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Bauhaus, un rinascimento nel cuore della Germania

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Quanti di voi ne avranno sentito parlare di questo Bauhaus e quanti di voi, magari senza saperlo, sono passati davanti a un edificio o hanno visto un'opera legata a questa celebre scuola.
Il Bauhaus venne fondato nel 1919 a Weimar dall’architetto Walter Gropius con lo scopo di insegnare architettura e "arti applicate". L’insegnamento si basava sull’applicazione, teorica e pratica, della sintesi tra arti plastiche, artigianato e industria. Gropius si considerava il successore di artisti come Ruskin, Morris, Van de Velde e dell'associazione tedesca, fondata a Monaco di Baviera nel 1907, chiamata Deutscher Werkbund. Lo scopo dell'associazione era proprio quello di unire industria e arti applicate.

Dalla metà del XIX secolo molti movimenti spinti dall’estetica sociale di Ruskin e di William Morris avevano cercato di reagire sia all’industrializzazione sia all’accademismo vittoriano, creando corporazioni, di spirito romantico-medievale, con lo scopo di rigenerare l’arte con l'aiuto dell’artigianato e di produrre oggetti belli su larga scala. Ma questi gruppi scomparvero, presto assorbiti dall’Art Nouveau. Già nel 1890, Henry van de Velde scorgeva nell’ingegnere l’architetto del futuro e, dieci anni più tardi, Adolf Loos, in un opuscolo intitolato Ornament und Verbrechen (Ornamento e delitto), illustrò la poetica del funzionalismo che verrà adottata negli Stati Uniti da architetti come Sullivan e Wright.

Walter Gropius
Il primo tentativo di risolvere il conflitto tra la tecnica industriale e la cultura artigianale di Morris venne realizzato da Muthesius, il fondatore del Deutscher Werkbund (Unione tedesca del lavoro) nel 1907 a Monaco. Purtroppo però l’atteggiamento individualistico ed esclusivo dei membri
dell’Unione portò l’esperienza al fallimento. Nel 1914 Henry van de Velde, direttore del Museo delle arti decorative e dell’Accademia di Weimar, costretto a lasciare il suo posto, raccomandò all’arciduca un giovane insegnante del Werkbund, Gropius, che si era fatto notare fin dal 1910 per
l’audace costruzione di edifici dalle forme rigorose e funzionali.

Il logo del Bauhaus
Entrato in carica nel 1919, Gropius fuse l'Accademia di Weimar con l'unione del Werkbund, dandole nome Staatliches Bauhaus (Casa statale delle costruzioni) e redasse un manifesto che poneva i principi di un’arte della civiltà industriale: "Lo sbocco di ogni attività plastica è l’architettura. Le arti avevano in altri tempi, come compito supremo, l’abbellimento dell’edificio; e, oggi, vivono in un individualismo presuntuoso da cui potrà liberarle soltanto una collaborazione stretta e cosciente di tutti i lavoratori. Architetti, pittori, scultori dovranno rimparare a conoscere e a comprendere l’arte multipla del costruire nel suo insieme e nei suoi elementi... Architetti, scultori, pittori, tutti dovremo tornare all’artigianato... Non esiste differenza essenziale tra artista e artigiano. L’artista è un artigiano superiore... Creiamo dunque una nuova corporazione di artigiani senza la distinzione di classe che erige un muro d’orgoglio tra artisti e artigiani. Impariamo a volere, a inventare, a creare insieme il nuovo edificio del futuro, che sarà un tutto entro una forma unica: architettura e scultura e pittura, costruzione eretta un giorno da milioni di mani di artigiani come simbolo cristallino d’una nuova fede".

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Da queste convinzioni emerse che, pur rimanendo centrale, il problema dell’unità delle arti
veniva ora considerato con una consapevolezza dei bisogni della società e una certezza del valore estetico del prodotto industriale di massa. In altri termini, si trattava di integrare l’arte alla vita, di superare le contraddizioni con la scienza senza respingere il mondo della macchina, ma utilizzando i mezzi da esso offerti. Da qui l’importanza del lavoro di gruppo in un’attività artistica che integri l’artigianato a livello creativo e l’industria a livello produttivo.

Wassily Kandinsky, tratto bianco
Inoltre Gropius insistette sulla formazione artigianale degli allievi, che dovevano acquistare familiarità con tutti i materiali, iniziarsi ai linguaggi di tutte le forme ed essere padroni di tutte le leggi compositive. Non ci furono più professori e allievi, ma una comunità di "maestri" e di "discepoli" uniti in uno spirito di collaborazione più che d’insegnamento. Il programma comprendeva un corso elementare che consisteva in un allontanamento dell’allievo da tutte le convenzioni artistiche attraverso la sperimentazione di forme e materiali grezzi, di colori elementari, della composizione e del disegno geometrico. In parole povere un vocabolario di base dei vari linguaggi creativi.

Paul Klee, pesce magico
Il corso si divideva poi in due rami paralleli: uno era dedicato ai materiali e alla loro elaborazione, e di conseguenza al mestiere, nonché al lavoro di gruppo; l’altro era invece dedicato allo studio teorico della forma, del disegno e dei colori. Dopo tre anni di studio l’allievo diventava apprendista come nelle corporazioni medievali: questo gli permetteva di esercitare uno degli artigianati cui era stato iniziato e di presentarsi all’esame di apprendista del Bauhaus, accedendo così all’ultimo ciclo, lo studio della costruzione.

Gerhad Marcks, due amici
Il Bauhaus fu la prima grande scuola di tecnologia moderna, ma non volle creare uno stile. Gropius nel 1959 disse a riguardo: "il fondamento del Bauhaus è un processo di sviluppo indipendente, non la creazione di un nuovo stile. Esso segue un’idea organica che può trasformarsi per corrispondere ai fattori mutevoli della vita, ma non si riallaccia né a un’epoca, né a una città, e neppure a una nazione. Per questo esso è radicato non soltanto in Europa, ma nelle due Americhe, in Australia e in Giappone".

Johannes Itten durante una lezione.

La pittura al Bauhaus

La situazione dei pittori nel Bauhaus on era diversa da quella degli altri maestri: essi erano prima di tutto artigiani che potevano beneficiare di un involontario stato di grazia dato dall'ispirazione artistica. Di fatto, è certo che i pittori di cui Gropius seppe circondarsi erano convinti dell’importanza dell’artigianato nel processo di creazione artistica. Tra i più importanti questi ricordiamo: Johannes Itten, che restò al Bauhaus come responsabile del corso preliminare; Lyonel Feininger che insegnò pittura e teorie della forma; Gerhad Marcks ceramista; Paul Klee tenne il corso su vetrate e tessuti; Oskar Schlemmer con il corso di scultura; Wassily Kandinsky con il corso di affresco; László Moholy-Nagy specialista in lavorazione dei metalli e dei materiali sintetici, nonché della fotografia; infine Georg Muche con il corso sugli arazzi. Una vera fucina di straordinari geni.

Lyonel Feininger, Gaberndorf II
All’inizio, il dipartimento di pittura del Bauhaus proseguì e sviluppò il movimento di →Der Blaue Reiter, e lo stesso fecero l’architettura e le arti applicate. Vi si ritrovarono infatti i pittori della celebre mostra di Der Sturm come Klee, Kandinsky, Feininger e Muche. Le cose però cambiarono presto sotto l'influsso di sempre nuovi movimenti come il costruttivismo russo. Fondamentale per i pittore del Bauhaus era l’insegnamento della forma in quanto tale e in quanto struttura plastica. Si sviluppò inoltre una diatriba molto interessante tra artisti proprio riguardo all'insegnamento. Da un lato Paul Klee interessato alla forma resa visibile dall'arte e dall'altro lato Kandinsky più rivolto alla compiutezza di composizione e all'armonia delle singole parti con il tutto.

Marcel Breuer, sedia Wassily o modello B3
Lo scambio d’influssi tra il Bauhaus e i pittori fu molto importante. Feininger, per esempio, proveniente dal cubismo, apportònel Bauhaus una tecnica razionalista del disegno d’architettura. Così pure Schlemmer, formatosi come scultore e appassionato di teatro sperimentale, creò una figura umana rigida, un manichino di concezione monumentale, integrandola in un’architettura vigorosa e ideale. Infine è certo che, nei suoi acquerelli "musicali", Klee è debitore della pittura di Hirschfeld-Mack, mentre l’insegnamento dell’arazzo lo sensibilizzò alla tessitura della tela. Molto stretti furono inoltre i contatti della scuola con la rivista De Stijl, con pubblicazioni reciproche e la creazione a Weimar nel 1922 proprio di un gruppo De Stijl.

Manifesto promozionale del Bauhaus, 1925

I nemici del Bauhaus

Ma per la sua lotta contro l’accademismo, e per la sua didattica d’avanguardia, il Bauhaus si fece molti nemici. Una mostra nel 1923 associò la scuola a un focolaio di bolscevismo, col pretesto che era nata sotto un governo socialista. La pressione del Parlamento della Turingia su Gropius divenne presto intollerabile. Il 1° aprile 1925 il Bauhaus di Weimar chiuse i battenti.
Nell'autunno dello stesso anno però il municipio di Dessau accolse il Bauhaus, e Gropius poté edificare un nuovo edificio. L’insegnamento venne leggermente rivisto alla luce delle esperienze di Weimar. Alcuni docenti lasciarono il Bauhaus, altri accettarono la cattedra. Gropius stesso diede le dimissioni da direttore nel 1928, per dedicarsi interamente all’architettura. Gli successe Hannes Meyer, ma fu costretto a rinunciare in seguito a conflitti col comune. Prese allora la direzione della scuola Mies van der Rohe, fino alla sua destituzione da parte del governo nazista nel 1932.

Mies van der Rohe, Padiglione di Barcellona
Per alcuni mesi il Bauhaus si trasferì a Berlino, ma nel 1933 venne definitivamente chiuso dalle autorità naziste. L’edificio di Dessau divenne una scuola di gerarchi nazisti. Nonostante la sua chiusura il Bauhaus esercitò il massimo della sua influenza dopo il 1933. Infatti, l’esilio di un gran numero di maestri e di allievi diffuse le idee, tanto che l’attuale didattica artistica e architettonica è derivante proprio dagli insegnamenti del Bauhaus. Gli Stati Uniti furono i primi ad approfittarne; vi si rifugiarono Gropius, Feininger, Mies van der Rohe, Moholy-Nagy, e quest’ultimo fondò a Chicago nel 1937 il New Bauhaus, che diresse fino alla sua morte nel 1946.

Laszlo Moholy-Nagy, composizione Q XX
Sicuramente le posizioni originali di Gropius furono molto idealiste e romantiche nella loro concezione di ritorno all'artigianato e di unità delle arti e per questo ancora oggi vengono contestate.
Ma questo architetto è stato il solo, grazie all'aiuto di un gruppo straordinario di collaboratori, ad aver realizzato un’impresa la cui eccezionale ricchezza creativa non ha precedenti. Lo scambio culturale, artistico e creativo fu simile forse solo a quello che avvenne nelle botteghe del rinascimento italiano.

Questo post si avvale di contributi bibliografici vari che potete consultare qui

Domenico Veneziano, rivisitazione gotica e linguaggio rinascimentale

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Domenico Veneziano, Pala di S. Lucia dei Magnoli (tavola centrale), c1445, Galleria degli Uffizi, Firenze

Questo pittore italiano è una figura importante, ma misteriosa, la cui vita non è molto documentata. Il nome indica che Domenico fosse originario di Venezia, ma la sue prime notizie risalgono al 1438, quando dipinse a Perugia una sala di palazzo Baglioni, oggi scomparsa. Prima d’allora nulla si sa di lui, e il problema della sua formazione e della sua attività iniziale è molto discusso. Fu principalmente attivo a Firenze, dove lavorò per Piero de' Medici e in città Domenico fu responsabile di un nuovo interesse per il colore e la composizione in una tradizione, quella fiorentina, dominata dal disegno.



Domenico Veneziano aveva potuto assimilare gli elementi più arcaici della sua cultura a Venezia, dove il gotico era ancora vivo e dove Pisanello aveva dipinto, nel 1419, i suoi affreschi in Palazzo ducale. Ma la sicurezza con la quale questo artista usa le regole della prospettiva non si spiega senza una conoscenza diretta delle ricerche fiorentine, che può essere avvenuta solo attraverso l’opera di Gentile da Fabriano e dell’Angelico.

Domenico Veneziano, Madonna con Bambino in trono,
c1440, National Gallery, Londra 
Pensate che solamente due opere certe sopravvivono di questo pittore: la Madonna con Bambino in trono, che vedete qui sopra e che è il più grande dei tre frammenti in parte danneggiati e ridipinti di un tabernacolo in esterno da lui affrescato; e la famosa pala di S. Lucia dei Magnoli, dipinta a Firenze, la cui tavola centrale si trova oggi agli Uffizi. Quest'opera è sicuramente uno dei più grandi capolavori della pittura italiana del XV secolo e vi lavorò molto probabilmente come assistente anche Piero della Francesca.

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Infatti il più diretto e più grande allievo di Domenico fu certamente Piero della Francesca, che giovanissimo lo aiutò anche nel cantiere di Sant’Egidio, a Firenze (andato quasi completamente distrutto) e che da lui prese la radiosa purezza del colore. Domenico Veneziano morì povero nel 1461. Non venne certo ucciso a tradimento da Andrea del Castagno geloso del suo talento, come afferma Vasari, ma questa leggenda attesta la scarsa considerazione e simpatia che all'epoca veniva riservata per Domenico, in un ambiente artistico ormai totalmente estraneo al suo universo poetico.

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Canaletto e la conquista della luce

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Antonio Canal, poi conosciuto come Canaletto, nacque a Venezia nel 1697 in una famiglia legata a filo doppio con l’arte. Era infatti figlio di Bernardo, pittore di scenografie teatrali, che fece iniziare la carriera di Antonio come scenografo. Ma il carattere di Canaletto lo spinse abbastanza presto ad allontanarsi gradualmente da un genere esclusivamente decorativo. L’artista infatti cominciò a interessarsi alla pittura di cosiddetti "capricci" e cioè paesaggi di fantasia caratterizzati dalla presenza di rovine classiche con colonne, capitelli e statue. A questo tipo di genere artistico si erano già dedicati altri pittori a Venezia come Carlevarijs e Marco Ricci.



Tuttavia, l’abbandono della carriera di scenografo non fu immediata e infatti quando nel 1719 e nel 1720 si recò a Roma, dipinse scenografie per le opere del celebre compositore Domenico Scarlatti messe in scena al teatro Capranica per il carnevale del 1720. Gli impegni di lavoro non gli impedirono comunque di maturare la decisione di dedicarsi esclusivamente all’attività pittorica. A Roma infatti avvenne proprio la svolta per Canaletto che molto probabilmente entrò in contatto con Van Wittel e altri olandesi, pittori di vedute e cosiddetti →bamboccianti, chiamati così dal soprannome "bamboccio" dato a Pieter van Laer, principale esponente di questo gruppo d’artisti.

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Tutti questi pittori erano osservatori attenti della realtà e Canaletto assorbì da loro una precisa coscienza prospettica e il gusto della macchietta e della vita popolare. Il pittore veneto però aggiunse un’ampiezza di sguardo, una totalità di visione e un controllo assoluto dello spazio, tanto da poter dire che fu il padre della contemporanea scienza ottica. Nel 1720 l’artista da Roma fece ritorno a Venezia dove entrò a far parte della Corporazione dei pittori della Fraglia e poté così unire all’esperienza della veduta romana la conoscenza delle opere di artisti come Marco Ricci e Luca Carlevarijs.

Canaletto, Rio dei Mendicanti, 1723-24
Le prime vedute del pittore risalgono proprio a questi anni e ci mostrano una grande sensibilità per la luce e l’ombra che fanno vibrare le superfici dei palazzi, dei campanili e delle chiese veneziane. Canaletto mostra fin da subito un interesse per gli effetti di chiaroscuro e per la prospettiva tagliata in modo che la luce vada a cadere sulle superfici screpolate degli intonaci o sulle crepe rosa dei mattoni, creando una serie di effetti suggestivi e pittoreschi. Nel 1726 l’artista realizzò alcune composizioni allegoriche per un impresario teatrale, tale Owen Mc Swiny, il primo dei committenti inglesi, che saranno così numerosi e importanti nella vita di Canaletto.

Canaletto, Piazza San Marco, 1723-24
Dobbiamo a questo punto sfatare un mito: molto spesso quando ci si avvicina alle opere di questo artista siamo tenuti a pensare che siano tutte uguali, ripetitive e quindi monotone e noiose. Ma questo pensiero è vero solo a uno sguardo distratto, poco attento ai dettagli. Perché sia i soggetti che lo stile di Canaletto sono in continuo mutare: la luce nei suoi dipinti cambia, a volte schiarisce, altre volte si incupisce, in certi casi è calda, in altri è fredda, mentre le prospettive sempre diverse si aprono verso nuovi orizzonti.

Canaletto, Campo santa Rita Formosa, 1735
Dalla fine del terzo decennio del Settecento le vedute ideali e gli effetti chiaroscurali cedono il passo a un repertorio di vedute reali, veneziane o lagunari, e a una luce distesa e chiara, che ci avvia verso la più importante ed esclusiva conquista di Canaletto: la luce attenta ai fenomeni atmosferici, la più adatta alla resa precisa di una realtà per niente idealizzata, anticipando lo stesso interesse che poi stuzzicherà anche i pittori impressionisti. Canaletto dopotutto è figlio di un’epoca "illuminista", interessata alla scienza, allo studio e di conseguenza adottò delle forme di rappresentazione scientifiche della realtà.

Canaletto, Il Molo verso la Riva degli Schiavoni, 1738
E infatti l’artista fece un largo uso della camera ottica, proprio per questa volontà puntigliosa di cogliere la verità dallo spazio e di ritrarla il più razionalmente e obiettivamente possibile: i campi, i campielli, i canali, i moli, tutta la città viene frugata e scavata dalla luce tersa, che scorre rapida sugli oggetti in primo piano, che s’infila a scoprire dettagli lontani, che fissa in punti di colore l’umanità formicolante di Venezia. La camera ottica è un dispositivo composto da una scatola con un foro sul fronte che lascia entrare la luce e un piano di proiezione dell'immagine sul retro. In questo modo per un pittore era possibile proiettare l’immagine da rappresentare su una superficie come un foglio di carta o la tela di un quadro e ricalcare così i contorni delle cose. Canaletto fece un uso metodico della camera ottica che gli permise di confrontare alla realtà i suoi schemi prospettici. Arte e tecnica diverranno un corpo solo per raggiungere lo scopo dell’artista: la rappresentazione lucida e assoluta di ciò che l’occhio vede.

Canaletto, Il Canal Grande presso la Chiesa della Salute, 1738-42
Da questa rigorosa esigenza di verità rappresentativa nasce la poetica di Canaletto: l’artista dipinge la storia di Venezia, città allegra e solare, ricca e signora, ancora inconsapevole del suo prossimo definitivo disfacimento. Con la camera ottica il pittore ruota l’obiettivo per cogliere in sequenza i vari segmenti della veduta reale ottenendo un effetto che oggi può essere paragonato al grandangolo fotografico. Nel frattempo la pennellata di Canaletto cambia, diventa sciolta e strisciante dando alle scene un clima terso tipico delle giornate in cui l’aria viene pulita dalla pioggia. Poco dopo il 1730 il pittore dipinse una serie di ventiquattro vedute veneziane per il duca di Bedford: anche in queste vedute la città è osservata serenamente, mai trasformata, sempre resa con un’attenzione particolare ai monumenti e al colore dell’atmosfera. Una lettera del 1730 ci conferma che a questa data Canaletto ebbe rapporti con l’inglese John Smith, che divenne suo mecenate, mercante e intermediario con i clienti inglesi.

Canaletto, L'arsenale: ingresso dall'acqua, 1730-33
L’album delle incisioni che Canaletto realizzò è dedicato proprio a Smith, quale console di Sua Maestà Britannica presso la Repubblica di San Marco, carica raggiunta nel 1744. L’album raccoglie trentuno splendide acqueforti, disegni realizzati a stampa, che furono eseguite nel giro di qualche anno. Queste stampe sono in parte prese dal vero e illustrano la laguna e i paesaggi dell’entroterra, in parte ideate. È straordinario come l’artista anche senza colore, ma solo modificando il segno, riesca ad ottenere effetti atmosferici sempre diversi dell’atmosfera. Questo è il massimo periodo di attività, grafica e pittorica, per l’artista.

Canaletto, Londra: Northumberland House, 1752
L’Inghilterra fu l’altro dei poli, dopo Roma, verso il quale Canaletto fece diversi viaggi. Sui motivi che spinsero l’artista a lasciare Venezia molto dove aver influito la guerra di successione austriaca che bloccò molto il turismo straniero verso l’Italia e provocò una stasi del mercato artistico veneziano. Alla fine di maggio del 1746, il cronista inglese George Vertue annota nel suo diario l’arrivo in Ingliterra del "famoso pittore di vedute Cannalletti di Venezia molto stimato da Noblemen & Gentlemen". Non c’è da stupirsi che le sue vedute piacessero tanto agli inglesi, e non solo ai turisti che giungevano in Italia per il cosiddetto "grand tour", ma anche a quelli che in patria amavano la razionale semplicità delle opere del pittore italiano.

Canaletto, Abbazia di Westminster con un corteo di cavalieri, 1749
Nei due soggiorni londinesi fra il 1746 e il 1756, voluti sicuramente da Smith e interrotti solo da due brevi ritorni veneziani nel ’50 e nel ’53, la luminosità limpida e fredda del cielo inglese unita a un distacco contemplativo generarono opere di una realtà poetica. L’artista a contatto con una dimensione nuova e diversa come quella londinese poté crescere sia mentalmente che qualitativamente. Le vedute del Tamigi sono frequenti e qui il taglio prospettico si dilata seguendo l’ampio andamento del fiume che sembra diventare quasi laguna o mare. Ma il pittore rimase incantato anche dalla campagna inglese, molle e silenziosa, contraddistinta da verdi pascoli, boschetti e tenute agricole.

Canaletto, Piazza san Marco guardando a est dall'angolo nord-ovest, 1760
Rientrato ormai sessantenne, nel 1755, a Venezia, Canaletto trovò un ambiente cambiato, sia nel mercato che nel gusto. Verso il 1760 l’artista diminuì le dimensioni degli edifici e delle figure, ingrandendo invece smisuratamente lo spazio: in queste opere diventa protagonista il cielo segnato da leggere nuvole e collegato tramite la linea dell’orizzonte all’altra protagonista, la laguna con le sue acque e le imbarcazioni disposte su vari piani. La produzione di questi ultimi anni rivela una drammatica inquietudine: nelle opere del pittore per eccellenza della luce solare, si allungano le ombre che con segni vorticosi sembrano evocare misteriosi fantasmi. L’isolamento dal mondo artistico veneziano, il declino del mercato artistico e la crisi profonda della cultura segnarono la produzione di Canaletto. In seguito alla morte di tre membri, l’Accademia di pittura e scultura di Venezia pensò all’elezione di nuovi soci e fra i candidati si presentò anche Canaletto la cui elezione però venne respinta per essere approvata solo in un secondo momento. Gli ultimi cinque anni della vita dell’artista che si spense a Venezia il 19 aprile 1768, sono segnati da un’intensa attività: Canaletto alternò la vita accademica alla produzione di disegni e dipinti, eseguiti sempre andando sui luoghi e ritraendo le cose dal vero. L’artista, principe delle vedute, aveva aperto la strada che portò, passando dai paesaggisti inglesi del Settecento, da Constable e da →Turner, all’Ottocento con Corot, la →scuola di Barbizon e l’impressionismo. Una strada tutta fatta di luce e di osservazione attenta della natura e della realtà.

Questo post si avvale di contributi bibliografici vari che potete consultare qui

Arnold Bocklin

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Arnold Böcklin,Autoritratto con la morte che suona il violino
Arnold Böcklin nacque il 16 ottobre 1827, a Basilea, in Svizzera. Il suo periodo di apprendistato, che durò fino al 1850, lo vide studente dell’Accademia di belle arti di Düsseldorf sotto la guida di Johann Wilhelm Schirmer, esponente del Romanticismo tedesco, e nel 1848 a Parigi dove ebbe l’opportunità di entrare in contatto con l’opera di Corot, Delacroix e Couture. Nel 1850 Böcklin trovò una forte e nuova ispirazione a Roma, nel mondo antico e nella miologia classica: ecco che i suoi dipinti vennero inondati dalla calda luce del sole italiano, dalla rigogliosa vegetazione del sud, dalla luce brillante della campagna romana e dalle antiche rovine con pastori solitari, ninfe e centauri.

Al suo rientro a Basilea, con la moglie italiana Angela Pascucci, completò il quadro che lo portò alla fama, quando il re di Baviera Ludwig I lo acquistò nel 1858: Pan nel canneto, una rappresentazione del dio pastorale dalle zampe caprine che suona indisturbato la sua siringa rivolto di spalle a guardare lontano, sotto un cielo annuvolato. Questo dipinto segnò l'inizio del suo interesse per il mondo delle ninfe, delle naiadi e dei tritoni che diede in alcuni casi esiti al limite dell'assurdo.
In seguito però il suo stile si fece più cupo  e carico di misticismo, avvicinandosi all'orbita simbolista.

Arnold Bocklin, Pan nel canneto
L'artista insegnò presso l'Accademia di Belle Arti di Weimar nel periodo 1860-1862 e nel 1866 dipinse gli affreschi e modellò le maschere grottesche per la facciata del Museo di Basilea. Soggiornò a Firenze dal 1874 al 1885, e questo fu senz'altro il suo periodo più attivo: continuando a esplorare il rapporto uomo-donna, alternando scene religiose alle allegorie dei poteri della Natura. Assiduo sperimentatore anche sul piano tecnico, usò la tempera e altri materiali per ottenere una superficie pittorica priva di pennellate.

Arnold Böcklin, Ulisse e Calipso
Sicuramente è un artista molto conosciuto al vasto pubblico sopratutto per le sue cinque versioni dell'Isola dei morti e per capolavori come Rovina sul mare o Il bosco sacro o ancora Ulisse e Calipso.
L'isola dei morti arrivò perfino ad ispirare al compositore russo Rachmaninov un poema sinfonico.
A seguito di un ictus nel 1892 e a causa della sua salute cagionevole tornò in Italia, acquistò una villa a Fiesole e lì morì il 16 gennaio 1901. Fu sepolto a Firenze al cimitero evangelico “agli allori”. 
Molte delle sue opere tarde raffigurano incubi di guerra, la peste e la morte.
Personalmente è un pittore che ammiro molto, influenzato dal movimento romanticista, per definizione simbolista, capace di evocare atmosfere misteriose tra mitologia e religione.
Una curiosità: Bocklin fu come Leonardo da Vinci, che non apprezzava, uno sperimentatore di macchine volanti.


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Victorine Meurent, la musa dai capelli rossi

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Il modello di bellezza femminile maggiormente riconoscibile del XIX secolo è sicuramente incarnato da Victorine Meurent. Lei posò per la celebre Olimpia e per la Colazione sull'erba di Manet, due opere che scandalizzarono e sconvolsero il mondo dell'arte. Poco si sa sulla vita di Victorine, ma ciò non ha fermato la fantasia di studiosi e storici. Per anni si pensò che fosse una prostituta, morta giovane, annegata nell'alcool. Alla fine del XX secolo però gli studiosi hanno scoperto che visse fino all'età di 83 anni, spendendo gran parte della sua vita in modo produttivo, come pittrice. Anche così comunque i dettagli sono molto scarsi e possiamo dire che la donna che ha contribuito a ispirare alcune delle immagini più iconiche del XIX secolo rimane ad oggi una figura sfuggente.

Quello che sappiamo di Victorine è che nacque a Parigi nel 1844, in una famiglia di incisori e, per guadagnarsi da vivere, cominciò a posare a soli 16 anni per l'amico e mentore di Manet, l'artista Thomas Couture. Lavorò anche come cantante in caffè della capitale francese ritenuti appena rispettabili e frequentati da intellettuali e artisti. All'età di 18 anni la ragazza, conosciuta anche come "La Crevette" (il gambero) per la sua pelle rosa e i capelli rossi, divenne modella e musa di Edouard Manet.

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Victorine era diversa dall'ideale di bellezza in voga nel Secondo Impero francese che voleva donne eleganti, raffinate e di classe nobile o benestanti. Lei era minuta, con dei capelli rossi e voluminosi che difficilmente si facevano intrappolare sotto un cappello, era una ragazza semplice, proveniente dalla classe operaia. In La cantante di strada, il primo dipinto realizzato da Manet con lei come modella, Victorine è vestita in marrone, l'orlo della gonna è rigato facendoci intendere che non può permettersi di sostituire troppo spesso i propri vestiti. La giovane donna qui sta mangiando frutta in pubblico inviando un messaggio ben preciso: "non sono una donna particolarmente raffinata, né perbene."

Edouard Manet, La cantante di strada, 1862
Ma Victorine non si accontentò di fare la modella e prese lezioni serali di disegno presso l'Académie Julian, presto divenne un'artista compiuta e molte sue tele furono esposte al Salon parigino, lo stesso che rifiutò diverse volte le opere di Manet. Viaggiò negli Stati Uniti tra il 1870 e il 1875 e divenne membro della Société des Artistes Français nel 1903.
Purtroppo però ad oggi l'unico dipinto superstite di Victorine è un autoritratto in cui la giovane artista si rappresentò con un ramo di palma in mano, riferimento alla domenica delle palme.
Manet e Victorine persero i contatti nel 1870, forse allontanati da una rivalità professionale. Sarebbe bello poter dire che Victorine visse della propria arte, ma ebbe poche possibilità di successo come molte altre donne della classe operaia di quel periodo. Invece, sembra che la musa e artista si mise a dare lezioni di musica per sbarcare il lunario.

Victorine Meurent, Domenica delle palme, 1885
Nel 1883, tre mesi dopo la morte prematura di Manet, avvenuta all'età di 51 anni per sifilide, Victorine prese coraggio e scrisse una lettera alla vedova dell'artista, Suzanne. La donna voleva ricordare alla moglie di Manet che l'artista le aveva promesso una quota dei profitti delle opere per cui aveva posato. Victorine, all'epoca quarantenne, era troppo vecchia per posare di nuovo, la sua salute era instabile e doveva accudire la madre anziana.
Tutto sommato era proprio una situazione disperata, ma la risposta di madame Manet non arrivò mai.

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Il primo rinascimento, tra continuità e rinnovamento

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Il fenomeno artistico chiamato "rinascimento", che si espanderà nel corso del Quattrocento in tutta Italia, conobbe la propria nascita a Firenze. Non dobbiamo però pensare che da un giorno all'altro il linguaggio artistico cambiò improvvisamente, ma anzi si trattò di un procedimento graduale. Durante la prima stagione del rinascimento ci fu quindi una convivenza di elementi tardogotici e di nuovi canoni rinascimentali. In questa fase, nella prima metà del '400, Masaccio, Brunelleschi e Donatello saranno un po' gli apripista per tutta la stagione successiva.

 termini del test sono tutti inerenti a questo periodo storico. Le istruzioni sono sempre le stesse: il test è composto da domande a risposta multipla, compilatele tutte e cliccate invia. Potrete subito dopo accedere alle risposte e capire se e quanto avete fatto bene!
Facile no? bene, allora non perdete tempo e cominciate a mettere alla prova le vostre conoscenze!

L'Ara Pacis

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L’Ara Pacis è un altare maestoso che fu consacrato all’imperatore Augusto, ed è emblematico della politica e dell’ideologia augustea nonché dell’arte del tempo finalizzata, specie in questo caso, alla consacrazione del potere. Contemporaneamente, risulta essere omaggio al princeps, suo sacerdote e sommo artefice di quella pace così attesa e desiderata tanto da essere divinizzata.
È interamente in marmo e si compone di un recinto rettangolare avente due grandi porte nei lati lunghi: una sulla via Flaminia e l’altra sul Campo Marzio. Collocato su un podio, vi si accede mediante la scalinata posta sul davanti. L’interno è sopraelevato da tre gradini su tutti e quattro e lati; inoltre, vi sono altri cinque gradini che consentivano al sacerdote di raggiungere il piano orizzontale ove si celebrava il sacrificio.

Per quanto riguarda l’ornamentazione, gli artisti presero ispirazione dai rilievi del →Partenone per realizzarli e, a differenza di questi ultimi, policromi e rivolti ad un pubblico esteticamente consapevole, le figurazioni dell’Ara Pacis hanno una funzione propagandistica mirando soprattutto a comunicare un messaggio al servizio di un ideale politico, piuttosto che produrre arte, ad eccezione degli esemplari registri inferiori composti da eleganti motivi floreali sapientemente disposti tanto da essere ripresi nei secoli successivi da quel decorativismo artigianale che si ispirava al classicismo.

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Sia all’esterno che all’interno, i rilievi sono dislocati su due ordini separati da motivi a meandro continui. Le pareti interne hanno una serie di listelli verticali a rilievo nella zona inferiore; fregio liscio con teste di bue che sorreggono ghirlande e coppe piatte, e lesene con capitelli corinzi ornano gli angoli. Le pareti esterne presentano il registro inferiore decorato con un fregio con motivi vegetali, mentre quello superiore presenta figure mitologiche e allegoriche assieme alla rappresentazione di personaggi reali che ben esemplificano il significato dell’arte augustea con riferimento alle tradizioni religiose di Roma Infatti, nei pannelli ai lati della porta orientale troviamo la personificazione della dea Roma e della Terra, quest’ultima raffigurata come una donna avente in grembo due bambini tra i fiori e la frutta; poi a destra, l’Acqua su un mostro marino e a sinistra l’Aria su un cigno, entrambe simboleggiate da altre due figure femminili. Il tutto in una delicata pittoricità e suggestione paesaggistica, elementi dovuti dall’influsso greco. La porta occidentale invece presenta nei suoi pannelli laterali, scene con l’origine di Roma.

Ricostruzione dell'Ara Pacis come doveva apparire all'epoca di Augusto
Per quanto riguarda i rilievi sui lati lunghi, troviamo la Processione dedicatoria, ovvero il solenne corteo in onore della consacrazione dell’altare ad Augusto realizzata attraverso quell’ispirazione prettamente greca facente riferimento ai rilievi del Partenone, unitamente ad elementi tipicamente romani, come la personalità dei ritratti e il realismo del panneggio, assieme all’effetto prospettico generato dal disuso dell’isocefalia e dalla collocazione delle figure su due piani.

di Mariapia Statile

Mi chiamo Mariapia Statile e sono un’archeologa con la passione per la divulgazione culturale, non a caso adoro l’Archeologia, l’Arte e la Fotografia. La mia regola fondamentale è la curiosità poiché come affermava Einstein: "Non ho particolari talenti sono solo appassionatamente curioso"

Intervista ai curatori di Conversazioni Artistiche

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Riprendo dopo un po di tempo l'ormai celebre rubrica del blog dedicata agli art blogger: "c'è arte nella blogosfera". Oggi conosceremo un gruppo di studenti che si occupa della gestione di un'associazione culturale e di un blog ad essa connesso. Partiamo quindi con l'intervista.
Vorrei che per cominciare vi presentaste, chi siete, quali studi fate o avete fatto, quando e perchè avete iniziato a scrivere il blog, e qual è lo scopo, la missione, il fine che vi siete prefissati diventando blogger.

Siamo otto studenti d'arte che condividono passioni, interessi e obiettivi. La nostra associazione è nata a giugno del 2016 con lo scopo di valorizzare l'arte e la cultura sul territorio di Pavia e Milano. Abbiamo deciso di creare un blog con l'intento di fornire approfondimenti tematici mensili. Speriamo che i nostri articoli possano incuriosire il lettore e che possano essere interessanti anche per chi vuole approfondire alcuni argomenti. Inoltre sulle nostre pagine social condividiamo rubriche pensate per rendere più piacevole l'approccio con l’arte, come How i fell o Merenda d'artista.

Qual è il vostro rapporto, il vostro approccio con il luogo per eccellenza che custodisce le opere d'arte, cioè il museo: siete più da "turistodromo" o preferite piccoli musei poco frequentati e quale vi sentireste di consigliare ai lettori di Artesplorando.

La nostra associazione nasce in seguito ad un'esperienza maturata in ambito museale. Il fatto di aver iniziato il nostro percorso lavorativo all'interno di sale espositive ci rende particolarmente affezionati ai musei. Senza dubbio anche noi siamo soggetti all'influenza esercitata dai più importanti musei nazionali ed internazionali, ma crediamo che realtà espositive più piccole, dedicate ad artisti poco conosciuti possano essere strumenti molto validi per scoprire nuovi talenti. Consigliamo ai lettori di Artesplorando di visitare il Museo di arte moderna di Bologna (MAMbo): noi lo riteniamo molto interessante in quanto offre la possibilità di ammirare opere di artisti molto conosciuti come Guttuso, Morandi, Melotti, Isgrò, ecc, ma al tempo stesso permette di conoscere artisti meno famosi, ma che hanno dato un contribuito fondamentale all'arte contemporanea.

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Che rapporto avete con le mostre? oggi spesso diventano eventi mediatici molto pubblicizzati, ma alla fine di poca sostanza. Quali sono le mostre che preferite e se volete fate un esempio di una in particolare che vi ha colpito.

Frequentiamo le mostre e cerchiamo di essere il più possibile aggiornati sulle novità. Non sempre, come spesso accade, l'attenzione mediatica rivolta ad una mostra ne certifica la validità, per questo cerchiamo di prestare attenzione anche ad eventi meno pubblicizzati. A volte le mostre dedicate ad un unico artista corrono il rischio di risultare ridondati, noi tendiamo a preferire eventi che riuniscono sotto un unico tema più artisti.
L'anno scorso abbiamo apprezzato particolarmente la mostra Recto Verso organizzata da Fondazione Prada in cui è stata data importanza alle tracce lasciate consapevolmente degli artisti sul retro delle loro opere. 

Se foste il ministro dei Beni Culturali e il Presidente del Consiglio vi desse carta bianca, quale sarebbe il vostro primo provvedimento?

Innanzitutto occorre un maggiore impiego di risorse economiche per il restauro e la salvaguardia del patrimonio artistico. Un esempio a noi caro, in quanto riguarda la nostra città, è la Cripta longobarda di Sant'Eusebio, purtroppo per nulla valorizzata.
Riteniamo che ci si dovrebbe concentrare maggiormente su coloro che lavorano all'interno del museo, a nostro parere sarebbe opportuno ridurre il volontariato - spesso sfruttamento per giovani laureati - in modo da incentivare i lavoratori a dare il massimo per migliorare la situazione all'interno di ogni istituzione culturale. Un altro problema sono i bandi nazionali,  hanno tempi troppo lunghi. Pensiamo che potrebbe essere utile riproporli più volte all’anno, rendendoli più accessibili. I giovani possono essere una grande risorsa, con i loro progetti e la loro idee potrebbero "risvegliare" la vita culturale, proponendo iniziative che possano avvicinare persone di ogni età alla cultura.

Cosa proporreste di leggere a una persona che si avvicini per la prima volta alla storia dell'arte? un testo scolastico, un saggio, una monografia...

Per un primo approccio all'arte consigliamo il libro di Ernst H. Gombrich: La storia dell'arte. Un libro fondamentale che tratta tutti i movimenti artistici dell'antichità al contemporaneo con un linguaggio semplice e accessibile. A chi, invece, volesse ampliare le proprie conoscenze sull'arte contemporanea, consigliamo Il giro del mondo dell'arte in sette giorni di Sarah Thornton. L'autrice si sofferma su aspetti solitamente trascurati dai classici libri accademici che riguardano l'arte contemporanea, come il concetto di asta, biennale, fiera , studio d'artista ecc. 

Arriva il Diluvio Universale e voi avete la possibilità di mettere qualche opera d'arte nell'arca di Noé, quali scegliereste?

Salveremmo sicuramente Guernica di Pablo Picasso in quanto può essere considerata una delle opere più rappresentative del XX secolo. Riteniamo straordinario il modo in cui l'artista riesce a trattare un episodio così drammatico utilizzando un linguaggio figurativo semplice ed elementare. Poi La ragazza con turbante di Jan Vermeer, Tempesta di neve. Battello a vapore al largo di Harbour’s Mouth di William Turner, La notte stellata di Vincent Van Gogh e Autoritratto come Tehuana di Frida Kahlo.




Con quale artista (anche non più tra noi!) vi sentireste di uscire a cena o a bere qualcosa? e perchè?

È difficile rispondere a questa domanda. Forse, dovendo scegliere, ci sarebbe piaciuto incontrare Lucio Fontana: un artista che attraverso le sue opere ha stravolto il panorama artistico italiano degli anni ’50, opponendosi con energia al sistema accademico tradizionale.

Oggi in TV e alla radio non c'è molta arte, e cultura in generale. Voi cosa consigliereste di guardare (o ascoltare) al lettore di Artesplorando. Può anche essere un programma non prettamente d'arte, ma al cui interno ci sia un approfondimento artistico. In onda ora, ma anche nel passato (ovviamente valgono anche le web-tv).

Un programma che abbiamo trovato particolarmente interessante è Passpartout, trasmesso sulle reti Rai. La trasmissione, condotta da un ironico Philippe Daverio, approfondisce specifici temi riguardanti qualsiasi forma d’arte sfruttando un linguaggio immediato e non accademico. Inoltre abbiamo apprezzato le puntate di approfondimento di Alberto Angela "Stanotte a San Pietro" e "Stanotte a Firenze".

In un ipotetico processo alla storia dell'arte voi siete la difesa, l'accusa è di inutilità e di inadeguatezza ai nostri tempi, uno spreco di tempo e di soldi. Fate un'arringa finale in sua difesa.

La difesa potrebbe basarsi sul fatto che l'arte non si possa considerare uno spreco di soldi, basti pensare al grande mercato che c'è dietro un'opera d'arte o alle mostre. Anche chi decide di investire 10 euro per vedere una mostra, decide di investire sulla sua cultura, sulla sua informazione e sana il suo desiderio di curiosità. Si tratta di un arricchimento che va ben oltre alle materialità del denaro. L'arte non può neanche considerarsi lontana dalla nostra contemporaneità: il valore temporale è nullo quando si parla di un’opera d'arte. Sia essa del Novecento, sia di 1000 anni fa, o più, l'opera d'arte è in grado di suscitare e comunicarci emozione, impressionarci, farci commuovere allo stesso modo. Alcune tematiche, poi, sono attualissime e ci offrono spunti utili per comprendere il passato e aiutarci per il futuro.

Concluderei con una bella citazione sull'arte, quella che più vi rappresenta!

Concludiamo con alcune parole di Michelangelo Pistoletto che ci sentiamo di condividere: «L’artista è diventato libero, ma da questa libertà nasce una grande responsabilità. L’arte dovrebbe connettersi con tutti gli ambiti della vita sociale e diventare motore della trasformazione. Bisogna che ognuno di noi diventi un po’ più “artista”, […] deve creare qualcosa che prima non c’era».

E con questa splendida citazione salutiamo i ragazzi di Conversazioni Artistiche e ... tutti a scoprire il sito: www.conversazioniartistiche.com
Alla prossima intervista ...

Bacco e Arianna, Tiziano Vecellio

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Tiziano Vecellio, Bacco e Arianna, 1520-23
L’opera che vi propongo oggi fa parte di una serie di tele commissionate da Alfonso I d’este, signore di Ferrara, città del nord Italia sede di una ricchissima corte rinascimentale, per la decorazione del suo studiolo privato. Luogo di meditazione e svago, il cosiddetto "Camerino d’alabastro", oltre all’opera di Tiziano, vantò anche dipinti di Giovanni Bellini, di Dosso Dossi e una serie di sculture in marmo di Antonio Lombardo. Insomma un vero scrigno d’arte. 

Oggi, dopo svariate vicissitudini, le opere dello studiolo sono sparpagliate in vari musei del mondo tra cui proprio la National Gallery di Londra. La tela di Tiziano, in particolare, ha subito anche diversi danni, oggi per fortuna riparati a seguito di molti interventi di restauro, poiché venne più volte arrotolata su sé stessa in malo modo per essere trasportata più agevolmente.
Nel dipinto vediamo la principessa Arianna che, mentre è ancora intenta a piangere la partenza dell’amato Teseo, la cui nave è mostrata nel paesaggio in lontananza, inciampa in un incontro decisamente divino. Bacco, dio del vino, emerge con i suoi seguaci dalla boscaglia sulla destra dell’opera; la divinità si innamora di Arianna a prima vista e salta dal suo carro verso di lei e, proprio in suo onore, crea una costellazione a forma di diadema che vediamo nel cielo sopra la testa della giovane.

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A seguito del dio scorgiamo un bizzarro corteo che si inserisce nella tradizione delle opere appartenenti al ciclo dei trionfi di cui Ferrara conserva un esempio celebre nel Salone dei Mesi di palazzo Schifanoia. Nei trionfi ogni dio della mitologia era rappresentato con un cocchio trainato da animali. In questo caso ci sono due ghepardi e nell’allegra sfilata osserviamo personaggi chiassosi, ninfe, animali e satiri, tutti alticci che si dimenano a tempo di musica, nella migliore tradizione delle feste di Bacco. In lontananza c’è Sileno, divinità dei boschi, addormentato sul dorso di un asino a causa degli eccessivi bagordi e sorretto da satiri.


Più vicino a noi un fauno tiene in una mano un cosciotto e nell’altra il thyrsus, lungo bastone portato abitualmente da Bacco e dai suoi seguaci. In primo piano un uomo si contorce, avvolto dai serpenti, molto probabilmente ispirato dal gruppo scultoreo del Laocoonte, ritrovato in quegli anni a Roma e oggi conservato ai Musei Vaticani.
La composizione è divisa diagonalmente in due metà equivalenti: una celeste, rappresentata dal dio con l'intenso blu lapislazzuli del cielo sullo sfondo, e una terrestre, regno di Arianna.
Tutto è caos e allegria, un invito per Arianna e per noi spettatori a goderci l’attimo, a pensare al presente, consapevoli "Che del doman non c’è certezza".

Questo post si avvale di contributi bibliografici vari che potete consultare qui

I 10 volti indimenticabili della storia dell’arte

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Dalla trasognata barista di Manet, alla Marilyn Monroe multicolore di Warhol, dalla stupenda regina egizia ritratta nell'antichità, alla sorridente donna enigmatica di Da Vinci: ecco una serie di volti che non dimenticherete mai.

  • Edouard Manet –Bar alle Folies-Bergère (1882)

Il viso perso, triste e trasognato della barista, che ci guarda dal ritratto della vita notturna parigina di Manet, è la maschera della donna moderna. Alienata da quello che le sta attorno, cerca di ignorare la squallida clientela mentre aspetta la fine del turno. Chi è ad esempio l’uomo riflesso allo specchio? Nella visione del pittore, il lavoro è sfruttamento anonimo, le relazioni di genere sono pericolose e la città è un nightclub scintillante ma senza cuore: lo si legge  bene sulla faccia della ragazza.

  • Leonardo da Vinci – Mona Lisa (1503-06ca.)

Leggenda e fantasia avvolgono il viso più famoso della storia dell’arte. Si dice che Leonardo avesse assunto dei musicisti per allietare la sua modella così che sorridesse e non venisse ritratta con la tipica espressione seria delle tele del XVI secolo. Tuttavia, gli studi sul ritratto hanno dimostrato che inizialmente quel magico sorriso non esisteva e che era stato creato dal pittore durante la rielaborazione del dipinto; inoltre, non vi è nessuna prova a favore della tesi per cui la modella in realtà fosse un uomo, o Leonardo stesso. La tela si potrebbe pensare come una creazione non tanto del Da Vinci pittore, quanto dell’anatomista: uno studio su come un viso possa venire illuminato da un semplice movimento delle labbra.

  • Pablo Picasso – Ritratto di Gertrude Stein (1905-6)

Durante lo schizzo del ritratto della scrittrice d’avant-garde Gerturde Stein, Picasso si lamentava poiché non riusciva a riprodurne correttamente il viso. Il dipinto rimase in uno stato di stallo finché il pittore non cominciò a ispirarsi all’arte primitiva: improvvisamente realizzò che il volto della donna poteva diventare una maschera di pietra, una sorta di totem. Picasso affermò in seguito che la Stein e i suoi colleghi modernisti espatriati a Parigi non erano né donne né uomini: "erano americani".

  • Domenico Ghirlandaio – Ritratto di vecchio con nipote (1490ca.)

In questo capolavoro intimo e commovente del Rinascimento fiorentino, un bambino guarda il viso stupito del nonno: esso rappresenta un mirabile lavoro artistico di per sé per la nobiltà con cui l’uomo convive con la sua deformità fisica. Il Ghirlandaio capovolge l’ideale rinascimentale di bellezza per rivelare l’eroismo della deformità.

  • Andy Warhol – Dittico Marilyn (1962)

Il viso di Marilyn è veramente indimenticabile o ci appare già come un fumoso ricordo? È proprio questo ciò che ci domanda l’inquietante dittico di Warhol, realizzato con due set di immagini stampate a colori contrastanti tra loro. In uno di essi, il volto dell’attrice viene preservato dai colori sgargianti, vivi e indelebili come una maschera mortuaria dorata; nell’altro, invece, la sua bellezza, persa nel processo di copiatura, sbiadisce sotto i nostri occhi e viene mantenuta solo come una traccia cruda e inadeguata della bellezza ormai morta.

  • Rembrandt – Una donna anziana, "La madre dell’artista" (1629ca.)

Questo incisivo studio di un viso anziano è stato tradizionalmente interpretato come il ritratto della madre di Rembrandt. Senza soffermarci più di tanto sull’identità del soggetto, si nota come l’artista ne abbia tratteggiato la pelle consumata dal tempo con tenerezza e compassione, e forse con qualcosa di più: la reverenza per la saggezza che compare assieme alle rughe.

  • Antico Egitto – Busto di Nefertiti (1370-1330ca. A.C.)

Alcuni volti del passato sono sopravvissuti fino ai giorni nostri mantenendo una chiarezza espressiva sorprendente, ed è proprio quando vengono riprodotti in modo così realistico che diventano indimenticabili. Nefertiti era la moglie di un faraone che si ribellò alla maestosità dell’arte egiziana tradizionale, cercando un nuovo stile più vicino alla realtà. Questo busto tramanda le sembianze di una donna morta più di 3000 anni fa, ed è fantastico e sorprendente guardare questo viso e accorgersi che potrebbe essere quello di una modella del XXI secolo.

  • Johannes Vermeer – La ragazza con l’orecchino di perla (1665-67ca.)

Dire che la misteriosa ragazza di Vermeer sia "indimenticabile" potrebbe essere fuorviante proprio perché venne dimenticata per secoli. Solo nel XIX secolo, l'era di Manet e della fotografia, venne riscoperto il genio di Vermeer ed oggi gli occhi di questa ragazza, che guarda dietro di sé, ci perseguitano in silenzio. Il suo viso unisce una scintillante combinazione di ordinarietà e bellezza che crea un debole alone di mistero attorno a lei.

  • Edvard Munch – L’Urlo (prima versione del 1893)

Il viso di questa Monna Lisa moderna è simile a quello di uno zombie, marchiato da una disperazione assoluta. Qui Munch ha creato il perfetto quadro espressionista assegnando al viso le qualità e le fattezze della psiche interiore: non stiamo guardando un volto, ma un Io logorato e urlante dagli occhi interiori invisibili e la pelle giallastra. E' così che appariremmo se le nostre facce esprimessero i nostri reali sentimenti, in una gran brutta giornata però!

  • Diego Velázquez – Testa di cervo (1626-27)

In questo incontro davvero indimenticabile nei giardini reali, il grande ritrattista spagnolo Diego Velázquez guarda apertamente un cervo che ricambia lo sguardo. Velázquez aveva dipinto qualsiasi tipo di persona, dai re agli ubriaconi, ma qui rivela la forza degli animali, il loro appassionato mistero. Questo animale è solo carne da macello per la caccia reale? La profondità che il pittore ha visto nei suoi occhi ci lascia con un dubbio inquietante.

Fonti: traduzione di Beatrice Righetti da www.theguardian.com

Mi chiamo Beatrice Righetti, sono laureata in Mediazione Linguistica e Culturale all’Università di Padova e sono un’appassionata traduttrice. Studio inglese, russo, tedesco e spagnolo, e nel tempo libero mi dedico all’arte e alla letteratura. Per questo, credo fortemente nella divulgazione artistica e culturale, specialmente se integrata nel nostro vasto e poliedrico panorama internazionale.

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Capolavori della miniatura - Libro d'Ore Durazzo

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Dopo aver visto il →Libro d'Ore del Perugino e quello →Torriani oggi è la volta di un altro libro d'ore in cui la fanno da padroni i nobili colori del rosso e dell'oro. Il Libro d'Ore Durazzo, realizzato nei primi anni del Cinquecento, è da molti considerato un unicum nella storia della miniatura, esempio di lusso estremo. Questo perché è ricco di elementi ricercati a partire dalle pagine tinte di porpora, al velluto di seta della legatura, ai due rubini che impreziosiscono i fermagli. Il rosso è un colore simbolico che risale alla Roma imperiali ed è stato molto utilizzato per sottolineare le autorità civili e religiose.

L'oro invece è un elemento che richiama alla ricchezza e al prestigio e nel Libro d'Ore Durazzo è stato usato addirittura per scrivere il testo: questo abbinamento porpora della pagina con l'oro del testo si chiama "crisografia" ed è una tecnica molto rara, capace di dare eleganza e lucentezza a ogni pagina del libro. L'oro però non lo troviamo solo nella scrittura, ma anche sui decori argento massiccio della copertina, nel taglio dorato del volume e nelle moltissime lumeggiature delle illustrazioni che abbelliscono il libro.

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Elemento che ha un ruolo chiave nell'eleggere questo codice a capolavoro assoluto sono le miniature di Francesco Marmitta, artista dal repertorio particolarmente ricco di richiami all'antichità. Nelle decorazioni fantasiose di Marmitta troviamo cippi, candelabri, cornicioni, collane, medaglioni e oggetti misteriosi, sicuramente memori degli affreschi romani antichi.
Ma non finisce qui. La fama di questo testo è legata anche a un celebre dipinto del Parmigianino in cui il Libro d'Ore Durazzo è raffigurato stretto nella mano del suo primo proprietario, il collezionista e nobile parmense dallo sguardo penetrante, Troilo de' Rossi. Arte che rappresenta arte.

Parmigianino, ritratto di collezionista, 1523
Ma allora come mai il nome "Durazzo"? In effetti questa denominazione deriva dal Marchese Marcello Luigi Durazzo, vissuto tra il 1790 e il 1848, che comprò il libro nel 1826, per poi donarlo alla Biblioteca Civica Berio di Genova, dove ancora oggi è gelosamente custodito.
Questa straordinaria opera manoscritta è un esempio della grande qualità raggiunta dagli artisti italiani nel Cinquecento e ispira ancora oggi l'ammirazione e lo stupore di storici, studiosi e semplici appassionati d'arte di tutto il mondo.

Fonti: www.oredurazzo.it

La nascita del fumetto a puntate

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Nuovo post dalla rubrica #IconaFumetto che ripercorre per voi la storia di questa forma d'arte, tra illustrazione e cinema.
Negli anni Venti in America si assistette a una leggera separazione tra la striscia giornaliera e la tavola domenicale, nel tentativo forse di spartire il pubblico. Da un lato il supplemento domenicale, a colori, rimase il gioioso appuntamento dedicato ai più piccoli e dall'altro lato la striscetta settimanale in bianco e nero si confermò per un pubblico più adulto.

Inoltre, si verificò un cambiamento epocale: se fino a questo momento infatti abbiamo visto come i comics fossero sempre auto-conclusivi nel raccontare una storia, possiamo dire che negli anni Venti vennero poste le basi per i fumetti a puntate. Non fu un passaggio immediato, ma si trattò di un cambiamento graduale che all'inizio portò a un semplice susseguirsi di gags autonome. Una volta compreso che il pubblico gradiva, si ruppero gli indugi e si saltò definitivamente il fosso, verso l'avventura.

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Sono questi gli anni di Popeye, un marinaio guercio e rissoso dalla parlata gergale, frutto dell'invenzione di Elzie Crisler Segar. Con Popeye si passò dalla pura satira sociale verso storie più articolate e avventurose, con un occhio sempre alla risata. Negli anni Trenta i fratelli Fleischer cominciarono a sfornare cartoni animati che videro come protagonista il muscoloso marinaio.
Joe Palookaè il tipico biondone americano, alto, ben piantato, di buoni sentimenti, insomma fin troppo perfetto per essere vero. Fa il pugile e questa insolita attività è un espediente per portare i lettori in un ambiente insolito. Il suo creatore è Harm Fisher che in pochi anni lo rende un difensore dei valori degli Stati Uniti. Un po' noioso, se non fosse per i personaggi di contorno molto più veritieri, disegnati da due geniali collaboratori di Fisher.


Milt Gross fu un autore eccentrico che nella strip Dave's Delicatessen raccontò le avventure di Count Screwloose, ostentando un linguaggio da ebrei del Bronx. Gross, considerato un autore marginale, ma di culto, lasciò il mondo dei fumetti per diventare lo sceneggiatore di alcuni film di Chaplin e in seguito dedicarsi alla pittura. Negli Stati Uniti esiste un fondo di assistenza per autori di fumetti ridotti in povertà che porta il suo nome.


La storia più esemplare del passaggio dall'umorismo all'avventura è quella di Wash Tubbs and Captain Easy di Rob Crane. I due personaggi sono un piccoletto bruttino e chiacchierone, alla Woody Allen, sempre circondato da belle donne più alte di lui e un grandone dalla mascella forte e dal pugno facile. La serie si evolverà, iniziando con il primo personaggio, scoprendo il secondo e dando infine a quest'ultimo più importanza, relegando il piccoletto Wash Tubbs a un ruolo secondario.
Capostipite della fantascienza a fumetti, Buck Rogers nasce in un racconto scritto da Philip Nowlan nel 1928 che poi diventerà una serie a fumetti disegnata da Dick Calkins. Prende vita così nel 1929 il primo eroe spaziale: si tratta di un terrestre che, risvegliatosi da una specie di coma a cinquecento anni dalla sua epoca, si trova a dover affrontare una tecnologia avanzatissima e per lui sconosciuta. Questo fumetto avrà vita lunga, nonostante i disegni non proprio eccelsi e l'ingenuità dei testi a volte pure un po' razzisti.


Tarzan, l'uomo scimmia, nasce letterariamente nel 1912 dalla penna di Edgar Rice Burroughs, ma bisognerà aspettare il 1929 per averne la bella versione a fumetti, firmata fino al 1937 da Harold Foster, uno dei maestri più amati e rispettati della comic art.
Due adolescenti, Tim e Spud, Cino e Franco in Italia, sono i protagonisti di una longeva serie avventurosa che è riuscita a far identificare con loro più di una generazione di lettori. Tim Tyler's Luck esordisce nel 1928 firmata da Lyman Young. Partita come una storia dai toni umoristici, presto si convertirà all'avventura, decollando definitivamente quando i due ragazzi si ritrovano in Africa, alle prese con tribù selvagge, bande di contrabbandieri, attacchi di belve e inedite ambientazioni in savane o foreste.

Continua l'esplorazione ...

Se vuoi scoprire tutta la storia del fumetto segui l'etichetta #iconafumetto

Fonti: Gulp!100 anni a fumetti, a cura di Ferruccio Giromini, Marilù Martelli, Elisa Pavesi, Lorenzo Vitalone, Electa, Milano, 1996

Intervista a Federica Pagliarini, curatrice di Emozione Arte

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Riprendo dopo un po di tempo l'ormai celebre rubrica del blog dedicata agli art blogger: "c'è arte nella blogosfera". Oggi conosceremo Federica, la curatrice del blog Emozione Arte.
Si tratta di un blog che raccoglie insieme articoli, recensioni, mostre, video e molte novità sul mondo dell'arte. Ma lasciamo che sia Federica stessa a parlarci di lei e del suo progetto.

Vorrei che per cominciare ti presentassi, chi sei, quali studi fai o hai fatto, quando e perchè hai iniziato a scrivere il blog, e qual è lo scopo, la missione, il fine che ti sei prefissata diventando blogger.

Mi chiamo Federica Pagliarini, ho studiato storia dell'arte sia in triennale che in magistrale a Roma. Da sempre è la mia più grande passione, più o meno da quando andavo alle medie. Al liceo poi questo amore è aumentato sempre di più, probabilmente anche grazie ad una professoressa che mi ha fatto appassionare alla materia. Per quanto riguarda il blog, ho deciso di crearlo da qualche mese, in particolare da settembre 2016. Era da tempo che covavo in me questo desiderio, ma per tempo e paura di non riuscire a gestirlo, ho lasciato sempre perdere. Dato che però tanta gente intorno a me mi diceva sempre che quando spiego la storia dell'arte (magari quando si è in un museo), faccio appassionare tutti con le descrizioni dettagliate, ho deciso di buttarmi. Alla fine non avrei perso niente. Il fine è quello di far conoscere al pubblico una materia che molto spesso si conosce poco o superficialmente. Si chiama Emozione Arte, perché l'arte genera emozioni, di ogni tipo.

Qual è il tuo rapporto, il tuo approccio con il luogo per eccellenza che custodisce le opere d'arte, cioè il museo: sei più da "turistodromo" o preferisci piccoli musei poco frequentati e quale ti sentiresti di consigliare ai lettori di Artesplorando.

Non prediligo un museo in particolare. Guardo tutto, dai musei più importanti, ai musei più piccoli e poco conosciuti. Sono attirata dagli artisti o dalle tematiche trattate e non dal museo in sé. Se dovessi però consigliare un museo ai lettori di Artesplorando, direi sicuramente la Galleria Borghese di Roma. Penso sa il museo più bello e curato che abbia mai visto. Poi il patrimonio artistico conservato è magnifico. Ci perderei le ore e i giorni dentro. 

Che rapporto hai con le mostre? oggi spesso diventano eventi mediatici molto pubblicizzati, ma alla fine di poca sostanza. Quali sono le mostre che preferisci e se vuoi fai un esempio di una in particolare che ti ha colpito.

Hai ragione! Oggi le mostre sembrano essere diventate degli eventi "acchiappa turisti" più che mostre pensate e curate nei temi e nei particolari. Tendenzialmente prediligo le mostre tematiche, che cercano di analizzare un movimento o una tematica, come per esempio la mostra ancora in corso adesso a Roma del "Maestro di Hartford" alla Galleria Borghese a Roma. Si cerca di analizzare  non solo l'identità del pittore, ma anche la nascita della natura morta in Italia. Nello stesso tempo visito anche le mostre dedicate agli artisti singoli che si vedono in tantissimi musei. Una volta vista e studiata, do poi il mio giudizio e la mia critica.

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Se fossi il ministro dei Beni Culturali e il Presidente del Consiglio ti desse carta bianca, quale sarebbe il tuo primo provvedimento?

Sicuramente rendere i musei gratuiti a tutti. Spesse volte i musei e le gallerie hanno i prezzi dei biglietti veramente alti e per una famiglia sostenere dei costi così elevati è problematico, soprattutto
in questo periodo. Penso che l'arte e la cultura debbano essere fruibili da tutti e sostenerle è importante, in particolare in un Paese come il nostro, dove l'arte e l'archeologia regnano sovrane.

Cosa proporresti di leggere a una persona che si avvicini per la prima volta alla storia dell'arte? un testo scolastico, un saggio, una monografia…

Sicuramente un testo che dia una panoramica generale sull'arte. Consiglierei i libri di Argan che usai alle superiori come testi scolastici e che quasi tutti i miei amici odiavano perché ritenevano difficili (ma in realtà non lo sono per niente), oppure i tantissimi "Art e dossier" che trattano monografie succinte ma esaurienti su artisti e movimenti.

Arriva il Diluvio Universale e tu hai la possibilità di mettere qualche opera d'arte nell'arca di Noé, quali sceglieresti?

E' difficile rispondere. Tutta l'arte sarebbe da salvare, senza distinzione. Se dovessi scegliere, probabilmente salverei le opere di Caravaggio e le sculture del Bernini ala Galleria Borghese, tra cui il "David" che adoro.


Con quale artista (anche non più tra noi!) ti sentiresti di uscire a cena o a bere qualcosa? e perchè?

E' una cosa a cui ho sempre pensato. Mi sarebbe piaciuto uscire a cena con Caravaggio. Una personalità inquieta e innovativa come la sua mi ha sempre affascinato. Magari gli chiederei di parlarmi della sua vita, così si farebbe luce sui tanti buchi della sua storia ancora non risolti. Ma adesso che ci penso, uscirei anche con Michelangelo Buonarroti. Anche lui personalità inquieta, ma straordinaria. Come si è capito, mi piacciono le personalità burrascose perché ritengo siano quelle che abbiano dato le innovazioni maggiori alla nostra storia dell'arte.

Oggi in TV e alla radio non c'è molta arte, e cultura in generale. Tu cosa consiglieresti di guardare (o ascoltare) al lettore di Artesplorando. Può anche essere un programma non prettamente d'arte, ma al cui interno ci sia un'approfondimento artistico. In onda ora, ma anche nel passato (ovviamente valgono anche le web-tv).

Vedo che ultimamente i programmi dedicati all'arte stanno aumentando sia sul digitale terrestre che sulle TV private. Molto interessante è Rai 5, dove si volte mandano in onda programmi educativi e ben fatti. Per non parlare poi di Sky Arte, dove tutto il giorno ci sono programmi che spaziano dall'arte, alla musica, al cinema.

In un ipotetico processo alla storia dell'arte tu sei la difesa, l'accusa è di inutilità e di inadeguatezza ai nostri tempi, uno spreco di tempo e di soldi. Fai un'arringa finale in sua difesa.

Oggi purtroppo la storia dell'arte non viene sempre ben vista dal pubblico. Si pensa che sia qualcosa di inutile o un hobby. In realtà non è così! L'arte ci circonda e ha formato la nostra cultura e il nostro Paese. Ogni cosa parla d'arte. Anche i palazzi dove viviamo. Le strutture architettoniche sono formate da elementi creati dagli antichi romani e grazie a loro che oggi possiamo fare tante cose. Come direbbe una mia professoressa del liceo: "Non ci siamo inventati nulla!"

Concluderei con una bella citazione sull'arte, quella che più ti rappresenta!

"Arte è quando la mano, la testa e il cuore dell'uomo vanno insieme" - John Ruskin

E con questa splendida citazione salutiamo Federica e ... tutti a leggere Emozione Arte!

Ritratto della marchesa Casati con levriero, Giovanni Boldini

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Giovanni Boldini, ritratto della marchesa Casati con levriero
Giovanni Boldini è noto come il prototipo del ritrattista della cosiddetta →Belle Epoque, un artista che lavorò per una clientela prestigiosa che comprendeva personaggi come Consuelo Vanderbilt, la marchesa Luisa Casati, la celebre ballerina Cléo de Mérode e le mogli di innumerevoli uomini ricchi o blasonati che facevano la fila per farsi ritrarre dal "parigino d'Italia".
E proprio il ritratto della marchesa Casati con levrieroè l'opera che avete votato di più tra quelle dell'artista ferrarese, nel sondaggio realizzato nella →community di Artesplorando su Facebook.

E che ritratto avete scelto per rappresentare Boldini! Un'opera in cui emerge tutto lo stile dell'artista che con la sua pennellata rapida e vigorosa faceva apparire le sue splendide donne più slanciate, più eleganti e più alte. In particolare, a quelle signore che stabilirono con lui un rapporto più amichevole, l'artista conferì una grande modernità, semplificando le loro fattezze, pur somiglianti, in forme grafiche spigolose e allungate. Ed è questo il caso della marchesa Casati che molto probabilmente era in un rapporto d'amicizia con il pittore.

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La marchesa Casati fu una musa e una vera e propria opera d'arte vivente, non a caso venne ritratta più volte da Boldini. Luisa Casati Stampa fu senz'altro una delle donne più eleganti della sua epoca, una femme fatale che dominò le cronache mondane parigine agli inizi del Novecento. La marchesa fu una leggenda vivente, dark lady, importante collezionista d’arte e mecenate, musa di simbolisti, fauves, futuristi e surrealisti. Tutte queste caratteristiche sono ben racchiuse in questo splendido ritratto in cui Boldini fissa sulla tela l'immagine della marchesa vestita con un elegante abito nero e accompagnata da un levriero.

Luisa Casati con, da sinistra, Paul-César Helleu e Giovanni Boldini durante
una festa in maschera nei giardini di Ca' Venier dei Leoni a Venezia nel 1913.
Il cane con la sua eleganza e con le sue forme slanciate e sinuose sembra voler fare eco alla figura della marchesa. Non mancano dettagli preziosi come il collare del levriero, l'ampio cappello alla moda o i lunghi guanti bianchi indossati dalla donna. Il connubio tra realismo, capacità di introspezione e abilità nel restituire con pochi tratti il carattere e la vitalità della Casati, sono tutte qualità che contraddistinsero l'opera matura di Giovanni Boldini.
Acuto testimone della propria epoca, l'artista riuscì a definire l'icona stessa della bellezza e dell'eleganze parigina. Ma anche in questo aspetto sta l'equivoco che purtroppo spesso accompagna le opere di Boldini. Essendo infatti stato l'interprete dell'alta società della Belle Epoque che venne spazzata via dalla Grande Guerra, Boldini venne considerato come il pittore della vanità di un'intera classe sociale ritenuta a torto decadente. A torto perché oggi possiamo dire che la società della Belle Epoque seppe dar vita a una delle stagioni più importanti della storia moderna.

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Casa della palma, Juan Mirò

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Juan Mirò, Casa della palma
Joan Mirò, pittore, scultore e ceramista, nacque a Barcellona, in Spagna, nel 1893. I suoi primi lavori mostrano l’influenza di diversi movimenti artistici, ma è più precisamente nel surrealismo che l’artista trovò la propria strada. Per tutta la sua vita Mirò rimase infatti fedele al principio fondamentale del movimento surrealista: lasciare libero l’inconscio con tutto il suo potere creativo, senza legarlo alle catene della logica e della ragione.

Diversi studi realizzati da Miró tra il 1916 e il 1918 si tradussero nella creazione di quattro paesaggi, realizzati nel 1918. Il pittore era solito, all’epoca, trascorrere le estati nella cittadina di Mont-Roig del Camp, pochi chilometri a sud di Barcellona e questa piccola città, in cui i genitori possedevano una fattoria in campagna, fu uno dei poli principali per la sua ispirazione artistica. Anche per questo legame la propria famiglia, i paesaggi realizzati a Mont-Roig del Camp, che culminarono con l’opera intitolata La fattoria, sono considerati molto importanti per l'evoluzione dello stile del pittore.

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Una di queste quattro importanti creazioni è il dipinto che potete vedere qui, in cui Miró realizzò un paesaggio in maniera molto descrittiva e illustrativa in cui vediamo una tipica fattoria della campagna spagnola, con i campi coltivati sotto un bel cielo azzurro. Il pittore qui ci mostra la tenuta agricola chiamata Mas d'en Romeu, collocata vicino a quella della famiglia dell’artista, denominata Mas Miró.
L'assenza di profondità, di ombre e di personaggi, regalano a quest’opera un’aria sognante, semplice e ingenua. Poco importa il realismo perché Mirò voleva fissare sulla tela un paesaggio simbolo che segnò profondamente la sua giovinezza, lasciando libere le emozioni, i ricordi e i sentimenti.


È in una casa come questa che l’artista si riprese dopo un forte esaurimento nervoso causato da un lavoro che proprio non gli si addiceva: il padre infatti aveva consigliato a Mirò una carriera da contabile che il giovane abbandonò dopo la sua crisi nel 1911 per dedicarsi a tempo pieno alla carriera di artista. La casa della palma è quindi il primo importante traguardo creativo del pittore che da questo momento iniziò a realizzare opere sempre più vicine al surrealismo.
L’artista stesso disse: "Quello che mi interessa è soprattutto la descrizione di un albero o di un tetto di tegole, foglia per foglia, ramo per ramo, filo d'erba per filo d'erba."

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Amore e Psiche, Antonio Canova

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Antonio Canova, Amore e Psiche
Questo affascinante gruppo scultoreo conservato al Louvre, è opera del grande Antonio Canova, maestro nello scolpire il marmo. Ne esiste una seconda versione simile alla prima, conservata all'Ermitage di San Pietroburgo e una terza sempre esposta al Louvre, in cui la coppia è in piedi.
Le due figure protagoniste dell’opera sono Amore e Psiche nel momento che precede di qualche istante il bacio. Il soggetto è molto probabilmente preso dalla leggenda di Apuleio, scrittore, sacerdote, filosofo e mago dell’antica Roma.

La storia narra che Psiche, ragazza bellissima, provocò l’invidia di Venere, così che la dea le mandò Amore per farla innamorare di un uomo vecchio e brutto. Ma Amore vedendola se ne innamorò e, dopo una serie di traversie, riuscì a far entrare Psiche nell’Olimpo degli dei, per restare con lui. I due poi si sposarono e dalla loro unione nacque un figlio di nome Piacere.

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Quest’opera d’ispirazione mitologica è solo un pretesto per rappresentare l’amore ed è per questo che l’artista scelse di fissare nel marmo il momento, carico di desiderio, che precede il bacio. Ma osserviamo attentamente i dettagli. La composizione è straordinariamente articolata: la donna, Psiche, è semidistesa, orienta il viso e le braccia verso l’alto e, nel fare questo, crea con il busto una torsione ad avvitamento; l’uomo, Amore, si appoggia su un ginocchio mentre con l’altra gamba si sporge in avanti incurvando la schiena e inclinando la testa di lato per accostarsi alle labbra della donna.

Un dettaglio dell'opera
Questo straordinario gruppo scultoreo ben rappresenta l’estetica e il gusto neoclassico sempre alla ricerca di un equilibrio perfetto delle forme. Osservando bene l’opera ci rendiamo conto che il corpo di Psiche insieme alla gamba e alle ali di Amore costruiscono una X perfettamente simmetrica. Le braccia di Psiche delimitano al centro di questa X un cerchio perfetto che incornicia il punto focale della composizione: i pochi centimetri che separano le labbra dei due amanti. Canova qui non cerca di cogliere il movimento, la vitalità o la sensazione del continuo divenire come →Gian Lorenzo Bernini aveva fatto prima di lui nel barocco. L’artista invece ha la necessità tutta neoclassica d’arrivare a una perfezione senza tempo in cui nulla più può trasformarsi. Canova per fare questo non cerca di dar vita al marmo, ma cristallizza la vita nel marmo, dando alla materia una forma immutabile e immortale.

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Le muse inquietanti, Giorgio de Chirico

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Giorgio de Chirico, le muse inquietanti
Il dipinto Le Muse inquietanti fu realizzato a Ferrara tra il 1917 e il 1918 mentre Giorgio De Chirico, in piena Prima Guerra Mondiale, svolgeva il suo servizio militare insieme al fratello Alberto. La città, per la sua particolare forma urbanistica e architettonica risalente al Rinascimento, fornì importanti spunti d’ispirazione all’artista, tanto da diventare co-protagonista dell'opera. La geometria ordinata delle strade rispecchia molto fedelmente lo spirito presente in molti dei suoi quadri: soprattutto nelle opere appartenenti alla cosiddetta serie delle "Piazze d’Italia". Ferrara fornisce la cornice ideale a questo, che tra i dipinti di De Chirico è il più noto, diventando la città metafisica per eccellenza.

Le Muse inquietantiè una specie di "manifesto" della poetica metafisica. In questo olio su tela di 97×67 cm, appartenente oggi a una collezione privata, troviamo tutti gli elementi più usati dal De Chirico metafisico: spazi cittadini deserti con prospettive deformate ma anche statue e manichini al posto delle persone. Sono espedienti usati dal pittore per confonderci, forme prese dalla vita di tutti i giorni, ma che insieme producono un effetto destabilizzante. Tutto quello che vediamo nel dipinto lo riconosciamo chiaramente: un castello, tre statue, una fabbrica, un bastone, una maschera e due scatole.

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Le statue, però, al posto della testa hanno manopole ed elementi simili a quelli che ritroviamo nei manichini. Sicuramente cominciamo a chiederci il perché della scatola in terra e cosa ci fanno lì quelle strane statue. Mistero. Anche il pavimento è bizzarro e sembra scivolare verso di noi come se la prospettiva fosse sbagliata. Ma De Chirico la prospettiva la sapeva fare bene, quindi tutto questo serve a comunicarci un senso di mistero e di stranezza.
Le Muse inquietanti raffigura una piazza, ma al posto del selciato ha delle tavole di legno che ricordano più un palco teatrale che una piazza cittadina. Sullo sfondo a destra c’è il castello estense di Ferrara, mentre a sinistra il pittore colloca una fabbrica con delle alte ciminiere.


Queste due strutture agli antipodi mostrano la contrapposizione tra antico e moderno, ma si può notare che il castello ha le finestre buie, elemento che ci fa pensare che non sia abitato, mentre la fabbrica ha i camini che non fumano, segno che nessun lavoratore sta svolgendo la sua funzione all’interno. Se poi osserviamo le due parti del quadro separate dalla linea d’orizzonte della piazza, noteremo che sono realizzate con due punti di vista diversi: una visione dall’alto per la parte inferiore, mentre la parte superiore è dipinta utilizzando un punto di vista più basso. Un aspetto questo che ritroviamo molto di frequente soprattutto nella pittura tedesca e fiamminga del Quattrocento. Molto probabilmente questo dettaglio è dovuto alla formazione tedesca del pittore, avvenuta a Monaco di Baviera e non è l’unico riferimento geografico.

Il castello di Ferrara
Il manichino in primo piano sulla sinistra infatti ha la metà inferiore che richiama le pieghettature verticali sottili e parallele, tipiche delle vesti classiche presenti nelle statue greche: è un elemento che ci riconduce naturalmente all’infanzia del pittore, vissuta in Grecia. La cultura greca classica ha dato a tutta l’attività pittorica di De Chirico, una continua ispirazione, sia poetica che formale, soprattutto quando il pittore abbandonò lo stile metafisico durante la maturità. L’altro manichino, seduto in secondo piano, ha la testa separata e deposta ai suoi piedi che ricorda quelle maschere africane fonte d’ispirazione per artisti come Pablo Picasso, appartenenti all’ambiente parigino di inizio secolo. La testa così staccata e appoggiata a terra diventa la traccia di quella modernità stilistica che De Chirico ha sempre rifiutato.

Giorgio de Chirico al lavoro
Il dipinto di De Chirico non è interessante solo dal punto di vista compositivo, ma nasconde linguaggi velati molto importanti. Abbiamo visto come gli oggetti e le strutture sembrino delle forme vuote, ciò che resta della vita dopo il suo passaggio. Il tema del dipinto però non è la morte come termine della vita, ma quell’eternità fissa e misteriosa che va oltre l’apparenza delle cose. La vita è evoluzione nel tempo: capire questa dinamica significa comprendere le leggi fisiche che ordinano l’universo. Ma l’occhio di De Chirico va oltre, cercando di cogliere quel mistero incomprensibile che si nasconde dietro la conoscenza delle leggi fisiche. Quel mistero che ci porta a interrogarci sul senso ultimo delle cose e sul perché della loro esistenza.


Ma perché il titolo Le Muse inquietanti? Le muse erano quelle figure mitologiche che difendevano le arti. Gli artisti le pregavano per ricevere l’ispirazione. Nel caso di De Chirico le muse sono "inquietanti" perché indicano la strada che va oltre le apparenze. Il dipinto mette in difficoltà il nostro bisogno di trovare un qualche significato e il mondo stesso a volte ci si presenta così. Spesso conosciamo o vediamo i singoli elementi, ma non siamo in grado di metterli in una successione logica o di avere una visione d’insieme. Queste muse ci vogliono forse dire che anche il mondo antico, con tutti i suoi miti e i suoi racconti creativi, può nascondere altri significati dietro l’apparenza delle cose. Ma in ultimo ci parlano anche delle scelte artistiche del pittore. De Chirico assimila più riferimenti geografici e culturali appartenenti al passato che riesce con semplicità a far propri, sintetizzandoli in una dimensione temporale dove prima e dopo non contano.


L’artista rifiutò con fermezza il concetto secondo il quale ha maggior merito ciò che supera il passato per proiettarci nel futuro, o quel concetto di progresso, per cui i valori sono scanditi dalla maggiore o minore novità dell’opera prodotta. De Chirico mostra che per lui è più importante ispirarsi al passato che al presente, ma egli non è assolutamente un pittore neoclassico. Vuole semplicemente polemizzare con chi ha fatto del tempo o della velocità la nuova ispirazione dell’arte moderna, indicando come in realtà queste sono variabili effimere: il vero senso delle cose sta oltre il tempo.


Quindi il pittore mette insieme antico e moderno, le statue e la fabbrica, la musa e il manichino che un po’ ci fanno sorridere e un po’ ci fanno riflettere sui misteri del mondo. Come capita spesso nei sogni in cui ci sono cose che vediamo tutti i giorni, mescolate e dove succedono cose senza senso. In realtà però un significato c’è, il nostro inconscio cerca di comunicarcelo in questo modo, ma decifrarlo non è possibile. Al di là di tutti i significati che si possono trovare, possiamo osservare semplicemente questo bel quadro con la certezza che non tutto a questo mondo ha un senso.

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Giotto, il rinnovatore della pittura europea

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Giotto, compianto su Cristo morto, Cappella degli Scrovegni, Padova, 1303-1305 circa
Giotto di Bondone è considerato il rinnovatore in senso realistico della pittura italiana ed europea. La sua attività coincide quasi esattamente con l’epoca di maggiore espansione economica e civile della città di Firenze, della cui nuova classe dirigente mercantile Giotto può essere considerato l’artista favorito. Nacque intorno al 1267 a Colle, frazione di Vespignano presso Vicchio di Mugello. Secondo la tradizione, la sua famiglia era povera: il padre Bondone era un contadino illetterato. Quanto al nome, Giotto, è variamente interpretato come diminutivo di Angiolo-Angiolotto o di Ambrogio-Ambrogiotto, ma anche di Ruggerotto o Parigiotto.

È probabile che la famiglia, trasferitasi in città, abbia messo il giovane Giotto a bottega presso qualche maestro del capoluogo. E questo maestro potrebbe essere stato proprio Cenni di Pepo, detto Cimabue. Del pittore fiorentino, ricordato da Dante come il maggiore esponente della pittura prima di Giotto, sappiamo in realtà molto poco. Le uniche notizie certe su Cimabue lo collocano a Roma nel 1272, e molti anni dopo a Pisa nel 1301-1302. Nonostante ciò l’artista si colloca in posizione di assoluto rilievo nella pittura italiana di fine Duecento, diventando sicuramente maestro e punto di riferimento per artisti come Giotto e Duccio di Buoninsegna.

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Vi sono, però, diverse leggende legate alla formazione di Giotto. Una di queste narra che Cimabue, vedendo il giovane Giotto disegnare una pecora su una pietra, lo prese con sé come apprendista; è probabile che questo avvenne quando Giotto aveva all’incirca dieci anni, dunque attorno al 1277. Un altro aneddoto sulla sua grande capacità di disegnare narra che mentre era a scuola da Cimabue, un giorno disegnò una mosca su una tela; Giotto l’aveva tratteggiata quasi per gioco, ma l’insetto era talmente realistico che il suo maestro provò inutilmente a scacciarla. Quando Cimabue venne a conoscenza che la mosca era stata disegnata da Giotto congedò il ragazzo ritenendo concluso il suo periodo di apprendistato.

Giotto, Cappella degli Scrovegni, Padova
 La sua abilità nel tracciare segni è ormai leggenda. Lo storico dell’arte Giorgio Vasari racconta che Giotto, per dimostrare a papa Benedetto XI la sua abilità d’artista, disegno con un sol gesto di pennello una "O" perfetta, senza l’aiuto di alcuno strumento. Anche questo è un aneddoto suggestivo, ma molto probabilmente si tratta di una leggenda. Intorno al 1290, Giotto prese in moglie Ricevuta di Lapo del Pela, detta "Ciuta", che gli darà otto figli, quattro femmine e quattro maschi. Alcune delle ragazze andarono in sposa a nobili e pittori; uno dei figli maschi, Francesco, intraprese la carriera di pittore seguendo le orme del padre, come risulta dalla sua iscrizione nel 1341 alla Compagnia di San Luca, mentre un altro prese i voti e divenne prete rettore di San Martino di Vespignano.

Giotto, Crocifissione, Santa Maria Novella, 1290-1295 circa, particolare
Giotto visitò più volte Roma e Assisi che saranno il campo delle sue più impegnative prove nell’arte. Ad Assisi, Giotto entrò in contatto con il pensiero anti-scolastico francescano e con il forte senso della realtà del Dio-Uomo, che ispira la religiosità di San Francesco. A Padova, si trovò a contatto con la raffinata vita di corte e con i fermenti dell’università impegnata nello studio della medicina, della filosofia aristotelica e del rapporto tra anima e corpo. In questa cittadina, giunse a Giotto anche qualche eco della civiltà bizantina, con cui familiarizzò in seguito a Ravenna e a Rimini. Ebbe anche la possibilità di conoscere il percorso della scultura francese dal Duecento al Trecento, una delle conoscenze che fortificarono Giotto nella sua direzione rivoluzionaria intrapresa.

Giotto, trittico Stefaneschi, 1320 circa
In ognuno dei centri nei quali operò lungo il suo percorso creativo (Assisi, Roma, Rimini, Firenze e Padova), Giotto si presentava con una veste pittorica rinnovata. Era uno dei pochi grandi artisti capaci di mutare incessantemente, pur rimanendo sempre se stesso. Questi cambiamenti coincidevano con i diversi momenti in cui l’artista fiorentino lasciava le proprie opere nelle varie città. Soprattutto nel periodo della sua piena maturità, al passaggio nel Trecento, Giotto fu per molti versi un artista-imprenditore, a capo di una bottega che produceva per l’Italia intera: in questa veste di antico leader, progettava le opere, dirigeva il lavoro degli allievi e interveniva personalmente alla stesura di alcune delle sue parti.


Secondo i registri, morì l’8 gennaio del 1337. Venne seppellito con grandi onori nell’antica cattedrale di Santa Reparata, oggi parte del complesso di Santa Maria del Fiore. Il Vasari afferma che il luogo della sua tomba fosse contrassegnato da "un matton di marmo bianco". Nonostante le ricerche compiute nella campagna di scavi del 1965, che ha riportato in luce, sotto il pavimento cinque-secentesco di Santa Maria del Fiore, quanto resta di Santa Reparata, non si è riusciti a identificare la sepoltura.


Seguire l’itinerario dell’arte di Giotto ci porta a comprendere l’evoluzione e lo svolgimento di gran parte della pittura italiana del Trecento. Lo sviluppo dell’arte giottesca ci indica anche la vitalità culturale di molti centri della penisola che esprimono una grande varietà d’espressione pur appartenendo a un grande e unico modello artistico. Giotto fu il principale protagonista della rivoluzione pittorica che si realizzò in Italia a partire dai primi decenni del Trecento e che portò alla tridimensionalità, alla narrazione, alla rappresentazione dei sentimenti e allo studio dei tratti fisionomici. Come disse Cennino Cennini: "Giotto rimutò l'arte del dipingere di greco in latino". Dalla lingua ormai morta bizantina si passa a quella nuova dell'Occidente.

Continua l'esplorazione ...


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Le 10 dee più belle della storia dell’arte

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Ecco le più belle e potenti donne mai immortalate nella storia dell’arte: dall’Atena di Klimt, alla Fortuna di Van Dyck, fino alle misteriose statuette dell’era glaciale.

  • Gustav Klimt – Pallade Atena (1898)

La dea greca della saggezza ci guarda con austerità dal capolavoro di Klimt che ritrae una fin de siecle visionaria, dove si mischiano mitologia antica e moderna psicologia. Nella Vienna del suo tempo, non solo artisti e scrittori, ma anche uomini di scienza come Sigmund Freud erano affascinati dal potere dell’inconscio e dal magnetismo della sessualità che si stava riscoprendo in quegli anni. Atena, quindi, non impersona tanto la divinità della ragione quanto l’archetipo primitivo dell’autorità e forza femminili.


  • Sandro Botticelli – Pallade e il Centauro (1482ca.)

In questo quadro, straordinariamente reale, agli esseri soprannaturali viene attribuita una presenza solida, come se venissero osservati ad uno stadio naturale: un esempio è la giuntura estremamente convincente tra la metà umana e quella ippica del centauro. Come ha fatto Botticelli a far funzionare così bene tale illusione ottica? La dea della saggezza afferra l’incarnazione maschile dell’irrazionalità per i capelli arruffati: riesce così a domare il selvaggio, incostante e iper-mascolino centauro, simboleggiando la forza femminile che salva il mondo dalle pazzie dell’uomo.


  • Bengala – Kali cammina sopra Shiva (XIXsec)

In quest’intensa opera proveniente dal Bengala del XIX secolo, l’irata Kali calpesta il dio Shiva. Kali è una dea rabbiosa e pericolosa, nata dalla fronte della dea Durga, e porta una ghirlanda composta dalle teste dei demoni che ha mangiato. Si aggira sulla Terra con rabbia e solo Shiva riesce a fermarla, lasciandosi calpestare da lei.


  • Antica Babilonia– La Regina della Notte (probabilmente una raffigurazione di Ishtar) (1800-1750ca. A.C.)

Questo bassorilievo in argilla emana potere e magia insieme. La figura alata che leva le mani al cielo e rivela con orgoglio la propria nudità è caratterizzata da una maestosità sessuale che ricorda Ishtar, la dea mesopotamica del sesso e della guerra – una combinazione certamente pericolosa – sebbene il pantheon mesopotamico includa divinità femminili e demoni altrettanto potenti. Da questa incisione sembra probabile che le donne dominassero l’immaginazione già dei primi contadini, che coltivavano il grano e facevano la fila per la loro razione di birra.


  • Europa, Era glaciale– Venere di Willendorf (28.000-25.000ca. A.C.)

Cosa sono quelle statuine femminili, formose e bizzarre, sopravvissute nelle caverne dove l’homo sapiens si rifugiò dopo l’ultima era glaciale? La Venere di Willendorf è una delle più famose sculture di questo tipo, che rappresenta una delle prime sostanziali creazioni artistiche dell’uomo. Una possibile interpretazione è che essa raffiguri una dea della fertilità: gli scultori, infatti, ne avevano messo in evidenza gli aspetti riproduttivi e materni. Tuttavia, si potrebbe anche presupporre che gli artisti stessi fossero donne, le quali creavano questi totem nell’ottica di una religione matriarcale.


  • Scuola di Fontainebleau – Diana la Cacciatrice (1550-60ca.)

Questo ritratto di Diana, la dea vergine della caccia, è anche allegoria di Diane de Poitiers, amante del re e personaggio molto influente nella Francia del XVI secolo. Quando divenne amante di Enrico II, Diane aveva 34 anni mentre lui soltanto 16, e lo tenne sotto la sua influenza per il resto della vita del regnante. Gli artisti della corte francese a Fontainebleau contribuirono alla creazione del culto della donna quale Diana, saggia e innocente, ma pericolosa per chiunque volesse intralciarne il cammino.


  • Pierre Mignard – La Marchesa di Seignelay e i suoi Due Figli (1691)

In questo allegro ed allegorico ritratto, la Marchesa di Seignelay - una delle vedove più ricche della Francia secentesca - posa come la dea acquatica Teti. Nell’Iliade di Omero, il figlio di Teti è Achille, e infatti uno dei figli della Marchesa è vestito proprio come il giovane eroe. I coralli e le conchiglie che decorano il dipinto simboleggiano i poteri sovrannaturali che la Marchesa di Seignelay reclama in questo ritratto vanesio e classicheggiante.


  • Titian – Diana e Atteone (1556-9)

Nelle Metamorfosi di Ovidio, il giovane Atteone stava cacciando nel bosco quando si imbatte per caso in un boschetto in cui Diana stava facendo il bagno. La dea lo punisce per averla vista nuda trasformandolo in un cervo, che verrà poi fatto a brandelli dagli stessi cani da caccia di cui in origine era il padrone. Tiziano dipinge il momento del fatale scambio di sguardi tra i due e in quest’attimo di rivelazione tutto assume una bellezza estrema: non solo il corpo delle donne che posano per la dea e le sue ninfe, ma la stessa acqua che danza nelle curve delle fontana, il cielo che fa capolino, gli alberi, tutto estasia lo sguardo. Ma la dea farà pagare a caro prezzo questo momento di straordinaria bellezza.


  • Rembrandt – Bellona (1633)

Bellona era una dea romana legata alla guerra, ma Rembrandt la dipinge in modo umano, forse fin troppo. Nella sua scintillante armatura appare grezza e poco marziale, mal equipaggiata nel suo abito di metallo, tuttavia pronta a difendere la sua patria. Come nel dipinto “La guardia notturna”, in cui viene radunata l’armata dei Padri Olandesi, anche in questo dipinto - dove il sovrannaturale diventa umano - la dea della guerra indica che, per quanto gli olandesi siano un popolo umile e poco aristocratico, difenderanno sempre il loro mondo e la loro moralità con testardo eroismo.


  • Anthony van Dyck – Rachel de Ruvigny, Contessa di Southampton, come la Fortuna (1638ca.)

La dea Fortuna è sopravvissuta all’epoca classica per approdare al Medioevo poiché simboleggia pienamente l’instabilità del commercio e della salute. Rachel de Ruvigny si tramuta in questa fortunata divinità nel dipinto di Van Dyck, che rende fin troppo palese la buona sorte della donna, avvolta da un brillio cosmico di argento e zaffiri: ricca, raffinata e, grazie a questa benedizione artistica, una delle personalità più influenti del suo tempo.

Fonti: traduzione di Beatrice Righetti da www.theguardian.com

Mi chiamo Beatrice Righetti, sono laureata in Mediazione Linguistica e Culturale all’Università di Padova e sono un’appassionata traduttrice. Studio inglese, russo, tedesco e spagnolo, e nel tempo libero mi dedico all’arte e alla letteratura. Per questo, credo fortemente nella divulgazione artistica e culturale, specialmente se integrata nel nostro vasto e poliedrico panorama internazionale.

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Cappella degli Scrovegni, Giotto

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Costruita nel 1303, la Cappella degli Scrovegni di Padova venne consacrata il 16 marzo del 1305: in questi due anni Giotto creò uno dei cicli pittorici più importanti di tutta la storia della pittura italiana del XIV secolo. Ma chi era il committente? E perché commissionare un’opera tanto imponente?
Enrico Scrovegni era un ricco mercante padovano e fu lui a commissionare la costruzione e la decorazione della cappella. Nella supplica che rivolse al vescovo per poterla costruire e decorare dichiarò di voler in questo modo strappare l’anima del padre dalle pene del Purgatorio ed espiare i suoi peccati. Enrico cercava così di riabilitare l’immagine della famiglia e soprattutto del padre Reginaldo, la cui ricchezza affondava le radici nell’usura.

Ma Enrico fece di più: nella parete del Giudizio Universale si fece mettere dalla parte dei Beati nell’atto di dedicare l’opera alla Vergine. Era quindi più che sicuro di meritarsi il Paradiso e tanta presunzione fece arrabbiare i frati del vicino convento degli Eremitani. I frati scrissero al vescovo che Enrico aveva aperto la cappella per orgoglio, vanagloria e personale profitto, non per lode, onore e
gloria a Dio.

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Qualunque fosse lo scopo, una cosa è certa: l’opera è grandiosa. La cappella, a navata unica, misura 29,26 m di lunghezza, 8,48 m di larghezza e ha un’altezza di 12,80 m. È coperta da una volta a botte e conclusa da un arco trionfale, di là dal quale si apre il coro con la piccola abside. La luce proviene da sette finestre aperte nella parete destra, mentre quella sinistra è cieca; questa deformità non consentì a Giotto di disporre gli affreschi in maniera speculare nell’una e nell’altra parete. La cappella fu interamente rivestita di affreschi con episodi della vita di Gesù a partire dagli anni precedenti alla sua venuta, arrivando fino alla Pentecoste.


Le scene sono disposte in registri sovrapposti e la parete dell’ingresso è interamente dedicata al Giudizio universale. Rispetto al precedente grande ciclo giottesco di Assisi, qui rimane il senso della
profondità e del rilievo. Giotto accentua le gradazioni del colore, rende i contorni più morbidi e prosegue la sua ricerca artistica rinnovandosi rispetto al suo stesso passato. I paesaggi diventano parte integrante della composizione e l’azzurro compatto e denso del cielo mette in risalto tutti gli altri colori.


Dal punto di vista della tridimensionalità, l’invenzione più stupefacente è l’illusione dei due finti coretti in prospettiva, dipinti sulla parete dell’arco trionfale: con la loro profondità straordinaria si inseriscono in un vero programma di simulazione architettonica che riveste l’intera cappella. Non sappiamo se Giotto li dipinse per arricchire un’edilizia modesta e bilanciare con i due immaginati vani l’apertura del coro troppo profonda nella parete figurata, o se addirittura per l’impegno di differenziare l’arte che sperimenta nel trompe-l’oeil le proprie possibilità da quella intesa a raccontare una storia, e che non rifiuta le convenzioni linguistiche ma solo la loro immutabilità, sapendo che una cosa è la vita, un’atra è la sua rappresentazione.


Lo stesso tipo di illusione la ritroviamo anche nel finto zoccolo marmoreo e nei quattro pilastri dipinti agli angoli dell’ambiente. A questo aspetto si aggiunge negli affreschi un forte senso del dramma che ritroviamo nelle espressioni dei volti dei personaggi e nel modo in cui elementi delle ambientazioni, come rocce o edifici, esaltano l’azione dei personaggi. Giotto non era solo interessato all’illusione prospettica e alla rappresentazione della tridimensionalità, ma anche alla resa della figura umana. Nella Cappella degli Scrovegni Giotto mise a punto nuovi metodi per rappresentare gli affetti e i sentimenti, il cui impeto, in alcuni episodi, era davvero evidente.

Compianto su Cristo morto
La narrazione comincia dal fondo della chiesa, nel registro alto, con sei Storie di Gioacchino e Anna, i genitori di Maria: Gioacchino cacciato dal tempio, Gioacchino tra i pastori, Sacrificio di Gioacchino, Sogno di Gioacchino, Annunciazione a Sant’Anna e Incontro alla Porta Aurea. Nell’Annunciazione a Sant’Anna è rappresentata una stanza, dove la sterile moglie di Gioacchino, in ginocchio, riceve il messaggio della prossima maternità da un angelo che entra a forza dalla finestrella. I particolari sono straordinariamente rappresentati: il letto con le tende, il cassone, la mensola e il mantice appeso alla parete. Tutti gli arredi sono partecipi al dramma della scena perché con la loro presenza ne determinano l’atmosfera che rivela una quotidianità delicata e intensa, piena dei giorni trascorsi nei lavori domestici. Una simile cura per i dettagli non trova riscontro in nessuna pittura del tempo e nemmeno in quelle più antiche.

Dettaglio del soffitto e del Giudizio Universale
 Sempre nel registro più alto, si susseguono le prime sei storie della Vergine: Natività, Presentazione al tempio, Consegna delle verghe, Preghiera per la loro fioritura, Sposalizio e Corteo nuziale. Coinvolgente è la scena complessa della nascita di Maria in cui un susseguirsi di azioni ci trascinano nella gioiosa familiarità dell’evento: la levatrice che porge alla madre la neonata, la balia che la coccola, la vicina di casa che porta in dono un filone di pane. La parte alta della parete di fondo è occupata da un’unica scena in due distinti momenti: Gabriele viene incaricato da Dio per svolgere il compito dell’annuncio e, sotto, lo vediamo mentre lo esegue di fronte a Maria.

Dettagli della Cappella
Sulla parente destra si snodano invece le prime cinque Storie della vita di Cristo: Natività, Adorazione dei Magi, Presentazione al Tempio, Fuga in Egitto e Strage degli Innocenti. Inoltrandosi nel racconto, Giotto mostra una grande conoscenza della vicenda narrata e utilizza la luce in un modo particolare, che fonde il colore nel chiaroscuro, creando un effetto gradevole e preciso nel definire la qualità dei corpi. Nelle sei storie di fronte a queste, sulla parete sinistra, la figura di Cristo viene sempre più emergendo e, con essa, aumenta l’intensità drammatica degli avvenimenti. Sono Disputa dei dottori, Battesimo, Nozze di Cana, Resurrezione di Lazzaro, Ingresso a Gerusalemme e la Cacciata dei mercanti dal tempio. Una complessa animazione di personaggi caratterizza le ultime due di queste scene, che mostrano anche grandiose invenzioni architettoniche.

Dettaglio con il committente Enrico Scrovegni

Tra le scene inferiori della parete destra si raggiungono i livelli artistici più alti della Cappella degli Scrovegni. Qui ritroviamo Ultima Cena, Lavanda dei piedi, Bacio di Giuda, Cristo davanti a Caifa e Cristo deriso. Non c’è dubbio che il gruppo centrale del Bacio di Giuda, con l’apostolo traditore che abbraccia Cristo e sporge la mascella con le labbra rivolte verso la bocca di lui, avvolgendolo quasi interamente nel mantello, sia il fulcro psicologico e formale della scena. In quel bacio terribile si consuma tutto il senso del tradimento. Gli altri personaggi che assistono all’evento sono anch’essi di grandissima qualità artistica: da San Pietro che protende il coltello verso Giuda, all’incappucciato di schiena che gli tiene il mantello; dal soldato con la mantella rossa al suonatore di corno.

Storie di Gioacchino: Incontro alla Porta Aurea (dettaglio)
Sulla parete di sinistra seguono le ultime sei storie: Andata al Calvario, Crocifissione, Compianto, Resurrezione, Ascensione e Pentecoste. Il Compianto segna il punto più alto della poesia di Giotto a Padova. Sopra i partecipanti, addossati al corpo di Cristo, incombe il volteggio degli angeli e neanche la natura si sottrae a questa scena di dolore, esprimendosi nell’albero rinsecchito in cima al costone di roccia. Le sette virtù e i sette vizi, dipinti nello zoccolo come fossero dei bassorilievi, rappresentano
l’interpretazione giottesca della fisiognomica medievale e scolastica. Virtù e Vizi hanno una straordinaria importanza economico-politica e sono rappresentati come pregi e difetti civili, o addirittura sociali. La Giustizia e l’Ingiustizia presiedono al buono e al cattivo governo, la Prudenza sembra indicare serietà di comportamento, la Carità si traduce nell’abbondanza che è frutto di buona amministrazione.

Scene della vita di Cristo: L'arresto di Cristo (dettaglio)
Quasi tutti gli studiosi ritengono che il Giudizio Universale, dipinto sulla parete d’ingresso, sia l’ultimo affresco di Giotto a Padova. Sotto la trifora, Cristo giudice appare dentro una mandorla circondata da angeli, ai lati della quale gli Apostoli occupano i loro seggi in un largo semicerchio. Due schiere angeliche sono disposte ordinatamente sopra di loro. In basso, alla destra di Cristo sono raccolti i beati, con una giovane Madonna che li raduna intorno a sé. Alla sinistra le fiamme dell’Inferno, e i diavoli con esse, tormentano i dannati. La parte più notevole di tutta la parete è l’immagine di Enrico Scrovegni, che offre la sua cappella alla Vergine accompagnata da due santi.
Il committente dell’impresa appare come il primo ritratto dal vivo dell’intera pittura occidentale. La fedeltà fisiognomica del volto è confermata dalla somiglianza con quello raffigurato in scultura nella tomba marmorea di Enrico, presente nella stessa cappella. Questo ritratto sarà l’esempio per tutti i successivi, da quelli pubblici e privati, dipinti da Simone Martini, l’artista trecentesco che ritrasse la Laura petrarchesca in un quadro andato perduto.

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Questo post si avvale di contributi bibliografici vari che potete consultare qui

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