli antichi egizi erano più civilizzati e raffinati di altri popoli nell’uso della magia: le loro tombe erano piene di statuine "shabti", come questo bellissimo esemplare blu, che prendevano vita grazie ad un incantesimo e servivano così la persona mummificata.


  • Germania – Reliquiario di San Sebastiano (1497)

Questo fantastico reliquiario rinascimentale è uno dei tanti contenitori ornati fabbricati in Europa che contengono le spoglie e gli oggetti di santi. Si crede che le reliquie sacre abbiano dei poteri magici: ad esempio, si riteneva che questo reliquiario portasse fortuna, più specificatamente, che proteggesse dalla peste, dal momento che si pensava che San Sebastiano avesse dei poteri particolari per debellare le epidemie. Questo oggetto, quindi, non era tanto un bene di lusso quanto un potente amuleto contro la peggiore delle malattie.


  • Firenze – Il miracolo dell’Annunziata (XIV secolo)

Nessun quadro di nessun artista famoso nella Firenze rinascimentale fu tanto venerato quanto questa immagine magica. Si credeva, infatti, che un angelo avesse guidato la mano del monaco anonimo che lo aveva dipinto: creato direttamente in Paradiso, esso aveva il potere di salvare la città nei momenti più difficili. Il quadro è esposto in una cappella speciale nella chiesa della Santissima Annunziata di Firenze, dove viene adorato ancora oggi.

Fonti: traduzione di Beatrice Righetti da www.theguardian.com 

Mi chiamo Beatrice Righetti, sono laureata in Mediazione Linguistica e Culturale all’Università di Padova e sono un’appassionata traduttrice. Studio inglese, russo, tedesco e spagnolo, e nel tempo libero mi dedico all’arte e alla letteratura. Per questo, credo fortemente nella divulgazione artistica e culturale, specialmente se integrata nel nostro vasto e poliedrico panorama internazionale.

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Collezionisti, critici e mercanti #3

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Terzo appuntamento che ci porta alla scoperta dei più importanti collezionisti, critici e mercanti della storia dell'arte. Gli altri post li potete leggere seguendo il link →Collezionisti, critici e mercanti, ma oggi proseguiamo nella nostra esplorazione conoscendo nuove illustri personalità. A volte può capitare che la medesima persona sia collezionista, critico e mercante allo stesso tempo, mentre il più delle volte questi tre ruoli non coincidono. Comunque sia spesso ci rendiamo conto di quanto l'arte sia legata a uomini e donne lungimiranti, disposti a investire anche ingenti somme sulla cultura.

Silvain Raphaél conte di Baudouin

Ufficiale nelle guardie francesi, il conte di Baudouin, oltre a essere appassionato d'arte, si cimentò nella tecnica della →stampa a incisione. Frequentatore abituale dei salotti letterari di Parigi, il conte possedeva una delle collezioni più celebri della città. Nel 1784 Caterina di Russia acquistò da lui 115 quadri per la somma di cinquantamila rubli. Il complesso di opere d'arte passò poi all’Ermitage di Leningrado, oggi San Pietroburgo.
La collezione del conte era dominata dalle scuole nordiche, con al suo interno diversi Rembrandt, sei Van Dyck, quattro Van Ostade, opere di Teniers, Wouwerman, G. Dou, Brouwer, Rubens, Ruisdael, Jordaens. Una raccolta che forniva un panorama completo della pittura nel XVII secolo nelle Fiandre e nei Paesi Bassi.

William Beckford 


William Beckford 

Figlio di un ricco mercante, lord sindaco di Londra nel 1762, ereditò la fortuna di famiglia e una collezione di quadri tra i quali figurava il Rake’s Progress di Hogarth. Bibliofilo e appassionato d’arte, Beckford fu collezionista entusiasta e illuminato. Fece appositamente costruire Fonthill Abbey nel Wiltshire, oggi perduta, per ospitare la raccolta. Fece eseguire vari disegni di Fonthill da →Turner, e gli comperò nel 1800 il suo primo quadro di storia, le Cinque piaghe d’Egitto, inoltre protesse artisti come Martin e Blake. Attratto principalmente dai maestri romantici, acquistò però opere di tutte le scuole, includendo nella sua raccolta anche Raffaello e Claude Lorrain. Beckford fu tra i primi a comprare primitivi italiani, tra cui L’orazione nell’orto di Bellini. Ma William non fu interessato solo ai dipinti, collezionando anche delle incisioni tra cui spiccava la splendida serie dell’Iconografia di Van Dyck.
Fu costretto a vendere Fonthill e una parte della collezione dopo la perdita di due delle sue proprietà nelle Indie occidentali. Quattro dipinti, tra i quali il Raffaello, finirono alla National Gallery di Londra, ma il nucleo della sua collezione passò alla figlia, che sposò Alessandro, decimo duca di Hamilton.

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Contessa di Béhague

Figlia del conte Octave de Béhague, la cui celebre biblioteca andò dispersa nel 1877 e nel 1880, la contessa di Béhague costituì un’importante collezione di quadri, disegni e oggetti d’arte d’ogni epoca. Oltre a disegni di Leonardo, Rembrandt, Goya e a un importante quadro di Tiziano, la contessa era interessata alle opere del XVIII secolo francese: Watteau, Boucher, Fragonard, Saint-Aubin per i disegni; Hubert Robert, Vigée-Lebrun, L. Moreau, Nattier, Watteau, Restout, Lépicié, Fragonard per i quadri. Una parte della collezione della contessa di Béhague divenne alla sua morte, nel 1939, proprietà del nipote, marchese di Ganay, la cui madre, marchesa di Ganay nata Ridgway, aveva costituito una collezione. Tutto però andò disperso l’8 gennaio 1922 alla celebre Galleria Georges Petit di Parigi.

Carlos de Beistegui 


Carlos de Beistegui 

Carlos de Beistegui fu un eccentrico collezionista d'arte multi-milionario, decoratore d'interni e tra i personaggi più stravaganti nell'Europa della prima metà del XX secolo. Di origine basca, Carlos ereditò una fortuna dai genitori che costruirono un impero in Messico, fondato sull'argento, l'agricoltura, e gli immobili. Carlos si stabilì in Francia nel 1876 dove studiò pittura e lavorò con Léon Joseph Florentin Bonnat, pittore francese che seppe risvegliarne il gusto di collezionista.
La sua raccolta comprese soltanto un piccolo numero di pitture, ma tutte di prim'ordine. Fu attratto soprattutto dal ritratto e, salvo alcune eccezioni, dal ritratto francese in particolare. Nel 1942 fece dono della sua collezione al Louvre di Parigi, con riserva di usufrutto. Il museo francese la ottenne interamente nel 1953.

Alfred Beit

Alfred Beit

Alfred Beit fu commerciante di diamanti e finanziere la cui fortuna provenne da Kimberley in Sudafrica. Divenne intimo amico dell'imprenditore e politico britannico Cecil Rhodes, si fece naturalizzare britannico e svolse un ruolo preponderante nello sviluppo del Transvaal, una provincia del Sudafrica. Su consigli dello storico dell’arte Wilhelm Bode, cominciò nel 1888 ad acquistare quadri, prima destinati alla sua casa di Amburgo, poi al palazzo che si era fatto costruire a Londra nel 1895, dove abitò nel 1900, e infine nella sua casa di campagna a Tewin Water nello Hertfordshire. Composta sulle prime di paesaggi e scene di genere olandesi e di un capolavoro, la Lettera di Vermeer, la raccolta londinese comprendeva ritratti di Rembrandt e Hals, i sei Murillo della Storia del
figliol prodigo e alcuni ritratti dovuti a pittori inglesi e francesi. La collezione di Tewin Water inoltre conteneva opere italiane, molte delle quali fiorentine. Il figlio Otto arricchì la collezione con altre tele italiane, inglesi e olandesi, ma soprattutto con la celebre Dona Antonia Zarate di Goya. I quadri italiani, con l'aggiunta di qualche altra opera, vennero venduti presso Christie’s nell’ottobre del 1946, ma il resto della collezione appartiene tuttora al nipote di Beit, Alfred, ed è esposta nel suo castello irlandese di Blessington.

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Piero della Francesca, la pala di Brera

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Piero della Fancesca, Pala di Brera
La pala, eseguita tra il 1472 e il 1474, fu commissionata dal duca di Urbino, città-palazzo centro fondamentale per il rinascimento in Italia. Quest'opera può essere considerata un vero e proprio manifesto dell'umanesimo matematico trionfante alla corte di Federico da Montefeltro, nonché estremo traguardo dell'arte di →Piero della Francesca. L'artista fu un vero protagonista all'interno di un ambiente culturale in cui le proporzioni armoniche espresse dalle creazioni artistiche erano viste come concretizzazione della bellezza divina. Piero non fu solo pittore, ma anche trattatista, autore del De prospectiva pingendi e del De quinque corporibus regolaribus.

Mai come in questa sacra conversazione l'architettura dipinta risultò tanto maestosa e dominante nella raffigurazione, tanto da poter essere considerata non un semplice sfondo, ma vera protagonista dell'immagine, allo stesso livello delle figure. Lo storico dell'arte Roberto Longhi disse: " Più che una sacra conversazione dunque un convegno solenne, preordinato e computo, nell'aula bramantesca, prima del bramante". Bisogna anche tener conto del fatto che la tavola su cui è dipinta l'opera venne tagliata ai bordi: originariamente il proscenio avanzava verso lo spettatore, ai lai apparivano le pareti di una navata, in alto si innalzava il grande arco trionfale di cui oggi intuiamo la curvatura. Una volta non ci si faceva troppi problemi a rimaneggiare un capolavoro come questo.

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Un elemento curioso spicca al centro dell'opera: un uovo di struzzo posto all'interno del coro, appeso a un'enorme conchiglia da una catenella. L'uovo è simbolo dell'immacolata concezione, ma anche emblema dei Montefeltro. Questo piccolo elemento è il centro di una complessa macchina prospettica, legata a proporzioni armoniose e messa in risalto dalla luce che entra da sinistra e si diffonde tra gli elementi architettonici. La forma dell'uovo si diffonde in un movimento concentrico di cerchi che si allargano come farebbero le increspature d'acqua in uno stagno al lancio di un sasso. Il movimento si propaga dall'arcata che raccoglie l'abside, a quella che introduce al coro, alla più ampia che doveva concludere la navata.

Particolare della conchiglia rovesciata e dell'uovo appeso
Particolare con Federico da Montefeltro

Il ritmo degli elementi architettonici verticali scandisce la disposizione delle figure attorno alla Vergine assorta nella contemplazione del bambino addormentato.
Proprio alla Vergine è attribuita la posizione più importante nella pala. Lei non è solo il simbolo della chiesa, ma è anche un riferimento a Battista Sforza, moglie di Federico, così come il bambino allude al figlio di lei, Guidobaldo, l'erede al trono di Urbino. Per questo motivo il duca è ritratto da solo in primo piano e non assieme ai suoi familiari. Nella pala di Brera i familiari sono già presenti, ben visibili, anche se in forma metaforica.
Questa sacra conversazione ebbe una grande fortuna in seguito alla sua realizzazione e fu ripresa da diversi artisti che ne ammirarono la complessità iconografica e l'originale composizione architettonica.
Ma questo dipinto ebbe anche un destino curioso. Durante le depredazioni di Napoleone Bonaparte non fu mandato a Parigi come avvenne per altre opere che andarono a costruire il grande museo del Louvre. Questo perchè, per nostra fortuna, Piero della Francesca non piaceva agli esperti mandati dall'imperatore a scegliere dipinti e statue.
Finì quindi nel museo napoleonico minore istituito a Milano: la Pinacoteca di Brera. Questa raccolta d'arte, secondo l'imperatore, doveva essere la più importante in Europa dopo il Louvre. A Brera confluirono gran parte delle opere prelevate a Venezia che ancora oggi possiamo ammirare senza dover per forza andare al Louvre.

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