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Conversione di San Paolo, Caravaggio

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Caravaggio, Conversione di San Paolo, 1600-01, Cappella Cerasi, Santa Maria del Popolo, Roma
La Conversione di San Paoloè una delle opere più belle del Caravaggio. È un dipinto a olio su tela di 230x175 cm, realizzato nel 1601 per la chiesa di Santa Maria del Popolo a Roma, insieme alla Crocifissione di san Pietro. L’importante contratto di quattrocento scudi, stipulato con monsignor Tiberio Cerasi, avrebbe permesso al pittore di pagare i suoi debiti e di godere di un certo benessere.
Caravaggio realizzò una prima versione dell’opera che, forse a causa di un cambio di idea da parte dei committenti o di un rifiuto, venne sostituita da una seconda. In entrambi i dipinti l’artista raffigura un episodio della vita di san Paolo o Saulo di Tarso, un ebreo che, come tanti, era ostile alla Chiesa e ai cristiani.

Secondo la narrazione biblica, Paolo si convertì al cristianesimo mentre si recava da Gerusalemme a Damasco per organizzare la repressione dei cristiani in quella città. Durante il viaggio, l’uomo fu avvolto da una luce fortissima e udì la voce del Signore dire: "Paolo, Paolo perché mi perseguiti?". Folgorato e reso cieco da quella luce divina, Paolo vagò per tre giorni a Damasco, dove fu guarito da Anania, capo della comunità cristiana della città.

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La prima versione fa parte oggi della collezione privata della famiglia Odescalchi, da cui prende il nome, "Caravaggio Odescalchi" per distinzione con la seconda. In quest’opera notiamo, come a differenza dalla versione successiva, Gesù venga rappresentato in carne e ossa, sorretto da un angelo. Caravaggio inserisce anche una guardia anziana con lancia e lascia intravedere sullo sfondo un po’ di paesaggio con un fiume, forse l’Aniene, che aggiunge respiro all’ambiente in cui si svolge la scena.
Nella seconda versione che andremo a vedere nel dettaglio l’episodio è colto sempre nello stesso momento: Caravaggio rappresenta il miracolo appena avvenuto, in un grande cerchio luminoso che racchiude i personaggi della scena.

Caravaggio, la versione Odescalchi
La luce rappresenta simbolicamente Gesù, luce divina che irrompe nelle tenebre del peccato. Lo sfondo nero, oltre ad avere una funzione simbolica, fa risaltare i volumi plastici dei personaggi. Domina la scena il cavallo che grazie all’intervento divino, alza lo zoccolo per non calpestare Paolo che, accecato, allarga le braccia come segno di grande dedizione per Cristo.
Sono presenti nella scena tre personaggi: un uomo anziano, forse un palafreniere, scalzo e con il volto segnato dalla fatica e dalle profonde rughe che tiene con una mano le briglie del cavallo e con l’altra ne accarezza il muso nel tentativo di calmarlo.


Paolo, a terra, è rappresentato come un giovane e bel cavaliere con abiti dai colori vivaci che contrastano con i toni bruni e grigi del resto del dipinto. E ovviamente il cavallo che osserva tra lo stupito e il curioso la scena e il suo padrone disarcionato. Colpisce il realismo del corpo di Paolo non ancora completamente caduto, notiamo il moto ancora vivo delle gambe, inclinate. Le braccia sono alzate, gli occhi accecati con le palpebre chiuse per difendersi dal bagliore divino. La spada di Paolo, sulla sinistra, è lontana e non può difenderlo. In realtà c’è una quarta protagonista nell’opera: la luce, presente come in tutte le tele della maturità di Caravaggio. Una luce che definisce gli ambienti e gli spazi, focalizzando l’attenzione sulla scena che emerge dall’oscurità di quella che potrebbe essere una stalla. Tutti gli attori di questa scena sono sbigottiti per lo stupore e anche noi osservatori siamo sicuramente catturati dal pathos evocativo caravaggesco.

Un dettaglio della Conversione
Come accadde per la Morte della Vergine, la sua interpretazione dell’episodio venne giudicata provocatoria. Quasi tutto lo spazio del dipinto è occupato dal cavallo. Ci si domandò perché collocare il cavallo al centro e San Paolo a terra. Il cavallo era forse Dio? Le norme artistiche dell’epoca prescrivevano di non porre al centro della rappresentazione un animale o elementi secondari e questo rese la scelta di Caravaggio ancora più innovatrice e rivoluzionaria. A differenza di altre rappresentazioni dello stesso episodio, realizzate per esempio da Raffaello e Lodovico Carracci, dove spesso troviamo soldati spaventati e cavalli imbizzarriti, qui l’artista scelse una grande semplicità per ricreare l’intimità e il mistero della conversione.


A causa dei vari ritardi accumulati, Caravaggio ricevette cento scudi in meno rispetto al contratto, il dipinto venne collocato in alto, in penombra, e cadde presto nell’oblio. Quanto al pittore, prese male le critiche e le ingiurie e tornò alla sua vita disordinata. Caravaggio è senza dubbio il pittore più misterioso e rivoluzionario della storia dell’arte. Artista di genio che lavorava a una velocità incredibile, direttamente sulla tela senza neanche disegnare i personaggi. Visse tra una prigione e l’altra, da cui i suoi protettori riuscirono a strapparlo con sempre maggiori difficoltà. Dall’ultimo carcere a Malta, evase in modo rocambolesco per riprendere la sua fuga.


Proscritto, ricercato, perseguitato e forse assassinato, Caravaggio sparì nei pressi di una spiaggia a sud di Roma, in circostanze che ricordano quelle della morte di Pier Paolo Pasolini. Il suo corpo non venne mai trovato e ci fu chi pensò che avesse organizzato la propria scomparsa. Una finta morte per sfuggire ai suoi nemici. Ma oltre a tutte le vicende e i pettegolezzi sull’uomo, resta l’artista senza il quale non avremmo avuto Ribera, Vermeer, La Tour e Rembrandt. Senza la sua influenza e le sue opere, Delacroix, Courbet e Manet avrebbero dipinto in maniera molto diversa e la storia dell’arte non sarebbe stata la stessa.

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→ Caravaggio, non solo l'artista dannato
→ Autoritratto in veste di Bacco, Caravaggio
→ Caravaggio il barocco e la Controriforma
Amor omnia vincit, Caravaggio
→ Nature morte (non morte) - Caravaggio

Questo post si avvale di contributi bibliografici vari che potete consultare qui

Umberto Boccioni

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Milanese sì, ma nato in Calabria, Umberto Boccioni ci appare come un frutto imprevisto dell’Unità d’Italia: provinciale, ma allo stesso tempo nazionale e proiettato nel centro delle correnti culturali europee. L’artista nacque a Reggio Calabria nel 1882. Trascorsi gli anni dell’infanzia tra Forlì, Genova e Padova, finì i suoi studi a Catania e cominciò ad avvicinarsi al mondo della letteratura. Nel 1899 si spostò a Roma: nella capitale scoprì la sua passione per la pittura e conobbe l’artista Gino Severini, con cui condivise un grande interesse per l’arte figurativa. I due artisti frequentarono lo studio di Giacomo Balla, che spiegò loro i fondamenti della tecnica divisionista, con la sua separazione del colore in piccole pennellate filamentose sovrapposte.

Allo stesso tempo li stimolò ad approfondire una maniera compositiva basata sull’affinità con la tecnica fotografica dello scorcio. Sarà Balla a orientare Boccioni verso quel contrasto di colori primari che si tingerà di valori sempre più drammatici e brutali e sarà sempre Balla a contagiarlo con il suo amore per il paesaggio e per la natura, costantemente presenti nei dipinti di Boccioni. Dopo questi anni legati all’insegnamento del maestro, nella primavera del 1906 l’artista partì per Parigi, forse stanco della vita di provincia che conduceva.

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L’impatto con la dimensione della metropoli fu eccezionale: il giovane rimase conquistato dalla modernità della capitale francese che all’epoca si impose come faro del progresso e delle novità scientifiche e tecniche, fulcro della frizzante ed euforica →Belle Epoque. Nell’estate dello stesso anno l’artista viaggiò attraverso la Russia, insieme a una famiglia conosciuta a Parigi. Nel dicembre del 1906 tornò in Italia trasferendosi a Padova, dove stavano la madre e la sorella, ma presto sentì che la vita della piccola città di provincia non faceva per lui. In quel periodo cominciò ad annotare tutte le sue ansie e i suoi pensieri in un diario che è giunto fino a noi e che è diventato uno straordinario e intimo strumento per comprendere meglio l’evoluzione e la crescita dell’artista.


Fu questo un momento cruciale per il pittore che mise in discussione la sua pittura, esprimendo la volontà di cercare nuove strade da percorrere lasciando modi e soggetti del passato. Questa ricerca coincise con l’esigenza di staccarsi dall’insegnamento di Balla e da quel verismo divisionista nel quale non vide più nulla di nuovo e interessante. Boccioni pensò che per rappresentare i moderni ritmi della civiltà contemporanea servisse qualcosa di diverso dal semplice studio del vero. Continuò quindi a viaggiare e sperimentare: nel 1907 andò a Venezia dove si applicò nella nuova tecnica dell’acquaforte. Nello stesso anni si trasferì a Milano, dopo aver trascorso una settimana a Parigi per visitare la mostra dei divisionisti italiani. I primi mesi del periodo milanese furono difficili per il pittore che sempre dalle pagine del suo diario ci trasmette un senso di forte e sofferta ricerca, divisa tra simbolismo ed espressionismo.


Come spesso avviene nelle nostre vite, fu un incontro a cambiare definitivamente quella di Boccioni. Tra la fine del 1909 e l’inizio del 1910 l’artista conobbe Filippo Tommaso Marinetti, poeta, scrittore e drammaturgo, fondatore del futurismo. Il futurismo è il primo movimento storico d’avanguardia italiano, che sarà decisivo per Boccioni nel suo strappo definitivo con il passato e con gli schemi tradizionali ancora presenti nella sua arte. Nacque proprio da questo incontro il movimento pittorico futurista, forse il più importante contributo italiano all’arte del XX secolo, il cui primo manifesto venne pubblicato nel febbraio del 1910 con le firme di Boccioni, Carrà, Rùssolo, Severini e Balla.

Umberto Boccioni, elasticità, 1912
I futuristi esplorarono ogni forma di espressione, dalla pittura alla scultura, alla letteratura, alla musica, all’architettura, al cinema e persino alla gastronomia. Il testo con cui questi artisti si presentarono terminava con queste parole: "È dall’Italia che noi lanciamo per il mondo questo nostro manifesto di violenza travolgente e incendiaria col quale fondiamo oggi il futurismo perché vogliamo liberare questo paese dalla sua fetida cancrena di professori, d’archeologi, di ciceroni e d’antiquari. Già per troppo tempo l’Italia è stata un mercato di rigattieri. Noi vogliamo liberarla dagli innumerevoli musei che la coprono tutta di cimiteri".

Umberto Boccioni, la città che sale, 1910
A questa dichiarazione prepotente contro la polvere e le ragnatele che bloccavano l’arte italiana, seguì nell’aprile dello stesso anno un annuncio, che spiegò l’idea pittorica dei futuristi: riprodurre nei dipinti la percezione dinamica dell’epoca moderna e trascinare lo spettatore verso il centro del quadro catturandone l’attenzione. La maturazione espressiva del movimento però avvenne più gradualmente rispetto all’aggressività verbale che caratterizzò l’attività iniziale dei futuristi. La prima esposizione futurista avvenne nell’estate del 1910 alla Ca’ Pesaro di Venezia, confermando nell’arte di Boccioni ancora un legame con le forme d’arte del passato. I futuristi si dotarono presto anche di un organo propagandistico diretto: l’unione d’intenti con diversi letterati fiorentini tra cui Sòffici e Papini trasformò la rivista Lacerba nel medium ufficiale degli intenti futuristi. Grazie anche alla conoscenza del cubismo, Boccioni si liberò lentamente delle influenze del passato giungendo alla frantumazione del colore e dello spazio e generando nel 1910 la potente e vorticosa visione de La città che sale.

Umberto Boccioni, la strada entra nella casa, 1911
Boccioni a partire da quest’opera trasferì in pittura le sue teorie sulla simultaneità e sul dinamismo, teorie espresse nel Manifesto tecnico della pittura futurista, pubblicato nell’aprile del 1910 con gli altri compagni futuristi. L’artista tentò in questo modo di ricreare sulla tela una sintesi di tutto quello che lo circondava: negando i concetti di spazio e tempo, Boccioni mise in opera una rappresentazione visiva simultanea dell’interno e dell’esterno, di spazio e movimento in tutte le direzioni. Nei dipinti che seguirono, come La strada entra nella casa e Visioni simultanee, l’artista separò la visione tradizionale raffigurando un mix di elementi in un’unica immagine caleidoscopica e roteante, dove i fasci di linee nei dipinti corrispondono a tutte le forze dinamiche. A proposito del dipinto La strada entra nella casa, lo stesso Boccioni scrisse: "La sensazione dominante è quella che si può avere aprendo una finestra: tutta la vita, i rumori della strada, irrompono contemporaneamente come il movimento e la realtà degli oggetti di fuori. Il pittore non si deve limitare a ciò che vede nel riquadro della finestra, come farebbe un semplice fotografo, ma riproduce ciò che può vedere fuori, in ogni direzione dal balcone".

Umberto Boccioni, visioni simultanee, 1912
Fu proprio tra il 1911 e il 1912 che Boccioni sviluppò le sue teorie sull’energia generata dall’oggetto in moto, le sue traiettorie di movimento nello spazio, quelle "linee-forza" che nei manifesti futuristi vengono ben descritte. Nel 1912 il gruppo futurista, per merito della forza trainante di Marinetti, decise di trasmettere il movimento a livello internazionale. Per fare questo, organizzò mostre nelle principali capitali europee, da Parigi a Londra, da Bruxelles a Berlino e Boccioni seguì le opere in un viaggio tra tappe principali. La prima mostra parigina alla Galerie Bernheim-Jeune andò molto bene all’artista, come pure la successiva a Londra, dove riuscì a vendere al celebre pianista Ferruccio Busoni La città che sale, durante l’esposizione alla Sackville Gallery.

Umbreto Boccioni, forme uniche della continuità e dello spazio,
1913
L’artista, nello stesso anno cominciò a interessarsi alla scultura, pubblicando nell’aprile del 1912 il suo manifesto, in cui espresse commenti negativi nei confronti delle sculture tradizionali: "La scultura deve far vivere gli oggetti rendendo sensibile, sistematico e plastico il loro prolungamento nello spazio, poiché nessuno può più dubitare che un oggetto finisca dove un altro comincia e non v’è cosa che circondi il nostro corpo: bottiglia, automobile, casa, albero, strada, che non lo tagli e non lo sezioni con un arabesco di curve e di rette... Proclamiamo che l’ambiente deve far parte del blocco plastico come un mondo a sé e con leggi proprie; che il marciapiede può salire sulla vostra tavola e che la vostra testa può attraversare la strada mentre tra una casa e l’altra la vostra lampada allaccia la sua ragnatela di raggi di gesso".

Umberto Boccioni, materia, 1912
Presero così vita le prime sculture dell’artista, realizzate con materiali diversi: nel gesso Boccioni inserì frammenti di realtà: crini di cavallo, vetro e legno. Forme uniche della continuità nello spazio fu il più efficace riassunto sulla forma in moto e la sua relazione con l’ambiente. La figura attraversa lo spazio creando un’energia interna tutta sua, frantumandosi nella sua azione, e formando un tutt’uno con l’atmosfera che la circonda. Anche se non potete andare fino al Moma di New York, potete vedere quest’opera tutti i giorni sulle monete da venti centesimi di euro italiani. Insieme a questi studi sul dinamismo plastico, nello stesso periodo Boccioni trasferì anche in pittura i suoi ragionamenti, in opere quali Materia, Volumi orizzontali, Elasticità e Antigrazioso.

Umberto Boccioni, antigrazioso, 1912
Successivamente l’artista provò una maggiore fusione tra i corpi e lo spazio, a partire dal 1913 in una serie di opere denominate Dinamismi: Boccioni a questo scopo utilizzò colori sempre più violenti e brillanti. Una fase di grande attività artistica ed espositiva a cui seguì un periodo di riflessione, costellato da molti articoli, che l’artista realizzò per Lacerba, raccolti poi nel volume Pittura scultura futuriste del 1914, che racchiude anni di lavoro in un condensato teorico. In questo trattato Boccioni studiò il rapporto tra la pittura futurista e quella cubista mettendo però in evidenza il desiderio della prima di superare con il dinamismo e la simultaneità lo staticismo della seconda. In questi anni venne anche scritto dall’artista un manifesto sull’architettura che restò inedito fino al 1972. Boccioni a questo punto entrò in una fase di crisi profonda che coincise con la sua messa in discussione del futurismo stesso e con la partecipazione alle dimostrazioni anti-austriache che volevano far partecipare l’Italia alla Prima guerra mondiale. Nel 1915 l’Italia fece il passo fatale ed entrò in guerra. Boccioni, interventista, si arruolò volontario: dopo una prima esperienza nel 1915 all’interno del Battaglione volontari ciclisti, si arruolò l’anno seguente nell’esercito. Nell’agosto del 1916 morì a soli 34 anni a causa di una caduta da cavallo durante un’esercitazione militare, a Chievo, frazione di Verona. Nel luogo esatto dell’incidente, una stradina immersa nella campagna, oggi si trova la sua lapide commemorativa.

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Flagellazione di Cristo, Piero della Francesca

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Piero della Francesca, flagellazione di Cristo
Il mistero di questo piccolo dipinto su tavola di 58 centimetri di altezza per 81 di lunghezza, realizzato a tempera, è profondo e irrisolto. L’opera, una delle più rappresentative di Piero della
Francesca e del Rinascimento italiano in generale, fu scoperta nel 1839 nella sagrestia del Duomo di Urbino. A compiere il ritrovamento fu Johann David Passavant, pittore tedesco della corrente dei nazareni. L’artista si ritrovò a Urbino nel corso di un viaggio fatto per seguire le orme di Raffaello, vide la tavola e registrò scrupolosamente una sua descrizione sul taccuino di viaggio.

Non si sa nulla della commissione o della destinazione originale della tavola che non è citata negli inventari del Palazzo Ducale di Urbino e non fece mai parte dell’eredità dei Della Rovere che succedettero ai Montefeltro. L’unica traccia è nell’inventario settecentesco del Duomo di Urbino, in cui la Flagellazioneè registrata. Rischiò pure d’essere acquistata da Sir Charles Eastlake, che nel 1857 venne mandato in Italia per conto della Regina Vittoria a caccia di dipinti per i musei inglesi istituiti in quegli anni. Ma per nostra fortuna l’emissario di Sua Maestà lo considerò deludente, ponendolo all’attenzione del suo consigliere italiano Cavalcaselle, scrittore, storico e critico d’arte.

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Egli ne ordinò il primo restauro e dal 1916 l’opera venne definitivamente spostata a Palazzo Ducale dove ancora oggi possiamo ammirarla. Tuttavia, al di là dalla scomparsa di dati storici certi, alcuni particolari salienti di quest’opera straordinaria lasciano trapelare la profondità intellettuale del messaggio che si nasconde nell’immagine, rilevando la sottile sapienza del sistema iconografico ideato da Piero della Francesca per rappresentare in termini visivi il suo significato misterioso. Che cosa abbiamo di fronte a noi? La flagellazione, che dà il titolo all’opera, è relegata sul fondo, mentre in primo piano abbiamo tre uomini, rappresentati in grande dimensione. Chi sono questi tre personaggi? Sono forse dei ritratti?


Un fatto è certo: all’epoca del dipinto, quando all’interno di un’opera a soggetto sacro comparivano delle persone reali, queste erano i committenti; partecipavano all’episodio o se ne stavano in disparte a pregare. I nostri tre uomini, invece, non pregano e non guardano la scena della flagellazione. Lo spazio compositivo del dipinto è diviso in due e prospetticamente costruito: a sinistra, in un ambiente interno, si svolge la scena della flagellazione che però ci appare sospesa; non è ancora avvenuta, tutti i personaggi sono fermi, immobili. Il Cristo è legato a una colonna con in cima un idolo dorato ed è circondato da tre figure, di cui una di spalle con un turbante che sembra un turco, quindi un infedele per l’epoca, e una che ha sollevato il flagello, preparandosi a colpire.


L’uomo seduto sul trono simboleggia Pilato, ma la berretta e i calzari rossi lo rendono più simile a un imperatore bizantino. A destra invece, la scena si apre in un esterno in cui le tre figure di uomini, vestiti alla maniera moderna dell’epoca, sembrano bloccati in una discussione. La figura centrale però alza lo sguardo, quasi distratto e a differenza degli altri due è scalzo. Pare che in origine, accanto al
dipinto, ci fosse la scritta Convenerunt in unum (si accordarono o si allearono), che si sarebbe trovata forse su una cornice poi scomparsa. Il dipinto è firmato, cosa rara per Piero della Francesca e lo è in maniera solenne, sotto al personaggio seduto che assiste alla flagellazione: "opera di Piero di Borgo San Sepolcro" puntualizza la firma.


Perché tutto questo amore, questa cura e questa attenzione, nel dipingere qualcosa che non doveva rappresentare in quel modo, secondo i canoni di allora? Un enigma che ha tormentato gli storici fino ai giorni nostri, portando alle interpretazioni più svariate. Ne vediamo due in particolare: una più tradizionale, ma ormai molto discussa, e una seconda più innovativa e che negli ultimi anni ha acquisito sempre maggiore credibilità. L’interpretazione tradizionale, vuole il quadro commissionato a Piero da Federico da Montefeltro per commemorare il fratellastro Oddantonio, rimasto ucciso nel corso di una congiura ordita nel 1444. Alcuni studiosi hanno datato l’opera poco dopo di questa data, ma l’ipotesi contrasta con lo stile più maturo dell’artista che nella Flagellazione realizza un fondo scenografico, certamente posteriore al tempo dell’incontro tra il pittore e Leon Battista Alberti.


Secondo l’altra teoria, più innovativa, l’argomento del dipinto rimanda simbolicamente alle sofferenze della Chiesa, culminate nella caduta di Costantinopoli per mano dei turchi avvenuta nel 1453. L’Oriente all’epoca era il centro della cultura e della politica e gli intellettuali bizantini l’esportavano in tutti il mondo, anche in Europa. Per cui la caduta di Costantinopoli agli occhi del mondo d’allora fu un grande choc. Nel decennio che seguì, quindi, si sentì il bisogno di una trattativa, una spedizione per salvare la città. Forse Piero della Francesca con quest’opera ha creato un manifesto politico in cui ha rappresentato le parti in causa: la parte sinistra, con la flagellazione sarebbe l’Oriente, mentre la parte destra con i tre personaggi, l’Occidente.


L’opera potrebbe alludere alla decisione presa nel corso del Concilio di Mantova del 1459, che programmò una nuova Crociata, della quale, appunto, starebbero discutendo i personaggi in primo piano a destra: il primo a sinistra sarebbe il Cardinale Bessarione, influente amico di papa Pio II, stratega di questa concertazione a Mantova; il primo a destra invece rappresenterebbe Niccolò III d’Este, padrone di casa del concilio che cominciò a Ferrara; in mezzo ai due, un giovane dai piedi scalzi come Cristo alla colonna, in una posizione analoga, vestito di porpora, potrebbe riferirsi all’erede del potente impero bizantino, caduto in disgrazia con la presa di Costantinopoli.


Ecco che la scena diventa una flagellazione simbolica della cristianità che si vede rappresentata in Gesù alla colonna e a cui il sultano turco, il personaggio di spalle con il turbante, sta per assistere. I soggetti presi in causa da questa ipotesi, avrebbero voluta la creazione di un’unica religione monoteistica, nata dalla fusione di cristianesimo e islamismo e Piero della Francesca ci restituisce l’immagine visionaria di un mondo in cui in effetti si può stare sotto l’ombrello della religione, ma questa religione non è né il cristianesimo, né l’islam, né qualsiasi altra, ma è la religione in sé che ci permette di pensare a una vita religiosa che non sia fatta di contrasti e attriti mortali, ma di concordia, tutto nel nome dell’arte.

C’è una considerazione che questo capolavoro fa scaturire: ma vale la pena nell’arte porsi tutti questi quesiti? È in fondo importante stabilire chi sono le tre persone nella Flagellazione? Quando ci mettiamo di fronte a quest’opera così enigmatica, ci facciamo delle domande; il mistero è sempre piaciuto all’uomo. C’è nella mente dell’essere umano questa calamita che è l’arte e il quadro di Piero della Francesca è un attrattore straordinario, perché è bello, quindi vale la pena indagare.
Perché l’arte stessa, a volte, è indagine e ricerca costante.

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Piero della Francesca, la pala di Brera
Piero della Francesca. Narrazione, ritmo e geometria

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Il bar delle Folies-Bergère, Edouard Manet

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Edouard Manet, Il bar delle Folies-Bergère, 1881-1882
Il malinconico dipinto Bar delle Folies-Bergèr è l'opera che avete votato di più tra quelle dell'artista francese Édouard Manet (1832-1883), nel sondaggio mensile realizzato nella →community di Artesplorando su Facebook. Manet  proveniva da una famiglia benestante e inizialmente il suo desiderio fu quello di diventare un ufficiale di marina. Dopo aver fallito però gli esami di ammissione si rivolse all'arte per la quale tra l'altro dimostrò grande talento fin dalla tenera età. A diciotto anni, entrò così nello studio di Thomas Couture, il più importante pittore accademico del periodo.

Il Bar delle Folies-Bergère rappresenta l'ultimo grande dipinto di Manet, realizzato dal pittore quando ormai era molto malato e quasi invalido. Venne esposto per la prima volta al Salon del 1882 ed era ancora conservato nel suo studio quando Manet morì nel 1883. L'artista qui è riuscito a catturare tutto il senso effimero della vita moderna parigina e, allo stesso tempo, a creare un dipinto che con gli anni entrò nei cuori delle molte persone che lo ammirarono.

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Questo dipinto rappresenta l'interno vivace di una delle sale da concerto più importanti di Parigi, il Folies-Bergère. Questo locale, celebre ritrovo della borghesia parigina, aprì i battenti nel 1869 e la sua atmosfera è stata descritta dai contemporanei come un mix di gioia e svago per dimenticare la noia e le seccature della vita di tutti i giorni. In contrasto con l'atmosfera gioiosa si pone la barista, rappresentata da Manet con uno sguardo enigmatico e innegabilmente malinconico. Possiamo solo intuire i pensieri di questa ragazza, forse stanca del proprio lavoro, delusa dalla propria vita e preoccupata dal mondo ambiguo e inquietante degli avventori del bar.

Il dettaglio di Suzon
Il Folies-Bergère infatti era anche noto come luogo di prostituzione e lo stesso scrittore Guy de Maupassant descrisse le bariste che vi lavoravano come "venditrici di bevande e di amore".
Manet conosceva bene il luogo e vi realizzò un certo numero di disegni preparatori, anche se il lavoro finale fu dipinto nel suo studio. Molto probabilmente è stato lo stesso artista a chiedere a una delle bariste di posare per lui. Sappiamo solo che si chiamava Suzon, ma quei suoi occhi malinconici ci dicono di molto più di mille documenti, testimonianze o parole. E' l'immagine di sogni e speranze che ancora oggi animano tanti giovani in cerca della propria strada.


Manet fece delle modifiche mentre dipingeva l'opera e ce lo ha dimostrato una radiografia della tela in cui possiamo vedere che l'artista inizialmente realizzò la barista con le braccia incrociate sulla sua vita, con la mano destra stretta attorno al polso sinistro. Questo gesto sottolineava ancora di più un atteggiamento di protezione dall'esterno, ma anche di insoddisfazione. L'imprecisione del riflesso della cameriera, spostato troppo a destra nello specchio, inoltre ha suscitato un ampio dibattito. Si perché oltre a Suzon i protagonisti dell'opera sono lo specchio che ci riflette la vita gioiosa del locale e la natura morta sul bancone davanti alla giovane donna che ci presenta oggetti comuni come bottiglie di champagne, liquori, una fruttiera di cristallo piena di arance e un calice con dei fiori.

Il particolare con la natura morta
Nello specchio però intravediamo anche un cliente che si avvicina a Suzon e in questo momento capiamo che anche noi siamo protagonisti del dipinto trovandoci idealmente nella stessa posizione del signore con il cappello a cilindro. Un gioco di riflessi che richiama alla memoria il celebre Ritratto dei coniugi Arnolfini, e numerosi altri dipinti come Las Meninas di Diego Velázquez, e L'assenzio di Edgar Degas.


Pubblico e critica inizialmente trovarono la composizione di quest'opera inquietante. Il rapporto di Manet con l'istituzione artistica a Parigi in effetti è stato molto difficile: il pittore perseguì sempre un tipo d'arte stimolante e sovversiva, incoraggiando l'approccio ribelle del gruppo di artisti un po 'più giovani di lui che in seguito sarebbero diventati gli impressionisti. Eppure Manet si rifiutò di esporre al loro fianco e mantenne sempre un legame con il mondo ufficiale dell'arte, presentando i propri dipinti negli annuali Salon parigini. Una figura quindi per certi versi enigmatica e imperscrutabile, un po' come questo splendido dipinto testamento.

Continuna l'esplorazione

→ Edouard Manet e gli impressionisti
→ La Belle Epoque-seconda parte: Edouard Manet
→ Victorine Meurent, la musa dai capelli rossi

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L'impero delle luci, René Magritte

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René Magritte, particolare dell'opera
L’impero delle luci è senz'altro uno dei dipinti più straordinari realizzati da René Magritte, per la sensazione atmosferica che riesce a comunicare, ed è uno dei quadri che richiama di più gli ideali surrealisti. Venne realizzato da Magritte nel 1954, usando la tecnica dei colori a olio su una tela di 146 per 114 centimetri. In realtà esistono diverse versioni di questo dipinto: la prima, del 1950, conservata nel Museum of Modern Art di New York; la seconda, del 1954, esposta al Musées Royaux des Beaux-Arts in Belgio; una terza, opera realizzata nel 1967 e conservata in una collezione privata.
Quella di cui parlaremo è del 1954 ed è oggi esposta presso la Collezione Peggy Guggenheim a
Venezia.

L’immagine è quasi fin troppo semplice, e sicuramente vi domanderete perché riesce tanto ad affascinare. Apparentemente vediamo una villetta che sembra un po’ isolata nel verde, immersa in una profonda e totale oscurità. Le uniche cose che attenuano il buio, sono delle luci artificiali provenienti dall’interno di alcune camere della villetta e da un lampioncino che rischiara il giardino esterno e il laghetto antistante. A un primo sguardo, ci pare una perfetta raffigurazione di un normale paesaggio con dettagli quasi fotografici.

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Magritte realizza un accostamento tra momenti temporali diversi: guardando il dipinto con più attenzione viene subito da chiedersi se è giorno oppure notte. Infatti potete notare un cielo molto luminoso, percorso da nuvole bianche, che pare proprio mattutino. Contro questo cielo azzurro e rassicurante si stagliano però le masse nere e buie degli alberi, accentuati ancora di più dalle luci accese, come se fosse già sera o notte. Non è più il paesaggio mattutino che sembra all’inizio, ma qualcosa di ambiguo e molto strano. L’accostamento è inatteso: il cielo è visto di giorno, mentre la metà inferiore, dove c’è la casa con il lampione acceso, è un’immagine notturna. È proprio questa diversità di luci che, passando quasi inosservata, riesce a creare un’atmosfera inedita e affascinante, forse inquietante da vedere perché ci fa pensare a qualcosa di tragico che può accadere da un momento all'altro.


Quest’inquietudine nasce dalla contraddizione tra tutto ciò che conosciamo e di cui siamo certi e ciò che sembra mettere in dubbio le nostre certezze. Questo tipo di associazione ambigua è molto simile alle immagini dei nostri sogni, quando, per esempio, mescoliamo frammenti di oggetti diversi e i confini tra cose distinte svaniscono. È proprio questo il segreto del suggestivo linguaggio figurativo di Magritte. Senza abbandonare i mezzi convenzionali del mestiere di pittore (come i colori ad olio, le tele, la resa esatta dei chiaroscuri e dei particolari della realtà), Magritte mette in dubbio l’abituale percezione di come vediamo il mondo. Alcuni ritengono che una delle due parti del dipinto rappresenti la realtà e l’altra la trasfigurazione della stessa, con al centro il grande albero, filtro della coscienza e della ragione.

René Magritte, l'impero delle luci, 1953–54
Magritte è uno dei principali rappresentanti del surrealismo, ma, come altri artisti belgi, si allontanò definitivamente da questo movimento al termine della Seconda Guerra mondiale. Questa rottura non comportò la rinuncia dell’artista a rappresentare il lato oscuro e misterioso della realtà. Per Magritte il mistero è nella realtà che ci circonda, nelle cose che conosciamo e delle quali siamo abituati a vedere il solito aspetto quotidiano. Il grande genio di Magritte è quello di disporre oggetti comuni in luoghi impensati. Magari li ingigantisce, così da renderli impossibili. Basta un accostamento insolito per rivelarci qualcosa del mondo reale che ha il potere di stupirci e incantarci.


Nel quadro L’Impero delle luci l’artista mise in contrasto il cielo chiaro con la parte oscura della villetta, per farci vedere come un paesaggio ameno possa trasformarsi in qualcosa d’inquietante ai nostri occhi. Per Magritte, come per tutti i pittori surrealisti, l’immagine non è al servizio della riproduzione della realtà, ma è una cosa a sé, esiste in maniera del tutto indipendente rispetto alla cosa che rappresenta. Per esempio: perché unire in una sola e unica scena due momenti così differenti? Magritte interpretava l’opera in questo modo: "Il paesaggio fa pensare alla notte e il cielo al giorno. Trovo che questa contemporaneità di giorno e di notte abbia la forza di sorprendere e di incantare. Chiamo questa forza poesia."


Compito dell’artista, per Magritte, è interpretare la realtà, far emergere la verità nascosta. Il mistero lo troviamo quindi in queste associazioni inaspettate e del tutto preconcette. L’osservatore è invitato a interrogare queste immagini il cui senso gli sfugge, a un primo sguardo. Anche il titolo resta un enigma: L’Impero delle luci non definisce testualmente l’immagine, perché questa non descrive mai un qualcosa di convenzionale. Nelle opere di Magritte non si parla mai di paesaggi, né di ritratti, né di nature morte. Il titolo dell’opera doveva sempre spaesare sufficientemente gli osservatori in modo che si interrogassero sul senso dell’immagine. Era inoltre necessario che il titolo introducesse a una dimensione poetica, che facesse lavorare l’immaginazione dell’osservatore, sia con ciò che mostra sia con ciò che non mostra, ma suggerisce. Se la poesia di un’opera d’arte sta nella sua capacità di turbarci, di farci pensare, di estraniarci dalla realtà e di sorprenderci, allora questo dipinto di Magritte è un capolavoro assoluto e a noi spettatori non resta che perderci in esso.

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→ René Magritte
→ Surrealismo, tra inconscio e politica alla ricerca di un'esistenza migliore
→ René Magritte ritrattista

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Autoritratto sulla Bugatti verde, Tamara de Lempicka

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Particolare dell'opera
Poche opere come l’Autoritratto sulla Bugatti verde del 1929 ben rappresentano Tamara de Lempicka e l’epoca in cui visse il suo successo, nel pieno della liberazione femminile dal potere totalitario maschile. Celebrata dagli uomini già nel 1907, da Filippo Tommaso Marinetti nel 1908 e dalla successiva estetica futurista, solo nei primi anni venti l’automobile si confermò come l’oggetto necessario per una donna che si volesse sentire moderna. Juliette Bruno-Ruby scrisse che l’auto è "il simbolo della liberazione della donna, che ha fatto, per rompere le sue catene, molto più di tutte le campagne femministe e le bombe delle suffragette. Dal giorno in cui ha preso in mano il volante, Eva è diventata uguale ad Adamo".

L’opera Autoritratto sulla Bugatti verde è un dipinto a olio su tela, che con i suoi 35 per 27 centimetri rappresenta uno dei ritratti più piccoli di Tamara che nel tempo si guadagnò titoli come "Venere moderna", "pittrice delle donne" e altro ancora. In questo e molti altri dipinti l’artista utilizzò una seducente illuminazione, simile a quella che vediamo in Caravaggio, e un equilibrio perfetto di delicatezza e forza, come se il soggetto fosse dipinto con l’occhio di uno scultore. La pittrice si raffigurò in caschetto e guanti di daino alla guida di una Bugatti che in realtà non possedette mai, rivendicando con spavalda sicurezza un ruolo che fino ad allora era stato solo maschile.

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Dietro a questo autoritratto c’è anche una storia legata al mondo dei giornali e della moda. La direttrice di Die Dame, una rivista tedesca di moda, incontrò Tamara a Monte Carlo nel 1929, mentre la donna era in vacanza dopo il divorzio dal primo marito. La direttrice, avendo visto la Lempicka alla guida della sua macchina, le commissionò un autoritratto per la copertina di un numero della rivista. Tamara colse al volo l’occasione e nacque così questa personificazione di una donna moderna, indipendente, vagamente annoiata, con lo sguardo fermo e altero. Nel dipinto l’artista cambiò le carte in tavola per rappresentarsi al meglio: sostituì la sua Renault gialla con una Bugatti verde, perché era un tipo di macchina molto più prestigiosa all’epoca.

Tamara de Lempicka, Autoritratto sulla Bugatti verde,
1929
Inoltre, nonostante sia un autoritratto, Tamara non si rappresentò in maniera fedele alla realtà, ma costruì un inno alla Venere moderna che avrebbe poi ispirato l’immaginario di generazioni di donne emancipate. Facendo questo autoritratto per la copertina di una rivista ampiamente distribuita, la nuova idea di bellezza pensata da Tamara diventò il riferimento per una moderna generazione di donne. A prima vista, lo sguardo glaciale di Tamara cattura immediatamente la nostra attenzione in
questo autoritratto. La figura si impone per la sua prepotenza visiva, tutto il corpo è lanciato in avanti con l’automobile, mentre la velocità e l’elettricità scorrono davanti a noi. Le proporzioni vengono stravolte, la gamma cromatica è limitata a due o tre colori, le ombre sono decise tanto che separano quasi a metà il viso. La donna si prende un momento per guardarci con i suoi occhi grandi, dalle sopracciglia sottili e perfettamente delineate. Le labbra sono carnose e rosso fuoco e tutto di questo volto ci trasmette emancipazione.


Da un punto di vista tecnico l’autoritratto è il frutto degli insegnamenti nei suoi viaggi in Italia: lo scorcio dal basso all’alto è caratteristico di Veronese, la torsione del corpo è traccia distintiva del Pontormo e l’allungamento anatomico del →Parmigianino. La decisione del segno, e l’utilizzo dei colori brillanti, solidi, caldi derivano dalla lezione del pittore simbolista →Maurice Denis che fu uno dei maestri dell’artista. La Lempicka assimilò anche un’altra lezione fondamentale da Denis: un’opera pittorica deve concentrarsi sulle decorazioni e gli ornamenti più che sulla restituzione naturalistica dell’oggetto ritratto. Grazie a questo insegnamento, l’artista diventò la ritrattista più inseguita dalla ricca borghesia e dall’aristocrazia europea che da lei si fece ritrarre in atteggiamenti sensuali ed estremamente plastici.


Nei ritratti della Lempicka la donna fatale, che inebria con una nuvola di profumo e scompiglia la vita all’uomo, prende forma così come nelle pellicole cinematografiche. Le automobili diventano oggetto dell’estetica avanguardista, dei futuristi di Marinetti in particolare, ed è proprio alla guida dell’automobile che le donne dimostrano la loro emancipazione. In tempi recenti però donne e motori sono finiti per diventare l’ennesimo cliché maschilista, in cui l’automobile finì per rappresentare l’allegoria della donna che va guidata e a cui basta solo un po’ di benzina per andare avanti. In questo ritratto Tamara non riflette soltanto come vede se stessa, ma come la società vede la donna moderna. Lei si dipinge come un oggetto di consumo, in un modo elegante, apparendo bella, truccata con cura: il suo corpo nella Bugatti verde è come un manichino.


Quindi una serie di domande ci vengono spontanee osservando questo dipinto: Tamara qui è padrona o serva? È autista o accessorio dell’automobile? È potente perché si ritrae bella o è vittima perché dipinge immagini che rispecchiano il desiderio della società dell’epoca? È costretta a realizzare queste opere perché altrimenti, essendo donna, il pubblico e la critica non l’avrebbe considerata? Una cosa è certa, troppo spesso questa artista viene ricordata per i vestiti che portava o per le sue stravaganze piuttosto che per le sue opere.

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→ Tamara de Lempicka

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Autoritratto con collana di spine, Frida Kahlo

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Nonostante le piccole dimensioni che si aggirano intorno ai sedici centimetri di larghezza per ventiquattro di altezza, questo dipinto cattura moltissimo il nostro interesse, dal momento che contiene così tanti simboli legati a Frida Kahlo. E il mistero legato ai simboli è proprio una delle maggiori calamite per la curiosità dell’uomo. Si tratta di un autoritratto, il genere preferito dall’artista, realizzato nel 1940. Frida si dipinse in una posa frontale, forse per migliorare l’immediatezza e l’impatto della sua presenza magnetica nei nostri confronti.

L’artista messicana in quest’opera si trova di fronte allo spettatore e spicca su uno sfondo realizzato con diverse grandi foglie verdi e una sola foglia gialla, proprio dietro di lei, quasi a volerne sottolineare la presenza. Poi colpiscono la nostra attenzione una serie di dettagli come le spine intorno al collo della donna o la scimmia ragno, o il gatto nero o infine il colibrì appeso all’altezza della gola. Tutto è reso ancora più straniante e surreale dall’espressione della pittrice che è calma e solenne come se stesse sopportando pazientemente il dolore, la sua attenzione è rivolta verso il proprio mondo interiore e non si cura di noi spettatori.

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Ma perché Frida Kahlo ha messo così tante creature in questo dipinto? Evidentemente non voleva dipingere una scena realistica, ma questi animali sono simboli usati per esprimere i suoi sentimenti. La pittrice infatti si serve di loro come fossero le parole di un linguaggio dell’anima. Quindi che cosa ci vuole comunicare attraverso questi simboli? È presto detto. L’artista realizza nel dipinto la corona di spine di Cristo che indossa a mo’ di collana, presentandosi in questo modo come un martire cristiano. Le spine che feriscono il suo collo facendo uscire sangue, sono il simbolo del dolore che la donna patì a seguito del divorzio da Diego Rivera. Appesa alla spinosa collana vediamo un colibrì, simbolo di libertà e vita, ma in questo caso è morto e le sue ali tese fanno eco alle sopracciglia unite di Frida. Nella tradizione popolare messicana, i colibrì morti sono utilizzati come amuleti per portare fortuna in amore.


Il colibrì che solitamente è colorato e sempre in bilico sopra fiori qui è nero e senza vita. Questo elemento potrebbe anche alludere a Frida stessa che trascorse gran parte della sua vita sopportando il dolore fisico dopo l’incidente d’autobus avvenuto quando aveva diciotto anni. Sulla spalla sinistra della pittrice c’è un gatto nero con le orecchie abbassate e portate indietro: simbolo di sfortuna e di morte sembra attendere di avventarsi sul colibrì, guardando verso di noi con i suoi profondi occhi giallo-verdastri. Sulla spalla destra invece vediamo il simbolo del demonio, la sua scimmietta ragno, un regalo di Diego, che tiene una parte della corona che le circonda il collo: vuole aiutarla a liberarsene o invece la vuole stringere ancora di più? L’animale può certamente rappresentare una delle sue scimmie da compagnia, ma forse simboleggia il suo bambino mai nato. Fatto sta che questo tipo di animale si trova in molti autoritratti di Frida Kahlo ed è spesso posizionato sulla sua spalla. È possibile che il gatto e la scimmia rappresentano due facce della sua personalità.


Intorno a lei e tra i capelli ci sono delle farfalle che evocano la resurrezione e del tessuto viola,
forse un foulard, che disegna una figura a otto orizzontale richiamando il simbolo dell’infinito.
Come spesso capita nei suoi dipinti, Frida utilizza le foglie di una grande pianta tropicale come
sfondo riferendo alla vegetazione tipica dell’America del sud. Una forma arcuata e arrotondata si ripete in tutta la composizione: la vediamo nelle ali del colibrì, nelle forme sulle foglie, nelle sopracciglia, nei capelli, e negli insetti. Questa forma arcuata e ripetuta unifica tutto il lavoro collegando la figura con l’ambiente.

Frida Kahlo, Autoritratto con collana di spine, 1940
Da un punto di vista della struttura, il ritratto utilizza un equilibrio simmetrico con la Kahlo posta al centro della composizione a cui sono allineati il colibrì, le sopracciglia e i capelli che potremmo dividere in due metà perfettamente simmetriche. L’ambiente è meno equilibrato con le due creature diverse dietro alle spalle e il posizionamento casuale delle foglie. Lo sfondo utilizza colori per lo più freddi mentre sulla figura della donna sono principalmente caldi, con le guance rosa e le labbra rosse.
L’artista prima di quest’opera aveva dipinto un autoritratto che era destinato al suo amante del momento, il fotografo Nickolas Muray. Tuttavia, dopo il divorzio da Diego, dovette vendere il quadro per raccogliere i soldi necessari per pagare un avvocato divorzista. In sostituzione quindi realizzò questo autoritratto da donare a Muray.


Autoritratto con collana di spine è un’opera estremamente significativa perché in questo piccolo capolavoro ritroviamo tutti gli elementi dell’universo della Kahlo presenti in molti dei suoi autoritratti: gli animali che la circondano, il riferimento alle tradizioni messicane e il suo rapporto con il marito Diego Rivera. Ma non solo. L’artista infatti realizza un dipinto sulla sua sofferenza. Questo aspetto segnò gran parte della vita di Frida, ma è anche l’elemento più commovente e nel quale riusciamo ad immedesimarci. Chi di noi infatti non ha mai provato dolore? Un dolore che può essere stato fisico o spirituale, dovuto a un intervento, a un incidente, a una delusione d’amore, a una perdita o a un abbandono. Ecco che questa donna dallo sguardo magnetico e dall’apparente disinteresse per i propri difetti o per il proprio aspetto ci appare, vicina, quasi familiare. Forse perché lei ha saputo esprimere la propria anima e farcene dono attraverso le sue piccole e preziose opere.


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→ L'autoritratto infinito - Frida Kahlo
→ Frida Kahlo
Frida - il film

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Ceramica greca. Dal Protogeometrico al Protoattico

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La ceramica, essendo indistruttibile, era impiegata per produrre oggetti dagli svariati usi e per questo motivo costituisce la fonte più cospicua e fondamentale per conoscere le civiltà del passato. Nel caso specifico della Grecia, ci restituisce quasi interamente l’immagine della pittura greca.
L’arte ceramica greca ha una storia il cui inizio risale al secondo millennio a.C. quando si cominciò a fabbricare i vasi mediante l’impiego del tornio, uno strumento che consentì la realizzazione di opere più raffinate.

Il repertorio figurativo della pittura vascolare cambia completamente nel X secolo a.C., quando cominciano a essere utilizzati  motivi "geometrici": triangoli, rosette, linee ondulate e svastiche uguali nello spessore, cerchi e semicerchi rigorosamente tracciati con il compasso, mentre lo stile naturalistico tipico dell’arte cretese e micenea fatto di animali marini e piante, viene completamente ridotto al minimo come è visibile nell’Anfora del Ceramico (il quartiere di Atene con le botteghe artigiane): qui la figura del cavallo non solo è resa quasi come un simbolo attraverso la raffigurazione con zampe filiformi e il collo arcuato, ma è subordinata al resto della decorazione.

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Ci troviamo nel periodo cosiddetto Protogeometrico che inizia sullo scorcio dell’XI sviluppandosi per tutto il X secolo: una produzione fatta di vasi con pareti sottili, orlo spesso, piede espanso e pancia ampia, con una netta articolazione nelle varie parti compositive. Il vaso veniva studiato nella forma e nella superficie al fine di calcolare quanti motivi geometrici scelti potessero costituire la decorazione complessiva perfettamente aderente alla forma, la quale tende da globulare a ovoidale con un progressivo snellimento.

Cratere di Aristonothos
Bisognerà attendere il Periodo Geometrico tra il IX e l’VIII secolo a.C. per la ricomparsa di un repertorio figurativo con la figura umana che inizialmente è raffigurata mediante una semplice silhouette successivamente arricchita da una linea di contorno e dettagli interni. Inoltre, le figure umane figuravano anche sulle anse mentre quelle animali, come prese per i coperchi. Per quanto concerne la tipologia, molti dei vasi del periodo geometrico erano di tipo funerario, dunque impiegati per contenere le ceneri dei defunti, oppure come doni votivi. La struttura del vaso è sempre più articolata, slanciata e armonica per forme di piccole dimensioni per arrivare alle grandi dimensioni come anfore e crateri usati come segnacolo per le tombe a cremazione: un monumento funerario dove sono visibili le capacità artistiche, l’abilità tecnica, il gusto raffinato dei ceramisti e dei ceramografi.

Olpe Chigi
Ma i vasi più importanti erano quelli dalle grandi dimensioni infatti, lavorati in parti separate che venivano unite mediante argilla liquida. La forma dipendeva dal sesso della persona a cui il vaso era destinato, pertanto agli uomini spettava il cratere poiché dovevano mescere l’acqua e il vino per il banchetto, mentre alle donne andava l’anfora, dato che avevano il compito delle funzioni domestiche. La superficie esterna era ricoperta dalla decorazione disposta secondo ordini a riquadri o sovrapposti, con il frequente tema del defunto collocato sul feretro attorniato da cortei funebri insieme a scene di naufragi e battaglie marittime. La raffigurazione era di tipo bidimensionale senza alcuna distinzione dei piani prospettici.

Cratere attico geometrico figurato
Il Cratere attico geometrico figurato conservato al Metropolitan Museum di New York, è uno dei vasi più rappresentativi dell’eccellenza raggiunta dalla ceramica nell’VIII secolo a.C. Su di esso è raffigurato il defunto su letto funebre con ai lati la celebrazione rituale del lutto; a lato di una delle due anse è disegnato un uomo isolato, mentre il registro inferiore riporta scene della vita del defunto in chiave epica, un uomo potente avvezzo a tali imprese: c’è una nave che ha toccato terra poiché le vele sono ammainate e i rami alzati, l’equipaggio è in parte sceso e si appresta all’assalto. 

L’anfora dell’Officina del Dipylon 
Altra opera di questo tipo è L’anfora dell’Officina del Dipylon che prende il nome dalla necropoli in prossimità della porta monumentale della città di Atene. Presenta anch’essa una scena funebre ma con figure in pose statiche che "si muovono" compiendo lo stesso gesto ripetutamente.
Questa produzione denota una certa unità stilistica nonostante vi siano officine sparse in tutto il mondo greco, ovvero in Beozia, Attica, Corinto, Cicladi, Argolide, Cipro, ecc. ecc., che, a loro volta, presentano un proprio repertorio. Con l’aumento dei contatti con la Siria, l’Egitto, la Fenicia e la Mesopotamia, la ceramica di stile geometrico subisce una svolta tra la fine dell’VIII e il VII secolo a.C. e comincia così a risentire gli influssi orientali.

Pittore di Analatos, hydria protoattica
La prima fabbrica che presentò per prima un proprio repertorio figurativo fu Corinto che, tra il 725 e il 700, creò lo stile Protocorinzio: vasi di piccole dimensioni quali alabastra, oinochòe e aryballoi dai temi storici e mitologici decorati con figure disegnate a silhouette o a contorno con l’uso di colori accesi come il rosso, oppure figure nere ritoccate con il bianco e/o il rosso. La ceramica protocorinzia si diffuse nei mercati esteri per poi subire un lento declino fino alla scomparsa intorno alla metà del VI secolo a.C. Un esempio del tardo corinzio è →l’Olpe Chigi, un vaso di piccole dimensioni rinvenuto in una tomba nei pressi di Veio, la cui decorazione è articolata su più fregi e costituisce una sorta di campionario delle tecniche usate: il giudizio di Paride, scene di caccia al leone, opliti marcianti, cani che inseguono stambecchi e altre scene di caccia.

Pittore di Polifemo, Ulisse e Polifemo,
dettaglio di anfora protoattica in stile bianco e nero
Inoltre, si delineano figure di decoratori con una spiccata creatività tra i quali abbiamo il Pittore di Bellerofonte, cosiddetto dalla raffigurazione di Bellerofonte su Pegaso che combatte una Chimera: un capolavoro che segna perfettamente il passaggio di tematiche da animali e vegetali a mitologiche che successivamente si arricchiranno di elementi militari. Il lungo processo mediante il quale si verificò la rottura con il formulario della tradizione geometrica e la conseguente apertura agli influssi orientali comportò, a partire dalla fine dell’VIII secolo a.C., la diffusione della produzione Protoattica, così chiamata per indicare il risveglio dell’Attica come posizione egemone. Comincia la ricerca di forme e decorazioni nuove. Momento di grande splendore vi fu negli ultimi anni del VII secolo a.C. quando la gamma cromatica si ampliò e si affinò il gusto compositivo. Artisti di eccezionale talento furono il Pittore di Analatos, così chiamato per una Hydria rinvenuta dell’omonima località, attivo tra VIII e VII secolo a.C.; il Pittore di Polifemo per un’anfora rappresentante Ulisse in atto di accecare il Ciclope, attivo nel 660 circa; Aristonothos che formò un Cratere che aveva da un lato la raffigurazione di una battaglia navale con soldati e navi da guerra e dall’altro, l’accecamento di Polifemo da parte di Odisseo.

di Mariapia Statile

Mi chiamo Mariapia Statile e sono un’archeologa con la passione per la divulgazione culturale, non a caso adoro l’Archeologia, l’Arte e la Fotografia. La mia regola fondamentale è la curiosità poiché come affermava Einstein: "Non ho particolari talenti sono solo appassionatamente curioso"



La ronda di notte, Rembrandt

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La Ronda di notte anche noto come La guardia civica in marcia, è un dipinto a olio su tela di 350 per 430 centimetri circa, realizzato da Rembrandt nel 1642 e conservato al Rijksmuseum di Amsterdam. Considerato uno dei maggiori capolavori del maestro olandese il dipinto rappresenta in primo piano il capitano Frans Banning Cocq, vestito di nero con una cintura rossa e il suo luogotenente Willem van Ruytenburgh, vestito di giallo con una fascia bianca. Il quadro è un’istantanea del momento in cui il capitano dà l'ordine di cominciare la marcia,verso un luogo d'azione o di ritrovo non precisato.

Il dipinto fu commissionato intorno al 1639 dal capitano Frans Banning Cocq e dai diciassette membri della milizia civica. Diciotto nomi infatti emergono su uno scudo, dipinto sullo sfondo in alto quasi in posizione centrale, ma sono ben trentaquattro i personaggi che appaiono nella scena di marcia. Tra i componenti della gilda di Cocq emerge anche un uomo sullo sfondo, in cui si è voluto vedere la raffigurazione ad autoritratto dell’artista. Rembrandt fu pagato 1.600 fiorini per l’opera, una cifra considerevole per il periodo e questo dipinto fu seguito da altri sette simili raffiguranti le milizie
e commissionati durante quel periodo a diversi artisti.

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Il dipinto fu ordinato per essere appeso nella sala del banchetto della nuova sede degli archibugieri di Amsterdam. Alcuni hanno suggerito che l'occasione per questa commissione a Rembrandt e per la serie di ulteriori commissioni date ad altri artisti fu la visita della regina di Francia, Maria de' Medici, avvenuta nel 1638. Anche se la donna all’epoca era esiliata dal suo regno per ordine del figlio Luigi XIII, l’arrivo della regina fu accolto con grande sfarzo e trepidazione.


Il dipinto, completato proprio al culmine del Secolo d'Oro olandese, è diventato celebre per tre caratteristiche principali: le sue dimensioni colossali, l'uso efficace di luci e ombre e la percezione del movimento in quello che tradizionalmente sarebbe apparso come uno statico ritratto militare. Pochi sanno che il titolo nasce da una sbagliata interpretazione, infatti non si tratta di un’opera ambientata di notte, ma di giorno. Per gran parte della sua esistenza, il dipinto è stato ricoperto da una vernice scura, che ha generato l'impressione errata che si trattasse di una scena notturna. Questa vernice è stata rimossa solo a seguito di un restauro avvenuto nel 1940.

Rembrandt Harmenszoon van Rijn, ronda di notte, 1640-42
Con l'uso efficace della luce del sole e delle ombre, Rembrandt conduce l'occhio ai tre personaggi più importanti tra la folla: i due signori in centro, e la piccola bambina sullo sfondo, spostata a sinistra. L’artista inserì i simboli tradizionali degli archibugieri in modo naturale, attraverso l’ausilio della ragazzina che li trasporta sullo sfondo. Lei è una sorta di mascotte: ha gli artigli di un pollo morto
appesi alla sua cintura, l’elsa di un pugnale dietro il pollo e porta con sé il calice della milizia, tutti oggetti che rappresentano gli archibugieri. L'uomo di fronte a lei indossa un copricapo di foglie di quercia, altro simbolo tradizionale degli archibugieri. Il pollo morto ha anche lo scopo di rappresentare un avversario sconfitto, mentre il colore giallo, molto presente nel dipinto, è spesso associato alla vittoria.

Un dettaglio dell'opera
Una delle spiegazioni del dipinto ipotizza che Rembrandt vi abbia nascosto diverse chiavi di interpretazione, come era comune tra gli artisti di maggior talento all’epoca. Così la Ronda di Notteè simmetricamente divisa, in primo luogo per illustrare l'unione tra i protestanti olandesi e i cattolici olandesi, e in secondo luogo per evocare lo sforzo bellico comune contro gli spagnoli. Seguendo questa ipotesi il capitano più alto al centro del quadro simboleggia la leadership protestante olandese, fedelmente sostenuta dai cattolici olandesi, rappresentati dal luogotenente più basso, vestito di giallo. Inoltre, sono stati concepiti tutti i caratteri di questo dipinto di presentare doppie letture.

Un dettaglio dell'opera
Nel 1715, al momento della sua rimozione dalla sede degli archibugieri per essere trasferito al Municipio di Amsterdam, il dipinto fu tagliato su tutti e quattro i lati. Ciò si rese necessario, presumibilmente, per adattare le dimensioni del quadro allo spazio tra due colonne nella sua nuova collocazione ed era una pratica piuttosto comune prima del XIX secolo. Questa mutilazione determinò la perdita di parte del dipinto e di alcuni dettagli tra cui la parte superiore dell'arco, una
balaustra, e il bordo del gradino in basso. Questa balaustra e il gradino furono fondamentali strumenti visivi utilizzati da Rembrandt per dare al quadro un’idea di movimento in avanti. Una copia del dipinto eseguita da Gerrit Lundens nel XVII secolo e oggi custodito alla National Gallery di Londra e mostra la composizione originale.

Un dettaglio dell'opera
Uno degli aspetti più importanti della Ronda di notte è che le persone raffigurate sono di dimensioni quasi reali: Rembrandt dà così l'illusione che i personaggi debbano saltare fuori dalla tela ed entrare nel nostro mondo reale. Un errore che spesso si fa parlando di questo quadro è che il declino della carriera artistica di Rembrandt sia cominciato con l’accoglienza negativa che secondo alcuni ebbe il dipinto, da parte dei contemporanei dell’artista. Questo falso mito non ha alcuna origine provata in quanto non vi è alcuna traccia di critica nei confronti del dipinto nel corso della vita di Rembrandt, e il capitano Cocq commissionò anche un acquerello all’artista per la sua collezione personale. È più probabile che il calo di popolarità dell'artista non fu il risultato delle reazioni a nessuna sua opera, ma piuttosto avvenne a causa del cambiamento nel gusto dell’epoca. Nel corso del 1640 i ricchi mecenati infatti cominciarono a preferire i colori vivaci e i modi graziosi che erano stati avviati da pittori come il ritrattista fiammingo →Anthon Van Dyck.

La copia del dipinto eseguita da Gerrit Lundens nel XVII
La Ronda di notte, come spesso avviene anche ad altre icone della storia dell’arte, ha subito diversi atti di vandalismo. Il primo episodio di questo genere avvenne il 13 gennaio del 1911 quando un uomo tagliò il dipinto con la lama di un calzolaio. L’opera fu poi oggetto delle taglienti attenzioni di un insegnante disoccupato, molto probabilmente uscito di senno, che il 14 settembre del 1975 lacerò il dipinto con un semplice coltello: i colpi profondi e violenti, causarono ben tredici tagli, alcuni dei quali erano lunghi perfino ottanta centimetri. L’opera fu restaurata con successo grazie alle varie copie esistenti che ne permisero la reintegrazione fedele e fu riesposta al pubblico dopo quattro anni. I risultati di questo gesto sconsiderato sono però ancora visibili analizzando il dipinto con uno sguardo ravvicinato.

Un dettaglio dell'opera
L'uomo non fu mai condannato perché considerato folle e si suicidò in un ospedale psichiatrico nell’aprile del 1976. Infine il 6 aprile 1990, un uomo spruzzò dell’acido sulla pittura attraverso uno spruzzino che tenne nascosto finché non si trovò di fronte al dipinto. Le guardie di sicurezza intervennero prontamente e si procedette immediatamente a risciacquare con acqua la tela. L'acido per fortuna penetrò solo lo strato di vernice del dipinto senza danneggiare i colori sottostanti e l’opera poté così essere facilmente restaurata. Dopo questo ultimo ed ennesimo evento, la Ronda di notte venne protetta da un particolare pannello di cristallo antiproiettile.


Samuel von Hoogstraten, allievo di Rembrandt quando dipinse una copia della Ronda di notte, capì immediatamente la grandezza dell’opera, usando queste parole: "È così pittorica nella concezione, così impetuosa nei movimenti e così fortemente espressiva che i quadri che gli figurano accanto nella sala sembrano al confronto carte da gioco". La sensazione di fronte a questo imponente quadro è quella che Rembrandt, quasi come un moderno fotografo, abbia catturato sulla tela un’istantanea, senza che i protagonisti di tale scatto se ne rendessero conto. Si può affermare senza dubbio che per Rembrandt la pittura rappresentò la sua stessa vita, esaltata da giovane, bulimica negli anni di maggior popolarità, triste dopo il tracollo finanziario causato anche dalla sua smania collezionistica. Questo grande artista sintetizzò in modo rappresentativo la sua epoca e ne raccontò la profonda agitazione con tale vigore da essere diventano un simbolo che la rappresenta: il Secolo d'Oro, un lungo periodo di scontri, fra guerra e pace, durante il quale il commercio, le scienze e le arti olandesi furono tra le più acclamate del mondo.

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→ Rembrandt van Rijn e il Secolo d’oro
→ Paesaggi - paesaggio in tempesta
→ Rembrandt van Rijn grande ritrattista

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Capolavori della miniatura - la Bibbia di Federico da Montefeltro

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Attavante degli Attavanti, martirio dei sette fratelli ebrei
La Bibbia di Federico da Montefeltro, oggi conservata alla Biblioteca Apostolica Vaticana, è uno dei capolavori della produzione libraria di tutti i tempi, una vera icona della miniatura al massimo del suo splendore. Questa splendida Bibbia venne commissionata dal signore di Urbino nel 1475 per andare ad aggiungersi ai molti libri custoditi nella sua celebre biblioteca. Ma Federico da Montefeltro commissionò in questo caso un gioiello unico, destinato a essere ricordato come il libro più bello della sua epoca.

I nomi che stanno dietro all'opera già spiegano la sua perfezione e magnificenza. Vespasiano da Bisticci, libraio tra i più noti e raffinati d'allora a Firenze, è l'editore a cui fu chiesta la realizzazione di questo libro. Tutto il programma iconografico che decora il testo miniato invece è opera del grande Domenico Ghirlandaio a cui si affiancarono una decina di miniatori accuratamente prescelti: Francesco d'Antonio del Chierico, Attavante degli Attavanti, Francesco Rosselli, Benedetto e Davide Ghirlandaio. Il testo vide la luce proprio a Firenze, centro della rivoluzione rinascimentale, e venne realizzato in soli due anni.

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Quando i due volumi che compongono la Bibbia giunsero a Urbino, lo stupore fu grande alla corte del Duca: a colpire in maniera particolare i cortigiani d'allora furono le dimensioni straordinarie delle pagine che misurano 47 x 63 cm e che richiesero un quantitativo tale di pergamena equivalente a un intero gregge di oltre 500 pecore. Per non parlare della spesa sostenuta nella realizzazione della Bibbia: più di 30 mila ducati,una cifra con cui si poteva erigere anche una cattedrale. Insomma numeri da far girare la testa.


Tutta la Bibbia è decorata da 35 bellissime scene miniate: non miniature quindi, ma vere e proprie opere di pittura incorniciate in preziosi passepartout di pergamena che ci ricordano l'arte di grandi protagonisti della pittura come Piero della Francesca e Paolo Uccello.Un testo miniato che, una volta aperto, ci porta l'eco dello splendore rinascimentale italiano.

Fonti: grandiopere.fcp.it/facsimili/la-bibbia-di-federico-da-montefeltro

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Riva degli Schiavoni, Canaletto

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Canaletto, La Riva degli Schiavoni, 1730
Quante volte Canaletto ha dipinto questa veduta: in piccolo, in medio, in grande, secondo le tasche dell'acquirente, che poteva essere, nobile, borghese, ambasciatore o console. Come il console Smith, collezionista e mercante di quadri e vedute, nonché mecenate dell’artista: Smith aveva trovato a Venezia la sua seconda patria e in laguna vi morì quasi novantenne. Ma il cliente interessato a,una veduta come questa poteva anche essere un viaggiatore straniero del "Grand Tour" in Italia per ammirare le bellezze antiche e moderne dello stivale e che si porta via la tela come souvenir. E il successo di Canaletto sta anche nella sua capacità di dipingere splendide cartoline ricordo del viaggio in Italia, tanto amata dagli stranieri.

La Riva degli Schiavoni, conosciuta anche come Il Molo verso la Riva degli Schiavoni con la colonna di San Marco è comunque modello di un enorme numero di altri capolavori. Le barche e i personaggi a volte cambiano, e cambia anche il punto di vista catturato con la camera ottica, ma il risultato è sempre straordinario e perfetto. Il dipinto preso qui in considerazione fu realizzato da Canaletto nel 1730 e si tratta di un olio su tela delle dimensioni di 58 per 101 centimetri circa conservato nella collezione Egerton a Tatton Park in Gran Bretagna.

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Altre versioni simili sono quella del 1740, conservata nella Pinacoteca del Castello Sforzesco di Milano oppure quella del 1745 circa, conservata alla Scottish National Gallery di Edimburgo. Canaletto con le sue vedute riprodotte più e più volte per i viaggiatori del "Grand Tour" creò tutti i presupposti per la nascita del souvenir, una vera macchina di produzione di "cartoline" che potevano essere comodamente portate a casa per conservare un ricordo della splendida città lagunare. Venezia perse potere commerciale ed economico nel corso XVIII secolo, ma senz’altro acquisì un fascino ulteriore, decadente che in fondo ancora oggi la contraddistingue.

La versione della Pinacoteca del Castello Sforzesco di Milano
Soffermiamoci sui dettagli. Lo spazio è scandito dal cielo, dalle acque e dalla meraviglia di Venezia, fissati come in un’immagine ad alta definizione in cui non ci sfugge nessun particolare. Il verde della laguna che si riflette sul cielo, le imbarcazioni vicine e lontane, il chiacchiericcio delle persone sulla riva, il blocco roseo inondato dal sole di Palazzo Ducale, sulla sinistra. Vicino alla colonna di San Marco due preti dal cappello tondo stanno conversando, forse uno dei due è il prete rosso Antonio
Vivaldi, compositore e violinista. Un gruppo di signori col cappello a tricorno fanno capannello, altri hanno la tipica parrucca bianca. Un cagnetto solitario e scodinzolante si aggira in primo piano vicino alla riva: è un animale che ricorre spesso in molte opere di artisti veneti come Tiziano e Giorgione.

Un dettaglio dell'opera
Le vesti settecentesche delle persone sulla riva sono tutte color pastello o grigio-marrone: Venezia non partecipa all'allegra policromia degli abiti di Parigi e di Londra. Anche le gondole sono rigorosamente tutte nere. Le ombre lunghe e il sole che illumina la riva ci fanno capire che la scena fissa la città in una mattina di vivace e laborioso fermento. La luce mattutina esalta i particolari architettonici del prezioso balcone quattrocentesco di Palazzo Ducale e gioca tra i candidi archi della loggia sopra il portico. La tela è un’istantanea di vita e di quotidianità che ci fa comprendere quanto poco sia cambiata Venezia in oltre trecento anni, da un punto di vista architettonico. Ma c’è di più: in questa come in molte altre opere di Canaletto abbiamo la sensazione della temperatura dell’aria, del suo grado di umidità, della leggera brezza che muove quest’aria.

Tutte sensazioni che nessuna fotografia moderna riesce a ridarci. Chi osserva una fotografia sa che di fotografia si tratta, ma chi guarda un’opera di Canaletto come questa e si sofferma con attenzione, avrà la sensazione di percepire la realtà concretamente. Il segreto sta nel dipingere con un tratto libero, semplificato che sarà poi rielaborato dalla mente di chi osserva, generando un’impressione di verità. Lo stesso approccio che utilizzerà Claude Monet oltre un secolo dopo che con Canaletto condivise il senso della luce e la semplicità del segno che la rappresenta. È quindi il cervello che
ricompone l'immagine, perché come ben sappiamo noi non vediamo con gli occhi ma con la mente. E tutto ciò ci restituisce un'immagine più vera dello scatto fotografico.


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→ Canaletto e la conquista della luce
→ Canaletto e la pittura dai tratti essenziali

Questo post si avvale di contributi bibliografici vari che potete consultare qui

Le violon d'Ingres, Man Ray

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Le donne per Man Ray hanno sempre rappresentato la luminosità della vita, diventando di volta in volta ombre e luci, realtà e fantasia. L’artista s’innamorò sempre di donne che seppero ispirarlo scegliendole in funzione della sua arte, non solo oggetto del desiderio, ma anche parte integrante del processo creativo. Le donne furono passione che alimentò la sua ispirazione. E di passioni e ispirazioni Ray ne ebbe molte: dalla poetessa Adon Lacroix, alla celebre cantante Kiki de Montparnasse, alle modelle Adrienne e Juliet Browner.

Ma quando si parla di Le Violon d’Ingres si parla di Kiki de Montparnasse, vero nome Alice Prin, cantante e cabarettista dal carattere impulsivo e impetuoso, regina della Parigi caotica tra le due guerre, fonte d’ispirazione di alcune fotografie di Man Ray entrate nella storia dell’arte. Kiki non conobbe mai il padre e fu abbandonata anche dalla madre che in pratica si disinteressò sempre della sua vita, il suo passato quindi affonda nella povertà più nera, nell’assenza totale di affetti familiari.

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Forse è anche per questo che Kiki fu una creatura istintiva, quasi primitiva, ma di grande talento: giunse a Parigi giovanissima, ma presto divenne la modella dei più geniali artisti del quartiere di Montparnasse, rendendone memorabili le opere. Montparnasse a cavallo tra Ottocento e Novecento fino alla Seconda guerra mondiale fu il quartiere più stravagante di Parigi, capace di attrarre scrittori, artisti e musicisti provenienti da tutto il mondo: tra questi solo per fare i nomi più celebri, vi furono Modigliani, Picasso, Matisse, Dalì, Mirò, Giacometti, Van Gogh e molti, molti altri.
Picasso mi dava l’impressione di uomo consapevole di tutto ciò che accadeva intorno a lui nel mondo in generale, un uomo che reagiva violentemente a tutte le avversità, ma aveva un solo strumento per esprimere i suoi sentimenti: la pittura. Man Ray

Man Ray, Le violon d'Ingres
Questa fu l’epoca d’oro per la fotografia di Man Ray che non si stancò mai di ritrarre il mondo fatto di ballerine, danzatrici esotiche, spogliarelliste, contorsioniste, cantanti, modelle e donne che lavoravano nei locali notturni di Montparnasse e tra queste vi fu anche Kiki. Ma a differenza delle altre lei instaurò un rapporto unico e tempestoso con Ray, fatto di separazioni e riconciliazioni, dominato dalla passione. La giovane donna fu per l’artista l’incarnazione della sensualità, una vera e propria statua di carne. Ed eccola qui in una delle opere più celebri di Man Ray, Le Violon d'Ingres in cui è immortalata con la schiena nuda. Kiki è seduta su quello che sembra essere il bordo di un letto, coperto con un tessuto a quadri. Di lei non vediamo le gambe e le braccia perché sono completamente piegate in avanti: quello che emerge del suo corpo è solo la curvatura delle spalle, il profilo dei fianchi e quello dei glutei.

Kiki de Montparnasse
I suoi fianchi sono drappeggiati con un secondo tessuto che forma una specie di corona sottolineando, più in basso, i morbidi glutei. La luce proveniente da destra illumina la schiena della donna in modo quasi uniforme, mettendo in risalto il candore del suo corpo che si distingue dallo sfondo molto più scuro. Il volto della modella è girato di tre quarti verso sinistra, lasciando solo intravedere il suo profilo, una lunga collana e un orecchino pendente. Indossa un turbante che ci riporta a uno dei miti dell’erotismo occidentale nel XIX secolo: l’odalisca, più volte rappresentata dagli artisti nelle loro opere. Le odalische erano delle schiave vergini, che potevano poi diventare concubine o spose nei serragli dell'Impero ottomano e che entrarono nell’imaginario erotico d’occidente.


Ma perché un titolo tanto strano? Le Violon d’Ingres che tradotto sta a significare "Il violino d’Ingres". E’ presto detto. Dopo aver stampato la fotografia Man Ray non si accontentò del risultato e aggiunse un dettaglio che in un certo senso la avvicina a un dipinto: con dell’inchiostro nero realizzò sulla schiena di Kiki le due fessure che si ritrovano sulla cassa dei violini, chiamate "effe" perché hanno la forma di quella lettera dell'alfabeto nella scrittura corsiva. Ed ecco spiegato quindi una parte del titolo dell’opera: "violon". Perché le due fessure aggiunte dall’artista e i contorni enfatizzati del corpo lo trasformano in un violino fatto di carne e ossa.


Resta la seconda parte del titolo, "d’Ingres". Il riferimento è a Jean-Auguste-Dominique Ingres, pittore francese vissuto nel XIX secolo, considerato uno dei maggiori esponenti della pittura neoclassica. Ingres ispirò Man Ray nella realizzazione di questa foto: Le Violon d'Ingres attinge proprio al personaggio dell’odalisca, molto ricorrente nell’opera del pittore francese. In particolare Ray fa riferimento alla figura di spalle intenta a suonare presente nell’opera Il bagno turco, opera completata nel 1859, realizzata senza modelli, ma grazie ai molti disegni e dipinti precedenti. La figura di spalle, nuda e con il turbante in testa è praticamente identica alla donna raffigurata nella celebre Bagnante di Valpinçon, un altro dipinto sempre di Ingres, datato 1808.

Jean-Auguste-Dominique Ingres. Bagnante di Valpinçon
Come nella fotografia di Man Ray queste donne rappresentate da Ingres sono nude, viste di schiena e indossano un turbante. C'è un'altra fotografia di Ray datata 1924 e oggi considerata uno studio preliminare de Le Violon d’Ingres: questa immagine mostra Kiki seduta su una sedia, con il busto ruotato di tre quarti e il viso di profilo. Lei porta lo stesso turbante e con le mani trattiene la stessa stoffa intorno ai fianchi. Possiamo immaginare che il cambiamento del punto di vista e la decisione di immortalare Kiki di schiena per metterne in risalto le curve creando il parallelo col violino, sia venuto in mente a Man Ray più tardi.

Jean-Auguste-Dominique Ingres
Il titolo dell’opera quindi fa riferimento alla più grande passione d’Ingres dopo la pittura: la musica. L’artista era infatti un ottimo violinista e probabilmente se la pittura non fosse stata la sua più grande vocazione, avrebbe intrapreso la carriera di musicista. Il fatto che allo stesso tempo fosse un pittore famoso e un abile violinista, generò un modo di dire, che fu molto utilizzato verso la fine dell’Ottocento in Francia e che recitava proprio come il titolo di quest’opera di Man Ray: Le Violon d’Ingres. Dire a qualcuno che ha un "Violino d’Ingres", significa che questa persona, oltre a essere brava nel proprio lavoro, porta avanti in parallelo con lo stesso successo anche una passione.

Più semplicemente quindi possedere un "Violino d’Ingres" significa avere un hobby ed essere molto bravi nel coltivarlo. Molti di noi possiedono ne possiedono uno, portandolo avanti insieme al proprio lavoro, dedicandovi impegno, cura e dedizione costante. E’ un modo che permette di evadere dalle delusioni, dalla rabbia e dall’insoddisfazione che un lavoro può procurarci e a volte capita anche che un hobby arrivi a sostituire il lavoro stesso. Quando si parla di artisti però un passatempo può coincidere con un vizio: droga, alcol e donne tanto per intenderci. In questo caso Man Ray, con tutta l’ironia e l’irriverenza che lo contraddistingue ci fa capire qual è il suo "Violon d’Ingres": Kiki de Montparnasse e più in generale le donne, una passione che coltivò con la stessa dedizione con cui si applicò all’arte. Non resta altro allora se non chiederci quale sia il nostro di "Violon d’Ingres".

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Man Ray
Fotografia come arte

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Ambasciatori, Hans Holbein il Giovane

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Hans Holbein il Giovane, ambasciatori, 1533
Quest’opera è tra le più celebri della National Gallery oltre a essere un vero e proprio quadro-rebus, per la grande quantità di oggetti e di significati simbolici nascosti in esso. Il dipinto è opera di Hans Holbein il Giovane, importante pittore e incisore tedesco, attivo prima a Basilea, in Svizzera, e poi in Inghilterra alla corte di re Enrico VIII. Protagonisti della tavola dipinta sono due ricchi, istruiti e potenti giovani, vissuti nel XVI secolo. Sulla sinistra vediamo Jean de Dinteville, di 29 anni, ambasciatore francese in Inghilterra.

A destra si trova il suo amico venticinquenne Georges de Selve, vescovo di Lavaur, comune del sud della Francia, che in diverse occasioni ricoprì il ruolo di ambasciatore presso l'imperatore Ferdinando I d’Asburgo, la Repubblica di Venezia e la Santa Sede. L’immagine quindi, fissa un incontro tra due cari amici, ma è molto di più che un semplice ritratto.

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Alle spalle dei due giovani infatti, davanti a una sontuosa tenda di broccato di seta verde vediamo un alto tavolino con due ripiani su cui fanno bella mostra, libri, oggetti e strumenti. Sul ripiano superiore, che simboleggia il mondo celeste, sono collocati un globo celeste, una meridiana portatile e altri strumenti utilizzati per lo studio dei cieli e la misurazione del tempo. Tra gli oggetti del ripiano inferiore, che rappresenta il mondo terrestre, scorgiamo un liuto, un libro di inni musicali, un libro di aritmetica e un globo terrestre. I due uomini con le loro figure verticali, imponenti e riccamente abbigliate, sovrastano i due ripiani e quindi il regno celeste e quello terreno.


Alcuni dettagli potrebbero essere interpretati come riferimenti alle divisioni religiose dell’epoca: nel 1533 avvenne infatti lo scisma anglicano di Enrico VIII durante il quale la Chiesa d'Inghilterra ruppe con l'autorità papale e la Chiesa cattolica romana. La corda rotta del liuto, per esempio, può significare discordia religiosa, mentre il libro di inni può essere un appello all'armonia cristiana.
Ma la vera curiosità sta in quella strana striscia obliqua collocata sul pavimento tra le due figure. In realtà è l'immagine distorta di un teschio, così nascosto a uno sguardo poco attento, simbolo di mortalità. Se ci si sposta a destra dell'immagine la distorsione viene corretta. Si tratta di un oggetto simbolico che richiama la morte. Questi due uomini sono quindi consapevoli della loro mortalità e del fatto che la salvezza si trova attraverso Dio e la vita dopo la morte, messaggio che viene confermato dal piccolo crocifisso d'argento in alto a sinistra, seminascosto dal tendaggio.


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Il cavaliere azzurro, Wasilij Kandinskij

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Ed eccoci a una nuova opera che voi stessi avete votato di più tra quelle dell'artista russo Wasilij Kandinskij, nel sondaggio realizzato nella →community di Artesplorando su Facebook.
Der Blaue Reiter, tradotto in italiano Il cavaliere azzurroè forse il più importante dipinto di Kandinskij realizzato nei primi anni del Novecento. L'opera fa ancora parte del periodo figurativo dell'artista che poi cominciò a sviluppare il suo stile astratto unendo suoni, colori e pittura. Il dipinto rappresenta un cavaliere con un mantello blu in sella al suo bianco destriero, lanciato in una folle corsa attraverso un prato verde. L'opera non può definirsi astratta perché sono ancora ben identificabili la figura del cavallo e il paesaggio che fa da sfondo, ma la pennellata non è precisa e abbiamo l'impressione di trovarci di fronte a uno schizzo veloce o a un semplice abbozzo.

Questa incompiutezza dell'immagine permette sicuramente a noi spettatori di proiettare le nostre fantasie e i nostri pensieri sulla figura rappresentata, consentendoci di fantasticare su chi possa essere il misterioso cavaliere e su quale sia la sua destinazione. Questo dipinto quindi ci coinvolge e ci rende un po' partecipi del processo creativo perché cerchiamo in esso una storia. Si tratta di una tecnica per catturare l'attenzione di noi spettatori che Kandinskij utilizzò spesso nelle sue opere successive che con il tempo divennero sempre più astratte,.

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Quest'opera è datata 1903 per la precisione e risale al periodo durante il quale l'artista russo visse a Monaco di Baviera. Nella città tedesca insieme a Franz Marc fondò l'associazione del "Cavaliere azzurro", un gruppo di artisti attratti interessati alla tensione spirituale presente nelle ricerche condotte da Kandinskij. Gli artisti del "Cavaliere azzurro" si ispiravano a Van Gogh, a Gauguin, al Klimt più astratto e agli espressionisti tedeschi. Erano inoltre molto attratti dalle forme essenziali e spontanee dell'arte primitiva e dalla libertà espressiva del mondo infantile, estraneo a ogni regola. Tutte caratteristiche che ritroviamo in quest'opera che con i suoi colori puri e le forme semplificate sembra cercare una rappresentazione diversa da quella del reale. Dopo un periodo figurativo, Kandinskij si allontanò dal soggetto e dalla raffigurazione del reale e nel 1910 realizzò il primo acquerello astratto della storia dell'arte. Ma questa è un'altra storia.

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Der Blaue Reiter, il Cavaliere Azzurro

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Bosch, una vita che resta ancora un mistero

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Hieronymus Bosch, trittico del Giardino delle Delizie, 1500 c.
Della vita di Bosch conosciamo molto poco perché i documenti giunti fino a noi non ci raccontano nulla della sua formazione, dei suoi lavori e delle fonti a cui l’artista attinse per realizzare le sue opere. Le cose certe quindi sono ben poche. Una di queste è la nascita del pittore che sappiamo avvenne a ‘s-Hertogenbosch, Bois-le-Duc in francese, località che oggi si trova in territorio olandese, attorno al 1453. La sua famiglia, originaria forse di Aquisgrana, si era stabilita a ‘s-Hertogenbosch da almeno due generazioni.

Bosch respirò fin da subito un’aria artistica poiché sia il nonno Jan, sia il padre, Anton van Aken, esercitavano il mestiere di pittore. La prima volta però in cui Hieronymus viene citato in un documento ufficiale risale al 1474, quando firmò insieme al padre un pagherò di 25 fiorini renani, somma da restituire in tre rate. Sappiamo inoltre che nel 1481 Bosch era sposato con Aleyt, figlia dell’agiato borghese Goyarts van der Mervenne, dalla quale non ebbe figli.

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Dal 1486 in poi è citato come membro della confraternita della Vergine, ma la sua appartenenza a questo gruppo religioso non consente comunque di spiegare le fonti della sua fervida ispirazione. La confraternita riuniva membri laici e religiosi, devoti in particolare alla Vergine, aveva una sua cappella, consacrata alla Madonna, nella cattedrale di San Giovanni a ‘s-Hertogenbosch e spesso commissionava opere d’arte per decorarla. Dobbiamo dire però che Bosch non ricavò nessun vantaggio economico dalla sua posizione all’interno della confraternita, eseguendo molte altre commissioni che con essa non avevano nulla a che fare.

Hieronymus Bosch, trittico dell'adorazione dei Magi, 1510 c.
Ma come dicevamo, non abbiamo materiale sufficiente per tracciare con sicurezza la carriera del pittore. Le rare menzioni di incarichi conferiti all’artista non hanno potuto ricollegarsi a opere note e la sua evoluzione stilistica è stata ricostruita solo grazie a ipotesi fondate sull’analisi dei dipinti. Sicuramente Bosch fu un pittore molto prolifico, ce lo confermano il gran numero di opere giunte fino a noi e i documenti che ci descrivono i dipinti perduti. Basta pensare che già cinquant’anni dopo la morte dell’artista circolavano imitazioni sia dei dipinti, sia della firma di Bosch. Ma nonostante la grande fama ottenuta dal pittore continuiamo oggi a non poter citare, tra le opere arrivate fino a noi, anche solo una che sia collegata a un documento certo, come un inventario o una ricevuta di pagamento.  Allo stesso tempo quando siamo in possesso di documenti chiari, le opere citate non esistono più o almeno non sono individuate. Insomma un artista che per musei, storici dell’arte e studiosi, rappresenta una sfida e un rompicapo ancora da dipanare.

Hieronymus Bosch, autoritratto?, 1550 c.
Come molti altri pittori Hieronymus ebbe sicuramente un’evoluzione stilistica nel corso del tempo. I dipinti più antichi di Bosch non si distinguono troppo per originalità, benché l’artista già vi introducesse elementi strani come personaggi dalle facce quasi caricaturali. Sì perché quando si parla di Bosch non si può fare a meno di parlare d’originalità, nonostante l’artista abbia prodotto un gran numero di opere convenzionali per l’epoca, rappresentanti ad esempio episodi religiosi della vita e della passione di Cristo. Quello che ancora oggi ci attira in questo pittore sono le scene diaboliche, un mondo fatto di sogni e di incubi con volti crudeli e ghignanti, fiamme, torture e invenzioni totalmente surreali. Il carattere distintivo essenziale di Hieronymus Bosch, rispetto a tanti altri artisti del suo tempo, è la vivacissima immaginazione che lo portò a popolare le sue opere con creature strane, allo stesso modo bizzarre e spaventose, tali da colpire l’attenzione di chi guarda.

Questo immaginario fantastico ci stupisce e ci fa domandare: a chi si ispirò Bosch? Quale fu il suo maestro? Dovendo procedere per ipotesi, l’idea più semplice e logica è che si sia formato con il padre pittore che probabilmente seppe dare al figlio un’istruzione adatta. Nell’indagare le fonti di Bosch spesso però ci si dimentica dei Bestiari, una particolare categoria di libri con brevi descrizioni di animali reali e immaginari, e dei manoscritti miniati con scenette maliziose che sicuramente sono i precursori del mondo fantastico dell’artista. Altra fonte probabilmente è data dai maestri tagliapietre che usavano decorare i capitelli delle colonne delle cattedrali con facce e figure grottesche. E dopotutto la stessa città natale di Bosch è dotata di una bella cattedrale.

Hieronymus Bosch, la nave dei folli, 1494
Per quanto riguarda la tecnica pittorica Hieronymus, si colloca in una categoria a parte: l’artista infatti nelle sue opere rifiuta i dettagli e i volumi plastici. La sua è un’esecuzione piatta, a due dimensioni, molto più grafica che pittorica, forse proprio ispirata alle illustrazioni miniate dei codici manoscritti. L’artista dedicava la massima attenzione al disegno preliminare, tracciato sullo sfondo bianco delle sue opere, su cui stendeva strati trasparenti e successivi di colore. Fu uno dei primi artisti a fare disegni come lavori indipendenti e non preparatori per altre opere. Pensate che ad oggi disponiamo solo di una quarantina di opere firmate dall’artista e soltanto per non più di otto fra queste siamo in grado di accettare tali firme come originali del maestro. Un gran numero dei dipinti di Bosch sono realizzati su tela, ma la sua opera forse più importante è su tavola.

Hieronymus Bosch, Ecce Homo, 1475-80
Il trittico del Giardino delle delizie, ha suscitato nel corso della storia dell’arte e suscita ancora oggi stupore e ammirazione. Sul rovescio delle ante è raffigurata la creazione del mondo, con una visione di potente poesia, dove gli elementi si separano in un globo emergente dall’oscuro nulla. Aperto, il trittico presenta, tra il Paradiso e l’Inferno, il Giardino di delizie: paesaggio fantastico, magico intreccio di corpi nudi, certe volte associati a coppie, altre volte contrapposti in gruppi e accompagnati da enormi forme vegetali e animali insoliti. La maggioranza dei dipinti di Bosch raffigurano soggetti della tradizione cristiana, ma altri trattano tematiche morali, e spesso illustrano l’avarizia e la credulità dell’uomo in modo originale. Tra le opere più belle dell’artista possiamo citare: l'Ecce Homo di Francoforte in cui si fronteggiano Gesù e Pilato tra una folla di volti grotteschi; Il carro di fieno, ora al Museo del Prado di Madrid, che descrive la frenesia e il caos della vita quando viene guidata dalle passioni e dai vizi; o ancora la Nave dei folli, esposta al Museo del Louvre, ispirata dall’omonimo poema satirico. In altri dipinti Bosch ci ha descritto i sette peccati capitali, il diluvio, l’aldilà, la morte di un avaro, sempre con un orientamento guidato da un impegno morale. L’artista infatti voleva mostrare attraverso invenzioni e allegorie come doveva vivere un buon cristiano e a cosa potevano portare certe scelte sbagliate.

Hieronymus Bosch, trittico del Carro di fieno, 1516
Un’altra data certa che chiude la vita dell’artista è ovviamente quella della sua morte che avvenne il 9 agosto 1516. Il funerale fu celebrato in forma solenne nella Cappella di Nostra Signora, appartenente alla Confraternita di cui il pittore faceva parte, all’interno della grande cattedrale di San Giovanni. Alla sua morte, la fama di Bosch era già diffusa lontano dalla sua città: in Spagna la regina Isabella possedeva tre suoi dipinti, e a Venezia il cardinal Domenico Grimani ne possedeva cinque. Attraverso le incisioni le sue opere si diffusero in tutta Europa, ma fu in Spagna che Bosch trovò i maggiori sostenitori. Filippo II fu il suo più grande collezionista tanto da tenere proprio un quadro dell’artista appeso nella sua camera da letto. In Spagna il pittore continuò a essere ammirato anche quando altrove fu dimenticato. Solo nel XIX secolo infatti si risvegliò l’interesse nei suoi confronti in particolare grazie al gruppo di artisti dell’avanguardia surrealista, come Dalì e Mirò che guardarono al pittore olandese come a un precursore.

L’opera di Bosch è un esempio eccezionale nell’arte del suo tempo anche per il suo senso del mistero e la ricchezza d’invenzione iconografica. Nel corso dei secoli l’artista fu riconosciuto come creatore di diavolerie e ancora oggi alle sue mostre il pubblico si accalca davanti ai dipinti di carattere fantastico, ignorando in pratica tutti gli altri. Possiamo dire che il merito più grande di Bosch consiste nell’essere stato il primo a trasferire le scene infernali dalle pagine dei manoscritti ai grandi dipinti su tela o tavola, rendendole così accessibili alla gente comune. Il popolo infatti non leggeva e non studiava questi libri conservati nelle biblioteche quindi l’unico modo per mostrare ai fedeli queste scene era portarle nelle chiese, sugli altari e nelle cappelle. E ci possiamo immaginare le persone d’allora che, come davanti a un film dell’orrore, sbirciavano incuriosite, terrorizzate e allo stesso tempo deliziate. In fondo il grottesco e la caricatura hanno sempre attratto l’essere umano come una potente calamita.

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→ Paesaggi - il Paradiso del trittico delle delizie

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La città che sale, Umberto Boccioni

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Umberto Boccioni, la città che sale, 1910
Questo dipinto è uno dei più importanti mai realizzati da Boccioni. La città che sale è un’opera compiuta nel 1910 di 200 x 290 cm prodotta con la tecnica dell’olio su tela. Ha un titolo che suona strano, perché associa alla città, l’azione del salire. Ma cosa vuol dire? Come può una città salire? C’è in effetti un significato dietro questa rappresentazione caleidoscopica. L’artista in quegli anni era come una spugna e assorbiva tutte le novità e i fermenti della sua epoca. Un’epoca che venne contraddistinta da importanti cambiamenti socioculturali e il lavoro fu uno dei campi che subì maggiormente queste rivoluzioni.

Erano cambiati i ritmi e le modalità di produzione, era cambiata la classe operaia che in fabbrica ci lavorava. Il proletariato assunse coscienza di sé e cominciò a comprendere il proprio potere nello stare unito per ottenere nuovi diritti. Esplosero così i primi scioperi italiani, che cominciarono a diventare fonte d’ispirazione per gli artisti. E infatti è proprio uno sciopero cittadino, in una città, Milano, che cominciava a crescere come le altre d’Europa che Boccioni prese come riferimento per realizzare questo dipinto.

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Anticipata da numerosi bozzetti, originariamente l’opera doveva intitolarsi Il lavoro e far parte di un trittico. Fu presentata per la prima volta alla Mostra d’arte libera di Milano del 1911. Nel 1912 venne comprata dal musicista Ferruccio Busoni, a Londra, durante la mostra d’opere futuriste che fece tappa in diverse città d’Europa. Oggi è esposta al Museum of Modern Art di New York.
È un’opera particolarmente importante perché costituisce la prima creazione futurista di Boccioni, nonostante ci siano ancora elementi realistici che riusciamo a distinguere nel groviglio pittorico, come le costruzioni industriali o il cantiere, il tutto inserito in uno spazio reso prospetticamente. La città che sale rappresenta un frammento di città in tumulto, in crescita e molto probabilmente si tratta della periferia di Milano.

Uno dei bozzetti che hanno preceduto l'opera
In primo piano degli uomini tentano di trattenere dei cavalli imbizzarriti, disperatamente fusi in uno sforzo dinamico. Sullo sfondo, partendo da sinistra vediamo il tram elettrico, le impalcature di nuove strutture in costruzione, le ciminiere fumanti, una piccola folla, uomini che gridano, il tutto in un vortice pittorico costruito con direttrici di tensione dinamica. Nella composizione prevalgono le linee curve che descrivono il movimento vorticoso degli uomini e dei cavalli, mentre sullo sfondo le linee rette slanciano la città verso l’alto, oltre la tela. L’artista qui impiega la tecnica divisionista, che prevedeva appunto l’applicazione di colori puri, luminosi e brillanti divisi in tante piccole pennellate rapide e filamentose: dominano la scena il rosso, il blu e il giallo, i tre colori primari, ma anche il bianco che conferisce al dipinto una luminosità abbagliante.


Il risultato crea un forte dinamismo da cui la scena è attraversata, come se potessimo percepire le scintille d’energia di movimento, di attrito e di resistenza. Fu lo stesso Boccioni, all’esposizione di Milano del 1911, a commentare il quadro: "Le linee di forza convogliano le energie del dipinto in molteplici direzioni, trascinando lo spettatore che sarà quindi obbligato a lottare anch’egli coi personaggi del quadro". La metropoli moderna plasmata sulle esigenze del nuovo concetto di uomo del futuro, l’esaltazione del lavoro dell’uomo e il progresso furono tutti temi molto cari al futurismo. Quello però che allinea il quadro con lo spirito futurista è la celebrazione visiva della forza e del movimento, della quale sono protagonisti uomini e cavalli e non macchine. I cavalli impetuosi per esempio, spesso realizzati nell’opera di Boccioni, rappresentano la vitalità di una città in evoluzione e in fermento.

Uno dei bozzetti che hanno preceduto l'opera
Ma qualcosa nel dipinto non torna: dato che le architetture presenti sono frutto di un collage tutto mentale, esse presentano delle prospettive dissonanti. L’opera mostra infatti la ricerca di "una sintesi di quello che si ricorda e quello che si vede", abbandonando parzialmente la visione naturalistica dei quadri precedenti da cui Boccioni era partito nel suo percorso di crescita artistica. L’artista in questo dipinto rende visibile il mito attraverso l’immagine, il mito dell’uomo moderno, artefice di un nuovo mondo. In parole povere l’intento dell’artista fu quello di fissare sulla tela il frutto del nostro tempo industriale. Il soggetto quindi, da rappresentazione di un normale istante di caos cittadino, si trasforma nella celebrazione dell’idea del progresso industriale con la sua inarrestabile avanzata, ben simboleggiato dal cavallo che viene inutilmente trattenuto dagli uomini attaccati alle sue briglie.


La città che sale è uno splendido esempio di unione d’avanguardie e movimenti che Boccioni realizza in un’unica opera. La tensione dinamica del divisionismo qui diventa dinamica futurista, la pittura figurativa diventa astratta. Sì, perché in fondo questo è anche un dipinto astratto, nonostante siano distinguibili delle figure e delle strutture. All’epoca di Boccioni si aprì proprio la strada, con le avanguardie storiche, che condusse gli artisti a nuovi modi di rappresentazione che andarono verso l’astrazione e la negazione delle forme. L’astrazione è resa possibile solo perché noi pensiamo attraverso cose vere e riconoscibili e questo ci dà modo di essere astratti, negando quelle stesse cose reali o utilizzandole in maniera del tutto inusuale.
In fondo noi riusciamo a essere astratti perché siamo veri.

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→ Umberto Boccioni

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Jean-Auguste-Dominique Ingres un pittore tra onori e rimproveri

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Jean-Auguste-Dominique Ingres, dettaglio dell'autoritratto
Jean-Auguste-Dominique Ingres nacque nel 1780 a Montauban, città francese posta ai piedi della catena montuosa dei Pirenei. Suo padre, Jean-Marie-Joseph, fu un pittore e scultore minore che non lasciò un segno particolare nella storia dell’arte. Il giovane Ingres molto probabilmente quindi si avvicinò all’arte sbirciano il lavoro del padre, incuriosito dagli oggetti e dai materiali della sua bottega. Il padre dal canto suo insegnò al figlio il disegno, e anche il violino. La musica, dopo la pittura, fu la grande passione dell’artista che divenne persino secondo violino nell’orchestra del Capitole di Tolosa.

Questa sua passione fece poi nascere un modo di dire in Francia per cui il "violon d’Ingres" identificò le passioni che ognuno di noi porta avanti brillantemente, oltre al proprio lavoro.
Ma la prima istruzione di Dominique avvenne al collegio dei Fratelli delle scuole cristiane di Montauban: fu molto limitata e l’artista la rinnegò per tutta la vita. Dopo una formazione avvenuta all’Accademia di Tolosa, l’artista si trasferì a Parigi nel 1797 per entrare nello studio di Jacques-Louis David. Nel 1801 vinse l’importante Prix de Rome, una borsa di studio creata dallo stato francese a favore degli studenti più bravi nel campo delle arti.

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Il premio prevedeva la possibilità di studiare all'Accademia di Francia a Roma, ma a causa dell’instabilità politica del suo paese, Ingres fu costretto a posticipare il suo viaggio al 1806. In questo periodo realizzò i suoi primi ritratti, principalmente di sé stesso e dei suoi amici, ma anche di clienti benestanti parigini. Queste opere sono caratterizzate da contorni espressivi e da una bellezza sensuale. Quando l’artista giunse a Roma per i primi anni continuò a cimentarsi nel ritratto, ma iniziò anche a realizzare bagnanti, un tema che sarebbe diventato uno dei suoi preferiti. La bagnante di Valpinçonè un esempio perfetto di questo tema.

Jean-Auguste-Dominique Ingres,
La bagnante di Valpinçon, 1808
La sua borsa di studio terminò dopo quattro anni, ma Ingres decise ugualmente di restare a Roma dove si guadagnò da vivere realizzando i ritratti dei membri della colonia francese. Nel 1820 si spostò da Roma a Firenze dove restò per quattro anni, studiando le opere di Raffaello e lavorando a importanti commissioni per il governo francese. In questo periodo l’opera del pittore fu ampiamente criticata perché divergeva troppo dalla classicità e perfezione del suo maestro, David. Ma quando presentò al pubblico del Salon parigino del 1824 l’opera Voto di Luigi XIII, ebbe un grande successo e divenne lui stesso il leader del gruppo di accademici che si opponevano al romanticismo di Eugène Delacroix.

Jean-Auguste-Dominique,
Voto di Luigi XIII, 1924
Ingres a Parigi nei dieci anni che seguirono raccolse successi e onorificenze, confermandosi come uno dei pittori francesi più importanti e amati. Nel 1835 l’artista accettò il ruolo di direttore dell’Accademia di Francia a Roma, diventando un amministratore e insegnate modello, migliorando le condizioni dell’accademia stessa. Il pittore fece diverse trasformazioni alla struttura della villa, organizzò una biblioteca, arricchì le collezioni di calchi e di sculture antiche e fondò un corso di archeologia. Ingres in questo periodo dipinse poco, ma fece un viaggio a Ravenna, dove disegnò i monumenti bizantini, a Urbino, in pellegrinaggio raffaellesco e ad Assisi, dove copiò gli affreschi di Giotto.

Jean-Auguste-Dominique Ingres,
Monsieur Bertin, 1832
Nel 1841 tornò in Francia, considerato da critici e artisti come il punto di riferimento per i valori della pittura classica tradizionale: la sua fama crebbe di continuo, portandogli numerosi importanti incarichi di decorazioni monumentali. La morte della moglie nel 1849 sconvolse Ingres che però riuscì a risposarsi nel 1852 all’età di 71 anni con Delphine Ramel, ritrovando un po’ di felicità. L’artista lavorò con passione ed energia fino alla morte giunta nel 1867 quando aveva superato gli ottant'anni. Lasciò in eredità alla sua città d’origine, Montauban, un gran numero di dipinti e più di 4.000 disegni che ancora oggi sono conservati nel museo intitolato al pittore.

Jean-Auguste-Dominique Ingres,
Princess de Broglie, 1851-53
La carriera di Ingres è sicuramente piena di contraddizioni perché, nonostante dopo la sua morte venne eletto come esempio della tradizione classicista francese, agli inizi della sua carriera fu aspramente criticato dagli ambienti accademici. Sebbene si pensasse a questo artista come a un guardiano delle regole e dell’ordine classico, la sua bellezza risiede invece nelle distorsioni e nelle libere interpretazioni che attuò nelle sue opere. Un esempio su tutti è la Grande Odalisca in cui il pittore per raggiungere un ideale di perfezione fece una schiena esageratamente lunga, tanto che i critici dissero che sembrava avesse tre vertebre di troppo.  Il pregiudizio corrente, che ne fece un pittore "accademico", è perciò privo di fondamento. Malgrado le sue ambizioni, Ingres fu prima di tutto un realista e un visivo, non un uomo d’immaginazione.

Jean-Auguste-Dominique Ingres, Grande Odalisca, 1814
Queste qualità non sono peraltro quelle che fanno il grande "pittore di storia" che lui credeva di essere, genere nel quale spesso fallì. L’artista riuscì invece magistralmente nel nudo e nel ritratto: ha lasciato in questi due campi alcuni tra i capolavori dell’arte universale, non soltanto nei dipinti, ma anche nei molti studi disegnati e nei ritratti a matita, che costituiscono la parte più popolare della sua arte. Al di là di tutte queste considerazioni però bisogna pensare che Ingres ebbe un’importante influenza su chi venne dopo di lui: fu ammirato infatti da molti artisti come il francese Edgar Degas o lo spagnolo Pablo Picasso. Inoltre diede vita a uno stile particolare detto "troubadour", sviluppatosi in Francia agli inizi del XIX secolo. Le opere di questa corrente artistica raffigurano scene ispirate al medioevo e al rinascimento. Quando si parla di Ingres quindi si deve tener conto che con il suo stile, all’apparenza convenzionale, mise in discussione quell’arte degli accademici che lo avevano tanto celebrato.

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→ Romanticismi - il bagno turco
→ Jean-Auguste-Dominique Ingres ritrattista

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Ballo al Moulin de la Galette, Pierre-Auguste Renoir

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Il Ballo al Moulin de la Galette, che Pierre-Auguste Renoir realizzò nel 1876, rappresenta una delle opere più importanti nella prolifica produzione dell’artista, esponente di spicco del movimento impressionista. Il dipinto venne esposto nel 1877, in occasione della terza mostra del gruppo. Renoir, come gli altri artisti del movimento, si interessò alla pittura en plein air, ma a differenza degli altri impressionisti, conservò sempre una particolare preferenza per la figura umana, restando a modo suo più vicino alla tradizione accademica. Il quadro molto probabilmente non fu eseguito all’aperto, perché la sua dimensione, che raggiunge quasi i due metri di larghezza, lo avrebbe reso molto difficile. Ma quello che conta è la sua ispirazione che è tutta volta alla rappresentazione della luce e
del reale.

Il dipinto è firmato e datato dal pittore in basso a destra e rappresenta un ballo al Moulin de la Galette, un luogo di ritrovo nel quartiere di Montmartre, frequentato dai parigini alla fine dell’Ottocento. Questo popolare locale all’aperto era anche una cantina che offriva il vino prodotto dalle vigne coltivate sulla collina appena fuori dall’amministrazione cittadina. Era il luogo perfetto per un artista che come Renoir volesse ritratte una folla in movimento, perché al Moulin de la Galette si ballava il sabato, la domenica e il lunedì e tutti potevano partecipare.

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In quegli anni il monte di Montmartre aveva per i parigini il carattere di un quartiere quasi di periferia, con case basse, giardini e viottoli di terra battuta. Ma Montmartre era soprattutto il manifesto della vita moderna d’allora, un cantiere per la nuova industria del divertimento. Il Moulin de la Galette era il sinonimo di svago popolare a cui potevano accedere, con un biglietto di soli 8 centesimi, gli operai e le sartine del valzer pomeridiano. Renoir coglie la scena del ballo in pieno pomeriggio domenicale e come in un’istantanea il dipinto fissa un momento di divertimento e spensieratezza, durante il quale le persone e le coppie presenti ballano al suono dell’orchestra, bevono, chiacchierano e ridono. Uomini e donne sono vestiti in modo elegante, ma semplice: in particolare gli uomini portano cappelli di paglia, tipici della bella stagione parigina.

Un dettaglio dell'opera
Ci sembra quasi di sentirlo questo chiasso gioioso, reso tale anche dal sole che filtra attraverso le foglie e i rami creando un gioco di luci e ombre contrastanti. L’ambiente è molto semplice, senza fronzoli lussuosi: vediamo solo alcune panchine da giardino, una sedia di legno come tanti di voi
avranno a casa e dei tavoli senza tovaglia, come quello sulla destra sul quale sono appoggiati bicchieri e bottiglie. E tra queste fa la sua bella mostra quella che sarà la bibita del secolo: l’assenzio.
Per il gruppo di giovani che siedono intorno al tavolo in primo piano e per i danzatori, posarono molti amici di Renoir.


Ce lo racconta George Rivière, scrittore e critico d’arte ammiratore e sostenitore dell’artista: "I personaggi che compaiono nel quadro ci raggiungevano al Moulin ed eravamo spesso assai numerosi. È Estelle, sorella di Jeanne, che vediamo in primo piano sulla panchina da giardino. Ci sono anche Gervex, Crodey, Lestringuez, Lhote e altri, inseriti fra i danzatori. Infine un pittore di origine spagnola, Don Pedro Vidal de Solarès, che veniva da Cuba, è raffigurato al centro del dipinto (…) mentre danza con Margot. Durante le sessioni di ballo la spensierata ed esuberante Margot scuoteva con forza quel povero diavolo di Solarès che lei trovava compassato. Lo faceva piroettare al passo della polka".

Un disegno preparatorio dell'opera
Renoir utilizza colori saturi accostati con rapidi tocchi di pennello, seguendo quelli che in effetti erano i principi dell’impressionismo. Il pittore per rendere l’idea dei raggi di sole che filtrano attraverso le fronde degli alberi, crea una scena immersa in una luce bluastra, inserendo qui e là zone luminose. I volumi e le forme sembrano dissolversi in questa luce che ci appare variabile e tremolante, i profili delle figure sono fluidi e indefiniti. L’artista violò con quest’opera uno dei principi accademici per il quale le figure dovevano essere disegnate in maniera nitida in primo piano per poi perdere definizione con la lontananza. Questa licenza che si prese Renoir, sarà uno dei punti chiave per cui la critica ufficiale muoverà la propria ostilità verso il dipinto. Inoltre il pittore qui ignorò deliberatamente le regole della prospettiva, rappresentando la profondità della scena come viene percepita dall’occhio, con un movimento confuso e vivo.


Il Ballo al Moulin de la Galette è rumore, risate, movimento e sole in un’atmosfera spensierata, è un’opera in cui Renoir seppe cogliere un frammento di vita parigina. Ed è commovente pensare a queste persone vissute quasi due secoli fa, con le loro aspettative, i loro progetti, i loro sogni, colte in un momento di riposo, a ballare, chiacchierare, bere e fumare. Quante cose saranno riusciti a realizzare? Quanto avranno riso o pianto? Quanti di loro si saranno sposati e quanti avranno avuto dei figli? Poco importa perché Renoir ha fissato per noi l’istante migliore, un istante di gioia in cui tutti i sogni sembrano potersi avverare.

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Deposizione di Cristo nel sepolcro, Michelangelo

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Questo dipinto non finito è opera del grande Michelangelo Buonarroti, raro esempio realizzato su tavola, per un artista che si cimentò principalmente nella scultura e nell’affresco. Rappresenta il corpo di Cristo mentre viene deposto nella sua tomba, circondato da una serie di figure la cui reale identità è ancora molto incerta. A complicare l’individuazione dei personaggi, come spesso capita in Michelangelo, sta la loro androginia per cui in certi casi è difficile capire se si tratti di maschi o di femmine.

San Giovanni Evangelista è di solito individuato nella figura che sostiene il corpo di Cristo con la veste rossa e i capelli lunghi. Gli altri sono probabilmente Nicodemo, discepolo di Gesù e Giuseppe d'Arimatea, uomo benestante che cedette la sua tomba a Gesù. Forse la figura inginocchiata a sinistra è Maria Maddalena e la donna all’estrema destra è Maria Salomè, entrambe seguaci di Gesù. La Madonna la vediamo solo a grandi linee su sfondo bianco, in uno stadio di abbozzo, nell'angolo in basso a destra.

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L’opera proviene da una collezione di Roma e la si è recentemente collegata a dei pagamenti ricevuti da Michelangelo tra il 1501 e il 1502 relativi a un dipinto per la chiesa di Sant’Agostino a Roma, che non è mai riuscito a consegnare. Questo spiegherebbe il suo stato incompiuto.
La deposizione è generalmente e unanimemente attribuita a Michelangelo, dal momento che la realizzazione delle figure e i colori brillanti e smaltatati sono simili ad altre opere dell’artista realizzate nello stesso periodo, come il Tondo Doni. La figura inginocchiata a sinistra che sembra meditare su qualcosa stretto nella mano, è pressoché identica a un disegno di Michelangelo conservato al Louvre. Nel disegno, chiaramente uno studio preparatorio per questo personaggio, la donna tiene la corona di spine e i chiodi con cui Cristo era stato crocifisso e a noi contemporanei sembra stia guardando qualcosa sul proprio smartphone.


Michelangelo seppe creare immagini del corpo maschile perfettamente scolpito come pochi altri artisti. Lo vediamo nella particolare posa di Cristo che, appoggiandosi alle figure che lo sostengono, ci permette di ammirare il suo bellissimo corpo nel dettaglio. L’artista aveva 25 anni quando realizzò questo Dio fatto uomo: si tratta di Gesù, il figlio di Dio, e quindi il suo corpo deve essere assolutamente perfetto e ideale. Le sue proporzioni, la consistenza, quel meraviglioso ritmo che si ottiene scendendo dal petto ai piedi sono semplicemente sublimi e magici.
Per questo ci sembra di essere realmente davanti al corpo morto di Gesù.


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Andy Warhol

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Andy Warhol nacque il 6 agosto 1928 a Pittsburgh, in Pennsylvania, da genitori immigrati dall'odierna Slovacchia. Mostrò fin da giovane il suo talento artistico e studiò arte pubblicitaria nella sua città. Ottenuta la laurea nel 1949, decise subito di abbandonare l’aria provinciale di Pittsburgh per cercare fortuna a New York: era sicuro che la Grande Mela gli avrebbe concesso molte più possibilità per esprimere la sua creatività e più sbocchi lavorativi. Riuscì infatti a trovare un impiego presso riviste importanti come Vogue e Glamour. Dopo aver ottenuto importanti contatti nell’ambiente, iniziò a dedicarsi a tempo pieno all’arte e fondò anche un suo personale studio per artisti, la famosa Factory.

Egli riuscì a portare nell’arte i meccanismi della società consumistica in cui viveva, un concetto che tornerà più volte nel corso della sua carriera artistica. A differenza degli artisti sensibili e immersi nella loro opera, gli autori della Pop Art sono volontariamente osservatori neutrali e distanti che propongono la realtà così com’è, indifferenti e oggettivi come una macchina.

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L’artista, questo aristocratico decaduto, si pareggia con la condizione della persona comune che vive in città, interviene all’interno della sfera del consumo; si appropria, opera, manipola, cita, sfigura e trasfigura gli oggetti e le immagini ordinarie di tutti. La cultura popolare è facile e immediata, è fatta di simboli, marchi e oggetti che possono essere riconosciuti in meno di un secondo anche dal più distratto degli osservatori. Lo stesso Warhol era profondamente coinvolto dalla società consumistica e dai mass-media, come più volte raccontava.

Andy Warhol, Marilyn Monroe
Famosa la sua frase sulle città del mondo viste da turista: "La cosa più bella di Tokyo è McDonald’s. La cosa più bella di Stoccolma è McDonald’s. La cosa più bella di Firenze è McDonald’s. A Pechino e Mosca non c’è ancora niente di bello". Secondo Andy Warhol l’arte doveva essere "consumata", esattamente come qualsiasi altro prodotto commerciale. Ribadiva spesso che i prodotti di massa rappresentavano la democrazia sociale e come tali dovevano essere riconosciuti: anche il più povero degli americani beve la stessa Coca-cola che potrebbe bere Liz Taylor o John Kennedy. A tal proposito disse: "Una Coca è una Coca, e non ci sono soldi che valgano a farti avere una Coca-cola migliore di quella che si beve il barbone all’angolo".


Durante la sua carriera, Andy Warhol ha spaziato tra svariate forme d’arte: fu regista di alcuni film sperimentali oggi divenuti dei cult, fu scultore di opere d’arte legate ai prodotti della cultura popolare come lo scatolame, fu anche musicista e collaborò con band importanti della scena rock newyorkese, come Velvet Underground & Nico per cui creò la famosa copertina con l’immagine della banana. Una delle opere più famose dell’artista statunitense è quella che rappresenta il volto immortale dell’attrice Marilyn Monroe. Lo stile è distintivo di Andy Warhol all’interno di questo genere artistico: un’immagine appartenente alla cultura popolare, riprodotta in serie a cui venivano aggiunti degli effetti di colore e ombreggiatura.

Andy Warhol, do it yourself

Nel corso degli anni '80, artista richiestissimo da galleristi e musei, produsse dipinti di grandi dimensioni spesso rifacendosi a temi precedentemente sviluppati o a grandi maestri del passato come
Leonardo, Botticelli, Munch, De Chirico. Protegge e incoraggiò giovani artisti come Basquiat e Francesco Clemente, con cui dipinse a tre mani. Warhol morì nel febbraio del 1987 lasciando in studio i lavori The history on american TV. Sempre nell’87 si costituì la W Foundation for the Visual Arts e iniziarono le mostre retrospettive.


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→ La o le pop art(s)
→ Paesaggi, do it yourself
Andy Warhol e il ritratto ripetuto


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